Tratto da "Ecclesiogenesi" di Leonardo Boff

Il sacerdozio della donna all'orizzonte della sua liberazione.

Il tema del sacerdozio della donna fa parte della tematica più generale della liberazione della donna. La società attuale con maggior o minore intensità secondo la regione, ma un po' dappertutto, si caratterizza per un progresso nel campo delle libertà individuali con rischio di una dilatazione simultanea delle forze di strangolamento di questo medesimo ambito delle libertà.

Dopo millenni di affermazione del sistema patriarcale, nella nostra epoca si verifica una sensibile trasformazione della coscienza per quanto concerne le relazioni tra uomo e donna e i ruoli diversi che essi svolgono nella società.

L'aspirazione generale è di veder riconosciuta la differenza tra i due sessi, senza privilegiare nessuno di essi.

La tendenza poi del nostro processo di civilizzazione è di superare il patriarcalismo e il matriarcalismo e di incamminarsi nella direzione di una società di persone libere associatesi sulla base della loro libertà nella formazione della famiglia e indipendenti nella loro realizzazione personale nel rispetto della diversità del proprio sesso e nell'affermazione del diritto di vivere secondo questa diversità.

Inoltre si può percepire che la ricchezza umana sta proprio nella realizzazione di ciò che è peculiare in ogni sesso, diversità intesa come reciprocità e alterità. Pur nella diversità si ricercano le ragioni dell'uguaglianza.

L'esercizio dell'autorità tra due esseri diversi nell'affermazione dell'uguaglianza personale, non è tanto compreso come funzione di uno dei sessi (ciò diede origine al matriarcato e al patriarcato), ma come funzione di consenso tra i due sessi la quale può essere esercitata ora dall'uomo ora dalla donna.

In seguito a questa nuova tendenza, la donna sta sempre più liberandosi dalle ingiunzioni della cultura patriarcale ereditata. Essa sta uscendo da una funzione storica a cui fu relegata, ossia dall'esclusiva funzione sessuale alla personalizzazione.

La donna non era capita a partire da se stessa, ma dall'uomo e dalle risposte sociali che l'uomo da lei si attendeva. Socialmente la sua identificazione era posta nel sesso, mentre quella dell'uomo era collegata alla sua funzione sociale e alla sua professione.

Il cambiamento di coscienza nella relazione tra i due sessi è rivolto a far emergere la personalità nella donna.

In ciò la sessualità svolge una funzione importante senza che, d'altro canto, sia l'esclusivo momento. La sessualità prende il suo giusto posto nell'ambito più vasto della personalizzazione.

L'inserimento sempre più logico della donna nella storia come persona e l'uguaglianza dei sessi davanti a Dio potrà a poco a poco, finalmente, condurre all'abolizione della sottomissione e umiliante e millenaria della donna.

In questo processo di liberazione, il cristianesimo ai suoi inizi svolse un ruolo decisivo; infatti affermava che davanti a Dio non c'è differenza di persone e che perciò "non c'è più uomo né donna poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3: 28). Gesù stesso prese le difese della donna contro le arbitrarietà della legislazione giudaica nel campo del matrimonio. Prende strada così una uguaglianza profonda tra uomo e donna. Insieme e non separatamente essi sono immagine e somiglianza di Dio (Gn 1:27).

In se stesso il cristianesimo include il germe di una completa liberazione della donna dalle discriminazioni della cultura patriarcale in vigore fino a poco tempo fa; tuttavia col tempo aderì alle strutture sociali discriminatorie della cultura greco-romana e giudaica, permettendo la loro presenza continua nelle istituzioni ecclesiastiche fino ai nostri giorni.

San Paolo stesso prescrive la sottomissione della moglie al marito, così come la Chiesa è sottomessa a Cristo(Cfr.Ef 5:22-23), analogia questa difficilmente accettabile per i tempi moderni.

Le norme del diritto canonico (1918) si esprimono a tutto svantaggio della condizione giuridica delle donne nella Chiesa. Secondo il canone 118 è loro vietato l'accesso agli incarichi ecclesiastici che riguardano il potere dell'ordine sacro e della giurisdizione. Esse sono semplicemente inabili al sacerdozio. Di conseguenza non possono prestare servizio all'altare, avvicinarsi a esso durante la celebrazione della Messa o compiere altri atti liturgici (c. 813).

Si raccomanda che nelle chiese restino separate dagli uomini e a capo coperto (c. l267); non è loro permesso celebrare il battesimo in casi di pericolo di morte, quando vi è presente un uomo (c. 742); salvo in caso di necessità, non possono confessarsi fuori dei confessionali (c. 910); non hanno facoltà di intervenire nelle cause di beatificazione e di canonizzazione dei santi (c. 2004); non hanno il diritto di predicare (c. 1327) e neppure possono amministrare i beni di una parrocchia (c. 1521); la donna sposata deve tenere come suo domicilio quello del marito (c. 93), ecc.

Dopo il Concilio però queste disparità giuridiche tendono a scomparire e avremo certamente una ristrutturazione giuridica generale del Codice di Diritto Canonico, ora in fase di riformulazione, anche per quanto riguarda la posizione della donna nella Chiesa. Così già ora le è permessa un'ampia partecipazione nella liturgia. In Brasile, soprattutto, è in atto un vero diaconato liturgico esercitato da religiose, un diaconato nella catechesi, nella carità, nell'assistenza sociale, un diaconato pastorale nella direzione della parrocchia con tutte le funzioni, una volta riservate ai preti, escluse la Messa e la confessione.

Vi è pure una notevole presenza di donne che lavorano nei vari organismi romani del governo centrale della Chiesa con incarichi rappresentativi ufficiali come funzionari e consultori. Fino dove potrà arrivare la Chiesa, forse fino a una totale uguaglianza dei due sessi nel poter accedere ai sacri ministeri, ivi compresa l'ammissione al sacerdozio? O vi saranno anche qui strutture definite di ordine e di diritto divino che lo impediscono?

