Rassegna Stampa



Così Kafka incontrò l'uomo che lo spinse alla rivolta

di Giovanni Raboni


Nel mondo espressivo di Moni Ovadia le parole di Kafka entrarono per la prima volta, se non ricordo male, con Oylem Goylem il «Cabaret yiddish» di alcuni anni fa grazie al quale il pubblico italiano, e non soltanto italiano, cominciò a riconoscere in questo straordinario cantante-attore-autore uno dei più grandi, originali e, oserei dire, indispensabili artisti del nostro tempo. Può un critico cedere alla tentazione di rivendicare per sé il merito, o forse soltanto la fortuna, d'averlo intuito con qualche anticipo? No, meglio di no e chiedo scusa di averlo comunque fatto. Ma torniamo alla prima comparsa esplicita di Kafka nel teatro di Ovadia, che fin dall'inizio, come è noto, ha preso su di se il compito dolcissimo e in qualche modo terribile di far rivivere per noi una realtà praticamente cancellata dalla follia criminale nazista: quella, appunto, della cultura yiddish, la cultura popolare ebraica dell'Europa centrale. In Oylem Goylem, a un certo punto Moni leggeva l'elogio della lingua yiddish, scritto da Kafka dopo il suo incontro con un attore di origine polacca, Jizchak Löwy, capocomico di una compagnia ebraica. Questo incontro, che avvenne nel 1911, segnò una svolta nella vita di Kafka. Secondo uno dei suoi maggior studiosi, Giuliano Baioni, esso rappresentò per l'autore deI Processo «l'unica forma di bohème di un uomo altrimenti schivo e assolutamente incapace di atteggiamento di provocazione» e, in termini più profondi, "una vera e propria sfida all'ebraismo del padre e alle sue ambizioni borghesi".
Poteva Moni Ovadia non tornare su questo tema affascinante e cruciale? E' evidente che non poteva; ed, ecco infatti, Il caso Kafka, lo spettacolo da lui ideato e scritto assieme a Roberto Andò, e coprodotto da Crt Artificio e dallo Stabile di Palermo, che è andato trionfalmente in scena l'altra sera al Teatro Studio.
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Non si pensi a un «resoconto» dei rapporti tra i due personaggi: lo spettacolo è innanzittutto un'altra tappa dell'esplorazione musicale e affabulatoria del mondo yiddish condotta, come di consueto, con l'aiuto dei sette componenti (in buona parte rinnovati rispetto alle ultime comparse, ma sempre bravissimi e affiatati) della sua TheatorOrchestra. Ma oltre ad essere se stesso Ovadia è anche e soprattutto stavolta, Löwy; e nello spazio davvero magico creato, con un'implicita dedica al magistero di Tadeusz Kantor, dalle, scene di Gianni Carluccio e alle luci di A. J. Waissbard, il confluire, a volta a volta pacato e frenetico, di presenze umane, di oggetti affettuosamente spettrali e di ombre paradossalmente rassicuramenti dà vita a un racconto non di fatti ma di immagini, di figure di simboli. Con Kafka bambino (invenzione semplicissimo e toccante) al quale Ovadia-Löwy insegna la lingua della comicità e del corpo; con due splendidi artisti «d'arte varia», la cantante Lee Colbert e l'attore-mimo-acrobata Olek Mincer, che si alternano a Moni nei «numeri» del teatrino dentro il teatro su cui la rappresentazione si impernia; con un vecchio, lentissimo cameriere (Ivo Buciarelli) che fa continuamente il giro del suo dominio gremito, in una prospettiva atrocemente profetica, di scarpe senza proprietari: le scarpe delle future vittime dell'olocausto...

Lo spettacolo ha il suo momento di «letterarità» nella citázione - in cui si alternano con esemplare ritegno Ovadia e il piccolo (emozionatissimo, ma proprio per questo efficacissimo) Alexandre Vella - di alcuni passi della «Lettera al padre» di Kafka; ma già prima si era sentita la voce registrata di Bruno Ganz recitare brani dai «Diari» e dai «Quaderni in ottavo». Alla fine,. come in un lungo bis incorporato Ovadia, senza cessare di essere Löwy e, per delega Löwy, Kafka ridiventa "anche" Ovadia; e una volta di più ci rendiamo conto che ci è davvero impossibile, ormai, fare a meno di lui.

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