Rassegna Stampa




Inno alla poesia dell'uomo

di Enrico Fiore

Ricordate Hoffmannsthal? "Corre il vento di primavera, / (...), / vi sono strane cose / nel suo soffiare. / Si è cullato, / dove c'era pianto, / (...), / labbra ha toccato / aperto al riso"...
Certo l'altra sera soffiava un vento piuttosto in anticipo sulla primavera. Ma il fatto è che lì, al Mercadante di Napoli, c'era un suo vecchio amico: Moni Ovadia, l'ebreo errante che conosce le "strane cose" cullate dal vento perchè, come lui, molto paesi e molte genti ha visto, e da tutti ha preso qualcosa. Poichè proprio questo sono la cultura e la lingua Yiddish, un ventoso girovagare - nella malinconia e nell'ansia della diaspora - fra innumerevoli culture e lingue altre, innestando sull'originario ceppo ebraico i valori, le tradizioni e le parole polacchi, russi, ucraini, rumeni, cechi e tedeschi.
Per oltre due ore Moni incatena il pubblico con il suo cabaret "Oylem Goylem". E il segreto di tanto successo sta nel carattere precipuo della cultura di cui parliamo, unica e forte in grazia di un'unica e forte capacità d'autoironia: giacché per l'appunto la forza e l'autoironia in questione costituiscono - come avveniva anche nella splendida "Ballata di fine millenio" che vedemmo, sempre al Mercadante, due anni fa - il motore inesauribile dello spettacolo presentato dal CRT Artificio.

Ecco, dunque, le mille storielle intinte nell'irresistibile "Witz" ebraico e quasi tutte centrate sul tema del "rapporto mitico e mistico" che i figli del popolo eletto intrattengono col danaro. Ed ecco, alternate a queste storielle, i brani della musica Klezmer: anch'essa vorticosa e onnivora come il vento perchè, guarda caso, nata dall'incontro e dall'interscambio tra la cultura Yiddish e i suoni e ritmi del popolo, quello zingaro, protagonista dell'altra grande diaspora europea.
Musica totale, la musica Klezmer: dal momento che il suo stesso nome è una tautologia assoluta, consistendo nell'unione delle due parole ebraiche - Kley e Zemer - che si riferiscono agli strumenti (il violino e gli archi in genere e il clarinetto) con cui venne suonata la musica tradizionale degli ebrei dell'Est europeo a cominciare, piùo meno, dal XVI secolo. E se di musica totale si tratta, non può che tradursi, in "Oylem Goylem", nel lancinante alternarsi di una perduta dolcezza, di un respiro dolente e di una galoppante allegria.
Così il canto monodico che evoca l'atmosfera rituale delle sinagoghe cede il passo, ad intervalli più o meno regolari e quasi senza soluzione di continuità, alle canzoni composte per scandire il tempo della festa. Ed è inutile, a questo punto, sprecare parole sullo straordinario, impatto determinato dagli eccezionali solisti della TheaterOrchestra, essi stessi figli del vento vagabondo: l'ungherese Janos Hasur al violino, il russo Vladimir Denissenkov al baian, il serbo Sasha Karlic alla chitarra e gli italiani Patrick Novara all'oboe e al clarinetto, Massimo Marcer alla tromba e Gianni Cannata al contrabbasso.
Realizzano, questi menestrelli della diaspora, una non meno straordinaria simbiosi con il canto, i gesti e i passi di danza di Moni Ovadia, a sua volta oscillante, con esiti altrettanto alti, fra un umorismo a tratti addirittura surreale (e capace, per giunta, di lanciare frecciate alla sofisticata comicità giudaico-newyorkese di Woody Allen) e la sanguinante memoria della Shoah, tramata d'episodi scolpiti nella carne delle varie parlate locali, dal giudaico gutturale dell'Europa orientale al giudaico-veneto. Al termine applausi dilaganti e acclamazioni commosse. Fuori, il vento non c'era più: perchè, ormai, le "strane cose" sepolte nel suo cuore antico erano diventate, almeno un poco, anche nostre.

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