Recentemente si sono moltiplicati i pronunciamenti di associazioni femminili a favore del conferimento del sacerdozio anche alle donne. "Se Dio ama le donne tanto quanto gli uomini", affermava in una recente intervista una professoressa di sociologia della religione all'università di Farleigh Dickinson di New Jersey, "perché allora la Chiesa tiene riservati i ministeri e le funzioni più alte esclusivamente agli uomini?". Commentava un teologo brasiliano: "Una donna può concepire un sacerdote(fisicamente e spiritualmente); il suo esempio di madre può far sì che un bambino un giorno diventi vescovo. Mai però essa potrà ricevere l'ufficio di sacerdote o di vescovo".

A che cosa serve sostenere una teoria di liberazione in teologia nei riguardi della donna (Gal 3:28) se poi continua a perdurare una prassi ecclesiastica oppressiva?

La discussione teologica si era già accesa circa quindici anni fa. Le opinioni sono molto divergenti. Un numero significativo di teologi, proprio per il loro peso morale, non ritengono più convincenti gli argomenti tradizionali secondo i quali si escludeva la donna dall'ordine sacro nella Chiesa. Altri invece considerano ancora valide queste argomentazioni, soprattutto avvalendosi degli esempi neotestamentari e della prassi ininterrotta confermata dalla tradizione. Gli echi della discussione e la presa di partito a favore del sacerdozio delle donne si fecero sentire nel Sinodo dei Vescovi a Roma negli interventi del cardinale canadese George B. Flahiff. Egli riassumeva succintamente ma in termini precisi le ragioni di una corrente teologica. Affermava: "La risposta classica su questo argomento, vent'anni fa era la seguente:

a) Cristo era un uomo e non una donna.

b) Egli scelse dodici uomini come suoi primi pastori e nessuna donna.

c) S. Paolo dichiarò espressamente che le donne devono tacere nella Chiesa, per cui non possono essere ministri della Parola (1Cor 14,34-35).

d) Paolo affermò anche che per il fatto di aver peccato per prima nell'Eden, essa non può aver autorità sull'uomo (1Tm 2, 12-15).

e) La Chiesa primitiva riconosceva come ministri le donne, particolarmente nell'Oriente fino al sec. VI, però esse non ricevevano l'ordine.

La conclusione perciò era questa : il ministero spetta soltanto agli uomini. Le donne si accontentino della sorte toccata alla Vergine Maria e alle altre donne che stavano con Gesù: siano serve fedeli e devote".

Questa dimostrazione storica, concludeva il card. Flahiff, non può più oggi essere considerata valida.

Difendeva così nel Sinodo una proposizione che era emersa da un appello delle donne canadesi e assunta dall'episcopato nei seguenti termini: "I rappresentanti della Conferenza Cattolica Canadese chiedono ai loro delegati di raccomandare al Santo Padre la formazione di una commissione mista (formata da vescovi, sacerdoti, laici di ambo i sessi, di religiosi e religiose) per studiare in profondità la questione dei ministeri femminili nella Chiesa".

In seguito a questo invito, la Santa Sede, il 3 maggio 1973 creò una commissione incaricata di studiare "la missione della donna nella Chiesa e nella società". Poco tempo dopo, attraverso un memorandum si fissavano gli estremi di tale studio. Tra il resto si affermava : "Fin dall'inizio della ricerca, si deve escludere la possibilità dell'ordine sacro dato alle donne".

Su cosa si fonda tale intervento? Il Magistero ecclesiastico si appoggia ancora sugli argomenti tradizionali oppure giudica inopportuna, dal punto di vista pastorale e disciplinare l'ordinazione delle donne?

Gesù: la voce di un uomo in difesa della donna.

Nella nostra esposizione cercheremo di sottoporre a un'analisi critica le argomentazioni classiche citate prima dal card. Flahiff, e infine di porre di nuovo il problema in una prospettiva più ampia della missione della Chiesa e del significato dei suoi ministeri. Conviene prima sottolineare l'atteggiamento di Gesù Cristo di fronte alla donna del suo tempo. Questo ci servirà come motivo costante di critica alla Chiesa e alle sue istituzioni che purtroppo sono ancora discriminatorie nel confronto della donna solo per essere donna.

Se per femminista intendiamo tutti coloro che difendono l'uguaglianza fondamentale della donna con l'uomo, considerandola come persona umana in opposizione alle istituzioni che la trasformano in semplice oggetto, allora Gesù Cristo fu decisamente un femminista. Infatti il tessuto di fondo delle sue argomentazioni etiche consisteva nel liberare gli uomini da una morale legalista e discriminatoria, proponendo un atteggiamento morale di decisione, di libertà e di fratellanza. Come Dio non discrimina nessuno e ama tutti (Mt 5:45), così l'uomo non deve far distinzione di persone. Amerà tutti indistintamente e indiscriminatamente, perché tutti sono figli di Dio e perciò fratelli tra loro. Questa rivoluzione etica creò un nuovo spazio per la liberazione della donna come persona. Tale dimensione salta subito agli occhi se confrontiamo gli atteggiamenti di Gesù con la posizione sociale della donna nella società giudaica.

La donna era in tutto inferiore all'uomo. Veniva considerata in stato di inferiorità anche se era sposata o vedova. Non potendo essere ovviamente circoncisa, non entrava a far parte dell'Alleanza abramica. Lo stesso decalogo pare sia indirizzato esclusivamente agli uomini e considera la donna come un oggetto di proprietà dell'uomo (Es 20:8). Nelle sinagoghe le donne occupavano posti speciali dietro grate o sui matronei. Non potevano leggere, parlare o interpretare la legge. Non potevano intervenire come testimoni. Non potevano istruire i bambini e nemmeno dire le orazioni a mensa. Non potevano imparare la legge santa. "Chi insegna la Torà alla figlia è come se le insegnasse il libertinaggio... é meglio bruciare la Legge Santa piuttosto che consegnarla a una donna". Secondo la teologia rabbinica il giudeo deve ogni giorno ringraziare Dio per tre privilegi:

a) perché Dio non l'ha fatto nascere pagano;

b) per non essere nato donna;

c) per non far parte di coloro che ignorano la legge.

