Rassegna Stampa



"Care mamme del mondo, vi amo"

A teatro Moni Ovadia mischia tradizione yiddish e "mammismo"


di Maria Grazia Gregori

Tempi duri per le madri in un'epoca che si ferma neppure di fronte alla barriera della generazione. Perfino un iconoclasta come Moni Ovadia se ne preoccupa e rende questa figura, che prima riempiva di sé l'universo dei figli, un omaggio che suona come un De profundis in una notte telematica. Già tutto è evidente nel titolo, un'invocazione in tante lingue: Mame Mamele Mama Mamma Mamà. Un titolo buffo e inquietante insieme: le due chiavi attraverso le quali è possibile leggere lo spettacolo andato in scena al Piccolo Teatro di Milano con grande successo. Qui Ovadia si confronta con la memoria sia vissuta a livello collettivosia più dolorosamente personale. Cero non rinuncia alle sue radici partendo proprio dalla yiddishe mame, la mamma yiddish, croce e delizia di tanti ebrei nei secoli dei secoli. Ma è una vera e propria galleria di madri quella che ci propone; dalla mammina di Proust attesa dal figlio con ansia per il rituale bacio della buonanotte a qualla di Brecht e di Ginsberg ricordate in due bellissime poesie; dalla mamma russa alla mamma polacca fino alla mamma italiana immortalata dalla canzane popolare Mamma, tradotta anche in yiddish; ma può anche cantare una poesia di Witkiewicz sulla musica della celeberrima Chucaracha come omaggio alla "madre" di tutte le rivoluzioni.

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In frac da direttore d'orchestra, dittatoriale quando occorre, ma sbeffeggiato e non ascoltato, Ovadia dirige un coro di personaggi interpretati dai musicisti della TheaterOrchestra, mentre un vecchio attore si muove per la scena canticchiando in francese "sono solo questa sera" e srotola i due rulli posti ai lati del palcoscenico con i testi delle canzoni. Ma l'interrogativo continua a serpeggiare: è possibile relizzare questo requiem laico dedicato alla madre proprio oggi che si coltiva in provetta "la madre" di tutte le cellule? Frenato da un'orchestra bizzarra che tenta di sostituire con un'inquietante orchestrina di fantocci meccanici, fra sedie e strumenti musicali che pendono dal soffitto, Ovadia non rinuncia neppure questa volta alla visionarità esplosiva del suo teatro, anche se sceglie per sé un ruolo defilato, delegando molto ai bravi Olek Mincer e Lee Colbert, fatina bianca da fiaba futurista. E ci regala uno spettacolo nuovo davvero, fra timore e sentimento, senso della morte esorcizzata in canto, poesia e anche risata. Perchè Ovadia crede al sorriso e alle lacrime. E alla mamma, naturalmente.

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