Rassegna Stampa




Anime in scena, per non dimenticare

di Ugo Ronfani

Milano - Nel '45, finita la guerra, in un caffè di Vienna un avventore ebreo chiede il "Völkischer Beobachter", giornale del partito nazionalsocialista di Hitler. Il cameriere dice che quel giornale non c'è più. Ma il giorno dopo l'avventore rinnova la richiesta e così per quindici giorni. Allora il cameriere fa: "Scusi, signore, perchè tutti i giorni lei mi chiede il "Völkischer Beobachter" se io ripeto che non c'è più?" Risposta: "Appunto per sentirmi ripetere che non c'è più".
Seduto in un angolo del palcoscenico, mentre i fantasmi dell'orchestra dei deportati svaniscono nel nulla, Moni Ovadia chiude "Dybbuk" con questa storiella yiddish. Che assume senso di apologo: un invito a non dimenticare i sei milioni di ebrei morti per la follia nazista ma, anche, a vigilare contro i rigurgiti del razzismo.
Muovendosi con passione e assiduità alla riscoperta della cultura ebraica, che ha già prodotto spettacoli come "Dalla sabbia del tempo" o "Oylem Goylem", Moni Ovadia è approdato ad una rilettura di due testi ormai classici sulla Shoah: il "Canto del popolo ebraico massacrato" del poeta Yitchak Katzenelson, uno dei protagonisti della rivolta del ghetto di Varsavia, morto ad Auschwitz nel '44, un testo concepito "a memoria" e composto su incarico del suo popolo, e "Il Dybbuk" di Shlomo Sanvil Rappoport, detto An-ski, ebreo della Russia Bianca che partecipò alla rivoluzione antizarista e morì esule dopo la vittoria del bolscevismo. Sei milioni di vittime dell'Olocausto sono sei milioni di "dibbuk" che possiedono la coscienza dei sopravissuti, sei milioni di spiriti dei morti che non avranno pace se l'umanità non conserverà memoria dello sterminio. Di qui il titolo e l'idea dello spettacolo.
Il messaggio di "Dybbuk" e questo, alto, fermo, intenso. Ovadia ha preso a modello il Kantor della "Classe morta", ha avuto presente l'espressionismo tragico del russo Dodin e non ha dimenticato per chiudere il tono epico-didattico di Brecht. Ma lo spettacolo, modelli a parte, ha una sua autonomia per la passione che lo anima, per le virtù espressive e recitati e delle canzoni yiddish introdotti in italiano da Ovadia, e della materia musicale che impasta o contrappone il folk ebraico, temi boemi, canti popolari e gli inni nazisti, i clangori wagneriani, le raffiche delle armi, lo sferragliare dei treni della deportazione. Angosciato, fremente, il Testimone cui dà vita, grande interprete, Moni Ovadia, canta e dice la solitudine, la disperazione, l'orrore. Non c'è retorica: così è stato; l'avevamo dimenticato?

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