Inoltre la donna nel periodo delle mestruazioni diventava impura e impuro tutto ciò che toccava. Non poteva apparire in pubblico, soprattutto seguire e ascoltare i rabbini (maestri). Neppure suo marito le rivolgeva la parola in pubblico o davanti agli ospiti di casa.

Come si comporta Gesù di fronte a questa tradizione contrassegnata dalla repressione e dalla discriminazione? Con il suo comportamento libera l'uomo dal peso del suo passato. Indica una via nuova di amore fraterno e di riconciliazione. Permette di essere seguito da un gruppo di donne della Galilea (Lc 8,1-3 - 23,49 - 24,6-10 - Mt 17,55-56 - Mc 15,40 - Gv 19, 25) delle quali Luca conosce i nomi di alcune come Maria Maddalena, Giovanna, moglie di Cusa amministratore di Erode, Susanna e altre (Lc 8,1-3). Anche se gli apostoli si scandalizzano, si intrattiene a conversare con una nemica, la samaritana, una donna che aveva avuto cinque mariti (Gv 4, 27). Nella grande peccatrice, la Maddalena che con le sue lacrime e i profumi aveva unto i piedi di Gesù, non vede prima la donna decaduta e la prostituta, ma una creatura umana che merita accoglienza e perdono, andando così contro tutto il buon senso farisaico e religioso dei vari "Simone" di ieri e di oggi (Lc 7,36-50).

Con l'adultera (Gv 7:53-8, 11) avviene un incontro come scrive S. Agostino (Omelia sul Vangelo di Giovanni: 33,5) tra la degradazione e la misericordia, in cui vince quest'ultima perché il Signore invece di considerare la donna come oggetto del sesso, scopre in essa la persona caduta che dev'essere aiutata e non semplicemente giudicata e poi lapidata. Sono molte le donne che Cristo aiutò e guarì: ciò mostra la sua superiorità nel rompere con i tabù sociali: la suocera di Pietro (Mt 8,14-15 - Mc 1,29-3l - Lc 4,38-39); la madre senza più speranza del giovane di Nain (Lc 7,11-l7); la figlioletta morta di Giairo (Mt 9,l8-26; Mc 5,21-43; Lc 8,40-56); la donna da otto anni incurvata (Lc 13,l0-17); la cananea pagana a cui Gesù risponde pieno di ammirazione: donna, grande è la tua fede; la donna che da dodici anni soffriva per una perdita di sangue, considerata impura e socialmente rifiutata (Mt l9,20-22; Mc 5, 25-35; Lc 8,43-48). A dispetto delle leggi della purificazione e del tabù della donna colpita da questa malattia, Gesù la guarisce pubblicamente.

In molte parabole di Gesù, la donna entra a far parte come protagonista principale (Mt 25,l-13; Lc 15,8-l0; Lc 21,1-4; Lc 20, 27-40; Mt 22,23-33; Mt l2,4l-42; Lc ll,31-32; Lc 4,25-27; Mt 24,40-41); mai essa è presentata secondo i cliché discriminatori dell'epoca.

Sorprendente è poi l'atteggiamento di Gesù con Marta e Maria (Lc 10, 38-42; Gv 11,1-12). Ciò che un rabbino ortodosso mai farebbe, Gesù se lo permette con la massima semplicità: cioè discutere di questioni teologiche con una donna che come qualsiasi altro discepolo si siede ai piedi del maestro(Lc 10,39).

In tutti questi brani la donna appare come persona, come figlia di Dio e perciò degna di identico rispetto e amore come gli uomini. Ciò è messo in luce quando qualcuno, pieno di entusiasmo, esclama: "Felice il seno che ti ha generato e il petto che ti ha nutrito". Tale frase viene pronunciata in una prospettiva che afferma la donna nelle sue proprietà sessuali e in quanto madre. Nella risposta appare il clima in cui Gesù si muove: l'affermazione della donna prima di tutto in quanto persona. "Felici piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica". L'uomo è persona in quanto ascolta la parola che viene detta dall'altro e dal Grande Altro nella dimensione di dialogo esistenziale.

Dagli atteggiamenti di Gesù non si deduce per nulla una discriminazione nei confronti della donna, ma l'affermazione della sua uguaglianza e dignità.

Non potrà forse la Chiesa mettersi a confronto col suo divino fondatore e prendere proprio da lui la misura critica per farsi una giusta idea della donna?

In una società in cui la donna sta riscoprendo la sua identità, non potrà forse la Chiesa essere un fattore di liberazione o vorrà ancora una volta essere strumento ideologico per legittimare situazioni che portano alla spersonalizzazione della donna?

Alla luce di queste domande, torneremo ad analizzare gli argomenti tradizionali addotti contro l'accesso della donna agli ordini sacri.

Non ci sono argomenti teologici determinanti contro l'ordinazione della donna, ma solo disciplinari.

Nella presentazione degli argomenti e dei testi della Scrittura, la teologia fu in genere poco critica.

Si fondava sul fatto che c'erano solo uomini come sacerdoti con funzione ministeriale.

E questo fatto era ritenuto indiscutibile. Di conseguenza si verificò una interpretazione ideologica della tradizione e una lettura tendenziosa dei testi della Scrittura. Tale prassi è sostenuta ancor oggi, anche da teologi di un certo nome. Non è sufficiente ricorrere semplicemente a ciò che affermano le Scritture e la Tradizione. Esiste a questo riguardo una questione ermeneutica. Come dobbiamo leggere la Scrittura e la Tradizione? Esse consentono ai stabilire un fatto dogmatico e di diritto divino oppure dipendono anche da un contesto culturale e teologico? Esprimono in modo adeguato il contenuto del messaggio cristiano per ogni sviluppo della storia oppure sono un'incarnazione temporanea e circostanziale del grande avvenimento del messaggio cristiano di uguaglianza, di fraternità e di superamento di tutte le barriere spersonalizzanti tra gli uomini, affermate in nome di Dio?

Il messaggio cristiano non si esaurisce in un semplice decorrere della storia. Esso avrà sempre i suoi limiti e perciò sarà sempre suscettibile di superamento, di miglioramento e di correzione. La Chiesa stessa riconobbe come uno dei segni dei tempi moderni la rivendicazione da parte delle donne di uguaglianza di diritto e di fatto con gli uomini (GS 9,227).

Ciò non potrà o anche dovrà essere un luogo ermeneutico che ci permetterà di esprimere un giudizio critico sul passato ammettendo i suoi limiti? Con questo criterio ermeneutico analizzeremo gli argomenti classici ancor oggi sostenuti in certi ambienti teologici.

a) Prima obiezione: la fedeltà storica: Gesù era uomo e non donna

Conferendo il sacerdozio soltanto agli uomini, si dice, la Chiesa perpetua il ricordo che il sacerdozio deriva da Cristo che fu storicamente un uomo concreto e sessuato. Il sacerdote maschio agisce "in persona Christi", rappresenta nell'aspetto visibile e sacramentale della Chiesa, Cristo-Capo, cioè la persona concreta di Gesù Cristo, origine della nostra salvezza.

A queste affermazioni obiettiamo con le seguenti riflessioni:

è un fatto contingente che il Salvatore sia stato un uomo. Gesù stesso non avanzò nessun principio teologico da questo fatto. E mai sottolineò questa differenza. Anzi, contrariamente a ciò, quando si rivolgeva al pubblico, insisteva perché fossero superate le divisioni tra gli uomini. Escludeva proprio il fattore biologico e sessuale nell'annunciare l'uomo nuovo. "Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre"(Mt 12,48-50).

San Giovanni ha intuito la novità del messaggio cristiano che fa gli uomini essere figli di Dio: "A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati" (Gv 1,12-13). Con questa frase Gesù supera i limiti del giudaismo come religione fondata su fattori razziali. Il cristianesimo certamente non potrà tollerare, come principio dogmatico, che in esso si affermi, per quanto riguarda i ministeri, un fattore di ordine sessuale.

Con Gesù Cristo si inaugurò una nuova solidarietà tra gli uomini, per cui "non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,28).

Fare appello alla mascolinità di Cristo per giustificare il privilegio del sacerdozio ministeriale maschile non è altro che portare in campo una semplice dimensione fisica che non ha nulla a vedere con la fedeltà storica verso Gesù. Non è a questo livello che tale fedeltà deve essere collocata.

Se questa motivazione dovesse avere valore, allora non comprenderemmo perché i sacerdoti non dovrebbero essere non soltanto maschi come Gesù, ma anche giudei come Gesù o meglio galilei come Gesù. Perché il Nuovo Testamento che fu scritto nella 1ingua greca, perché la Chiesa che parlava ufficialmente il greco e in seguito il latino e oggi le lingue parlate di tutto il mondo non osservarono la fedeltà storica nel Gesù storico, ma abbandonarono la lingua parlata da Gesù, l'aramaico, e si liberarono dai costumi, dalla religione e dalla cultura del giudaismo? L'argomento della fedeltà storica complica la questione più che chiarirla.

Ciò che fa sì che qualcuno rappresenti Cristo non sono fattori di carne e di sangue, ma la dimensione della fede e l'adesione a Cristo e alla sua Chiesa. Che fino a oggi nella Chiesa abbiano avuto accesso al sacerdozio ministeriale soltanto uomini è dovuto non al fatto che Cristo era uomo, ma ad altri fattori di ordine storico e sociologico.

b) Seconda obiezione : Gesù Cristo scelse solo uomini come apostoli e non donne.

Può significare questo fatto che era volontà esplicita di Gesù Cristo - e perciò di diritto divino - che nessuna donna potesse avere autorità apostolica e che pertanto fosse un soggetto inabile per il ministero sacerdotale? Di tale supposizione non vi è nessun indizio nel messaggio di Gesù e nella Chiesa primitiva. Il sacerdozio e l'apostolato di ufficio nella Chiesa costituiscono (semplicemente) una funzione sociale.

L'attuazione di questa funzione varia secondo la società e l'ambiente culturale. Come abbiamo prima considerato, al tempo di Gesù, nonostante tutte le libertà affermate come principio a favore della donna, era semplicemente impossibile che una donna svolgesse una funzione religioso-sacerdotale. Lo affermava anche l'Ambrosiaster (autore ignoto di un commento alle tredici lettere di San Paolo nel secolo IV): "al tempo di Gesù non vi era nessuna donna preparata a questo compito". Se non le era concesso di conoscere la legge, come poteva spiegarla? Se nemmeno poteva apparire in pubblico ed entrare con pieno diritto nella sinagoga, come poteva esercitare una funzione sociale e religiosa?

In queste condizioni, ben comprendiamo come Gesù e gli apostoli non abbiano ammesso le donne come testimoni del Risorto e di conseguenza non siano state incorporate nel collegio apostolico. Certamente si deve a questo fatto che la prima testimonianza scritta sulla risurrezione (1Cor 15,3) non nomini le donne come testimoni delle apparizioni del Signore risorto come fanno posteriormente i Vangeli. Le loro prove, per quell'epoca, non sarebbero state accettate perché non avevano valore giuridico.

Non vogliamo discutere qui della posizione sociale e religiosa della donna, ma, date le condizioni ambientali, ci domandiamo: chi poteva rappresentare ufficialmente, in quella situazione culturale, Gesù Cristo e la sua causa?

Soltanto gli uomini. Però questo non significa che Gesù e la Chiesa primitiva fin da principio e per sempre così avessero stabilito in modo definitivo. Tirare tali conclusioni con simili ragionamenti urterebbe contro la più elementare ermeneutica e si metterebbero in rilievo, dando loro un valore assoluto, frasi o situazioni separate dal loro contesto vitale che è dato dalla cultura socio-religiosa dell'epoca.

Se qualcuno volesse insistere affermando che Gesù disse soltanto agli apostoli nell'ultima cena "Fate questo in memoria di me" e che con tale affermazione non includeva le donne, allora dovremmo domandarci: Cristo intendeva soltanto consacrare il pane e il vino oppure in senso più ampio, chiedeva di celebrare il memoriale della sua morte come sacrificio comprendendo anche l'atto di mangiare e bere, la preghiera comunitaria e la celebrazione della Cena dell'unità dei fratelli? Se la seconda alternativa è quella vera, ciò vorrà dire che soltanto gli uomini possono celebrare la Cena e che le donne quindi ne resterebbero escluse?

c) Terza obiezione. San Paolo affermò che le donne non possono parlare nella Chiesa. Come potranno perciò presiedere alla parola e all'eucaristia?

Ci sono tre testi di San Paolo che entrano in questione: 1Cor 11,5: "Ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo al proprio capo (marito)".

1Cor 14,34-35. "Come in tutte le comunità dei fedeli le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea".

1Tm 2,11-12: "La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, ne di dettare legge all'uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo".

I testi citati sembrano talmente chiari da esimerci dal discutere sul problema dell'accesso della donna al sacerdozio. La questione sarebbe risolta da San Paolo: se essa non può insegnare, tantomeno consacrare.

Isolati dal loro contesto, i testi potrebbero arrivare a queste conclusioni, essi però devono essere interpretati secondo i criteri di quella società in cui la donna non godeva nessun diritto pubblico.

San Paolo viveva in tale cultura; egli rispecchia la situazione del suo tempo, e non poteva essere diversamente. Derivare da tale cultura una norma valida per ogni tempo, sarebbe bloccare la storia, il che significa distruggerla o negarla.

La fede cristiana trascende il tempo. Essa però è sempre inserita nelle particolarità di un'epoca, con le sue coordinate di significato storico, con i suoi costumi, con le sue leggi e i ruoli dei vari gruppi umani. La fede non interviene a sacralizzare tali espressioni, essa si inserisce in esse, senza però confondersi con esse. Per questo bisognerà sempre fare distinzione fra fede e teologia, tra messaggio cristiano e la sua espressione sociale, tra cristianesimo e la sua incarnazione dentro un determinato e limitato universo linguistico e culturale. Queste distinzioni, nel caso della posizione della donna nella Chiesa, hanno un loro peso e carattere indispensabile di necessità, se vogliamo capire le finalità fondamentali del cristianesimo che non sono affatto quelle di sacralizzare determinate espressioni culturali.

Passiamo ora all'analisi dei passi citati:

Il primo testo di 1Cor 11,5 non comporta difficoltà. In esso Paolo concede alla donna contrariamente alla tradizione giudaica, il diritto di profetizzare nella comunità. Però dovrà farlo secondo le norme che allora dovevano essere dettate dal decoro e dal buon senso. Oggi esse non avrebbero alcun significato perché nessuna donna usa più il velo per il culto.

E ancora. Paolo svolge il suo discorso in maniera che per noi oggi non ha nessun carattere costringente: "Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l'uomo lasciarsi crescere i capelli, mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere?" (1Cor 11,14). Tale asserzione, come pure altre che si riferiscono alla donna, dipende da un modo di pensare che non deve e non può essere più valido per noi, soprattutto in un mondo, come l'attuale, in cui gli uomini portano con vanto i capelli lunghi. E ciò non è proprio un'offesa alla natura umana.

Il secondo testo di 1Cor 14,34-35 presenta due possibilità di interpretazione esegetica. La prima, che oggi pare abbia più peso, afferma che i versetti che si riferiscono alla donna sono un'interpolazione di un giudeo-cristiano. Gli argomenti sono tenuti in molta considerazione. L'avvertimento interrompe il discorso di Paolo che sta trattando dell'ordine nella comunità, cioè quando si deve parlare e quando si deve tacere nella comunità. Avverte particolarmente i profeti. Lasciando da parte il testo riferito alle donne, giacché la sua posizione fu risolta nel capitolo 11, troviamo una sequenza logica e normale con il testo successivo: (v. 31) Tutti infatti potete profetare, uno alla volta, perché tutti possono imparare ed essere esortati. (v. 32) Ma le ispirazioni dei profeti devono essere sottomesse ai profeti. (v. 33) Perché Dio non è un Dio di disordine ma di pace. ( Si omette il testo riferentesi alle donne: versi 34-35). Forse la Parola di Dio è partita da voi? O è giunta soltanto al voi? Chi ritiene di essere profeta o dotato di doni dello Spirito deve riconoscere che quanto scrivo è comando del Signore.

Come si può notare, l'ordine logico è rigorosamente osservato, se ammettiamo l'interpolazione.

Essa pare plausibile per un ordine testuale. L'espressione "Chiesa dei Santi " è un'espressione tecnica delle comunità giudeo-cristiane, in cui la donna secondo la legge mosaica, doveva rimanere in silenzio durante le riunioni cultuali.

Di fronte a ciò, non si può attribuire a Paolo questo avvertimento proibitivo, perché non dobbiamo supporre che l'apostolo nella stessa lettera si contraddica con se stesso: prima dà ordine di parlare (1Cor 11,5) e poi di tacere (1Cor 14,34).

Il secondo tipo di esegesi non si presta per una discussione sull'autenticità paolina del testo del cap.14, che porta il titolo: Norme pratiche: che tutto si faccia per edificare (v.26. cfr. v. 3.4.5.12.17). In questo contesto non si afferma soltanto che le donne devono tacere in chiesa (1Cor 14,34: taceant in Ecclesia), ma pure che colui che ha il dono delle lingue ugualmente se ne deve stare in silenzio (taceat in Ecclesia) a meno che non sia presente un interprete (v. 28). Quando qualcuno in una comunità riceve una rivelazione, parli pure, ma il profeta taccia (v.30: taceat). Ora in questo contesto di ordine e disciplina anche la donna deve restare in silenzio, a meno che il suo intervento non serva per l'edificazione di tutti. Senza dubbio non dobbiamo ammettere che Paolo voleva che sempre le donne tacessero nelle comunità, perché non possiamo onestamente supporre che un discorso delle donne in una comunità sia sempre negativo per l'edificazione.

In questo senso non risulta sia intenzione di Paolo determinare una proibizione come principio.

Rimane il terzo testo di 1Tm 2,11-12: ...La donna deve restare in silenzio ...Non concedo a nessuna donna di insegnare. Le parole sono di per sé molto chiare.

Ma proprio per questo motivo tali parole possono ricevere un'interpretazione ideologica per giustificare una situazione protrattasi fino ai giorni nostri. Se oggi le donne potessero parlare come loro spetterebbe (già lo possono fare, e ancor più di quanto lo fanno), questo testo non sarebbe visto come impedimento e disobbedienza all'avvertimento di Paolo.

Aggiungiamo semplicemente: dobbiamo cercare di capire Paolo, o uno dei suoi discepoli, autore della lettera, nel contesto di discriminazione generalizzata nei confronti della donna. Infatti è proprio questo che si verifica nel testo successivo a quello che ordina il silenzio delle donne. In esso si dice tassativamente: Alla stessa maniera voglio che facciano le donne, con abiti decenti, adornandosi di pudore e riservatezza, non di trecce e ornamenti d'oro, di perle o di vesti sontuose, ma di opere buone, come conviene a donne che fanno professione di pietà. (1Tm 2,9-10) Oggi lasciamo perdere questo "voglio" tassativo di Paolo perché comprendiamo che le sue parole non possono essere usate per finalità di convenienze cosmetiche inventate dalla rivelazione e dall'ispirazione.

Perché la teologia insiste tanto sul silenzio delle donne e non si preoccupa del loro decoro esterno?

Non è perché il passo di 1 Tm 2, 11-12 si presta a giustificare ideologicamente uno status religioso a cui solo uomini possono avere accesso? E ancora più. Questa stessa lettera ordina che per la consacrazione di un vescovo deve essere scelto un uomo che abbia una sola donna (1Tm 3,2) ... e che mantenga i suoi figli sottomessi e in grande onestà (3,4).

Dove esiste ciò nella Chiesa? Se oggi un uomo sposato, come avviene nella Chiesa Brasiliana, per ipotesi fosse consacrato vescovo secondo i riti e le intenzioni canoniche, la Chiesa considererebbe valida questa consacrazione. Se fosse una donna la riterrebbe invalida forse proprio in riferimento al testo di 1Tm 2,11-12.

Per quale ragione la Chiesa non segue anche oggi le prescrizioni molto chiare a riguardo delle vedove contenute in 1Tm 5,3-16?

La risposta è semplice e universalmente accettata: perché nella nostra società le vedove occupano una funzione religiosa e sociale diversa da quella del tempo degli apostoli. Quali vescovi oggi potrebbero ripetere ciò che si afferma in 1Tm 6,1: "Quelli che si trovano sotto il giogo della schiavitù, trattino con ogni rispetto i loro padroni, perché non vengano bestemmiati il nome di Dio e la dottrina". Agli oppressori moderni la Chiesa non ripeterà questo testo, perché essa sa che il messaggio in esso contenuto è condizionato dall'ambiente dell'epoca in cui la schiavitù costituiva un dato di fatto intoccabile. Come cerchiamo di interpretare questi brani nel significato ermeneutico di allora, nello stesso modo dobbiamo interpretare il testo che si riferisce alla posizione della donna, a meno di voler alimentare l'ideologia dello status ecclesiale. Si tratta quindi non di un jus divinum, ma semplicemente di un jus ecclesiasticum suscettibile di riforme.

Quarta obiezione: nella tradizione della Chiesa mai esistettero sacerdotesse e neppure la madre di Cristo lo fu.

È un dato concreto che la tradizione non parla mai di sacerdotesse. Ci sono accenni a diaconesse che ricevevano il ministero, soprattutto a partire dal secolo IV, per mezzo di un'ordinazione fatta con l'imposizione delle mani e che appartenevano alla gerarchia ecclesiastica. Non soltanto si occupavano della pastorale del battesimo delle donne, ma era loro concesso anche di leggere l'Epistola e il Vangelo, portare la stola, distribuire la comunione. Il rito dell'ordinazione corrispondeva, nel secolo XI, esattamente all'ordinazione dei diaconi 23. Ci sono accenni a sacerdotesse cristiane tra i Priscilliani, però questo è espressamente contestato dal Sinodo di Nimes (394). Il papa Gelasio in una lettera ai vescovi dell'Italia Meridionale nell'anno 494 condanna gli abusi da parte di certe donne "che prestano servizio all'altare e che compiono tutto ciò che è strettamente riservato agli uomini".

Qui non si tratta di diaconesse, bensì di veri ordini maggiori. Tuttavia questa prassi non fu mai accettata. La tradizione della Chiesa riservò alla donna tale trattamento che risale fin dalle origini. Non si facevano altre discussioni al riguardo, ne da parte delle donne era portato avanti nessun tipo di rivendicazione.

Haye van der Meer che studiò dettagliatamente la dottrina della tradizione su questo tema concludeva: "In nessun luogo in tutta la letteratura della patristica a riguardo del sacerdozio della donna troviamo riflessioni che per motivi essenziali negano il sacerdozio alle donne. Troviamo espressioni del genere: gli apostoli non inviarono in missione nessuna donna. Maria non battezzò Gesù; la donna fu sedotta; la donna istruì una sola volta l'uomo (nel Paradiso) e ciò fu causa di perdizione; Paolo lo vietava...". Neppure Maria era sacerdote ...; non ricevette il sacramento dell'Ordine né esso avrebbe senso per lei perché possiede un sacerdozio superiore a quello dei sacerdoti ordinati. Come corredentrice e mediatrice essa fu sempre considerata e venerata come sacerdote " eminentiori modo". Poiché Maria era portatrice di un sacerdozio ben superiore a quello dei ministri della Chiesa, non può essere addotto tale fatto come argomento per escludere le donne dal sacramento dell'ordine. Per Maria non è una diminuzione il fatto di non aver celebrato l'eucaristia. Essa fece molto di più di questo: era la Madre di Dio; educò e offrì il suo Figlio e insieme a lui divenne causa della nostra salvezza.

Conclusioni: ciò che rimane è un costume e non una tradizione dottrinale.

Dalle riflessioni fatte fin qui possiamo dedurre le seguenti affermazioni:

a) Dal punto di vista dell'ermeneutica e dell'esegesi non ci sono argomenti scritturistici determinanti che escludano la donna dall'ordine sacerdotale.

b) La tradizione non porta nessun principio teologico fondamentale che giustifichi la prassi attuale di conferire il sacerdozio solo agli uomini. Si può affermare con sufficiente chiarezza che tale prassi è dovuta a uno sviluppo storico sociologico. La donna però un po' alla volta prese coscienza della sua parità di diritti con l'uomo, distruggendo le barriere discriminatorie che furono erette anche nel cristianesimo. L'esclusione della donna dal sacerdozio rifletteva la sua condizione di inferiorità nella società stessa.

c) Si tratta quindi non di una tradizione dottrinale, ma del sopravvivere di un costume millenario, costume che può essere suscettibile di trasformazioni in seguito alla nuova coscienza della dignità della donna e della collaborazione che essa può dare nella Chiesa.

Così concludeva il card. Daniélou: "Nulla di decisivo fu contrapposto a un'eventuale ordinazione delle donne; lo studio della questione può quindi proseguire...".

d) In base a questa nuova riflessione sulla condizione della donna, la Chiesa luterana ormai da più di quindici anni conferisce l'ordine ministeriale alle donne.

Nello stesso modo anche la Chiesa anglicana, anche se con maggiori riserve. Nel 1971 Sally Jane Priesand, superando una tradizione millenaria, fu consacrata rabbino a Cincinnati.

Nella Chiesa cattolica vi sono religiose che assunsero in alcune regioni tutte le funzioni sacerdotali tranne quella di consacrare e confessare. È già un grande passo in avanti. Fin dove potremo arrivare?

Il sacerdozio della donna non può essere il sacerdozio attuale degli uomini.

Non è sufficiente pronunciarsi a favore della possibilità dell'ordinazione della donna al sacerdozio.

A quale tipo di sacerdozio potrà dunque essere ordinata?

Il sacerdozio attuale che esiste nella Chiesa è segnato profondamente dall'immagine dell'uomo maschio e celibe. La Chiesa nel suo significato gerarchico è molte volte chiamata col nome di madre premurosa; tale immagine però sembra assai strana quando si nota che questa sollecitudine materna è esclusivamente affidata agli uomini, i quali segnano con caratteri maschili tutte le istituzioni ufficiali della fede. Sarebbe un'aberrazione se la donna-sacerdote volesse imitare il modello concreto di sacerdozio vissuto storicamente dagli uomini. A questo punto si devono sottolineare tutte le differenziazioni che decorrono dalla diversità specifica della donna con tutto il valore che la femminilità porta con se a livello ontologico, psicologico, sociologico, biologico ecc. e che deve segnare la realizzazione storica di un possibile sacerdozio della donna. Essa non dovrà essere semplicemente colei che sostituisce il sacerdote, ma dovrà avere una espressione specifica del proprio sacerdozio.

L'esperienza portata avanti in Brasile da religiose che sono a capo di parrocchie può essere doppiamente significativa. Prima di tutto come testimonianza di una Chiesa che aprì la via a un processo di liberazione ecclesiale per la donna e comprese la sua maturità cristiana nell'affidarle la direzione di molte chiese locali. In secondo luogo tale esperienza sta a indicare uno strumento di criticità per le attuali istituzioni sacerdotali. Si adegueranno alla specificità della donna? Permetteranno che la religiosa esprima tutta la ricchezza della sua femminilità, valore imprescindibile anche per la stessa Chiesa? Oppure non si correrà il rischio di un'operazione di innesto non ben riuscita, con pregiudizio di tutte le parti, dell'uomo, della donna e della Chiesa? L'esperienza brasiliana indica qualche reale progresso.

È significativa infatti l'opinione di una teologa specializzata su questo tema: "Bisogna riconoscere che la donna non si adatta ai ruoli ecclesiali derivatici da un lungo processo storico e che ancor oggi sussistono. Solo quando queste funzioni saranno riformulate a partire dalla comunità e in relazione a essa, avrà senso conferirle alle donne. Con ciò risulta chiara la conclusione che il sacerdozio particolare della donna non è ancora adeguato alla fase dello sviluppo attuale (storico-salvifico) della Chiesa".

Prospettive teologiche per un sacerdozio della donna

Le riflessioni fin qui sviluppate fanno capire che parlare del sacerdozio della donna non significa semplicemente rivendicarle un posto che per secoli le fu negato. Si tratta invece di analizzare se, nella fase di sviluppo della nostra società in cui la donna assume una parità con l'uomo, le spetta pure un ruolo sacerdotale.

Tra i molti compiti che la donna sta svolgendo nella società e nella Chiesa le spetta pure il sacerdozio? Oppure questo è un limite invalicabile? Abbiamo notato che dal punto di vista dogmatico non ci sono barriere dottrinali. Le discriminazioni contro la donna nella società civile stanno a poco a poco ma naturalmente scomparendo. La Chiesa cattolica, come corpo sociale, nell'organizzazione del suo potere e nell'esercizio delle sue responsabilità pastorali, cambierà oppure resterà una trincea di conservatorismo e un ristretto ambiente poggiato su strutture di un mondo definitivamente passato?

Gli uomini di oggi comprendono molto bene, e non senza il contributo degli ideali cristiani, che il bene dell'uomo e della donna sono interdipendenti, che ambedue resteranno pregiudicati se, in una qualsiasi comunità, uno di essi non potrà portare il contributo di tutta la ricchezza delle sue potenzialità.

La chiesa stessa resterebbe sminuita nel suo corpo organico se nelle sue istituzioni non concedesse spazio alla ricchezza della donna con la sua maturazione nella fede. Anche se vi fosse un numero sufficiente di sacerdoti e se nella chiesa rifiorisse un laicato adulto, il quale in ragione della propria fede non per della gerarchia portasse avanti la causa di Cristo nel mondo, avrebbe senso porre la domanda per uno status della donna di fronte al sacerdozio. Senza la donna ci sarebbe un vuoto nella chiesa, ossia la mancanza di una ricchezza che solo lei può offrire e nessun altro.

Non si tratta evidentemente di descrivere la funzione della donna nella Chiesa. Sarebbe un fatto esterno e perciò oppressivo perché verrebbe stabilito un ruolo predeterminato in cui si vorrebbe trovasse posto la donna. La strada da percorrere deve essere esattamente l'inverso, perché tutti rifiutano con giusta ragione, una funzione prestabilita. Bisogna aprire gli occhi sulla nuova autocoscienza che le donne si conquistano e sul processo sociale esteso a tutti i

settori che tende a non privilegiare più uno dei due sessi. Perciò bisogna far attenzione alla nuova funzione dei sessi e non alla funzione dell'uomo e della donna. Il compito è quello di creare una società diversa. Se non sarà modificata la funzione dell'uomo non sarà modificata neppure quella della donna e viceversa. Si dovrà inoltre far prendere coscienza della funzione propria e specifica dei sessi nella loro particolarità, e da questo potranno essere desunte le nuove funzioni anche nella Chiesa.

Questo compito è affidato alle donne stesse. Non riceveranno più come imposto quello che loro stesse devono compiere.

Oggi tutti noi, uomini e donne, stiamo cercando la nostra identità in un processo sociale che risulta sempre più accelerato.

Bisogna essere pazienti per non dare risposte affrettate e inadeguate.

Compito della teologia non è quello anzitutto di stabilire il cammino da percorrere, ma di permettere che le nuove esperienze, condotte avanti nell'amore silenzioso di Dio, si sviluppino da se stesse, facendo capire il senso di direzione intrapreso. La teologia accetterà il mutamento della coscienza umana come una sfida e come una possibilità di nuove incarnazioni del messaggio cristiano. Il cristianesimo non si sceglie un mondo per sé, è invece il mondo intero che diviene possibilità concreta di realizzazione storica.

La trasformazione avviene non solo all'interno della cultura, per la donna, ma anche nell'ambito della chiesa di fronte ai suoi ministeri. Senza dubbio un ripensamento su i servizi e le diaconie nella chiesa potrà allargare l'orizzonte in modo poter comprendere anche il valore di partecipazione della donna per il bene di tutta la comunità ecclesiale.

Il sacerdozio universale delle donne

C'è una certa teologia sul sacerdozio che prende i caratteri dell'ideologia: è una riflessione che si basa su un tipo unico di sacerdozio, come attualmente esiste nella Chiesa, considerandolo come l'unico possibile. Tale teologia non si domanda se alla luce della ipsissima intentio Jesu e sul valore positivo della fede cristiana, la Chiesa, di fronte a nuovi condizionamenti culturali, non possa permettere altri modelli e anche altri significati della missione sacerdotale. Il Concilio Vaticano II gettò una base ben sicura, carica di conseguenze strutturali, nel momento in cui suggeriva l'idea della Chiesa popolo di Dio e l'affermazione del sacerdozio universale dei fedeli. Anteponendo il capitolo della Chiesa popolo di Dio a quello della Chiesa gerarchica, esso ci insegna che ogni potere nella Chiesa deve essere espresso all'interno e a servizio del popolo di Dio.

Riproponendo il tema del sacerdozio universale dei fedeli, sollevò una questione teologica oggi non ancora sufficientemente interpretata: quale relazione esiste tra il sacerdozio universale e il sacerdozio ministeriale?

Se vogliamo dare un senso più giusto e adeguato al sacerdozio, dobbiamo avvicinarci con criteri più aperti di quanto comunemente si faccia. Solo allora apparirà possibile anche per la donna.

Sacerdote è quella persona che si propone di essere strumento di mediazione e di riconciliazione tra realtà diverse. Percepiamo che l'esistenza è vissuta come un mistero: di fronte a Dio, agli altri, alla realtà che ci circonda e di fronte a se stessi. Vi sono divisioni e menzogne che rendono drammatica la vita umana. Questa aspira all'unità, alla pace e alla riconciliazione di tutte le cose nel significato più profondo.

Il sacerdote cerca di proporre un'esperienza comune a tutti gli uomini e di vivere in funzione di essa. Per questo egli si separa dal mondo, non perché lo disprezzi, ma per compiere, a beneficio del mondo, una missione di unità e di mediazione.

Gesù Cristo che era un laico (cfr.Eb 7:13-14) assunse questo compito di riconciliazione. Visse la sua esistenza in modo così profondo che riconciliò gli uomini con Dio. Le sue parole erano parole di amore, di rinuncia allo spirito di vendetta e di odio, e li riconciliazione universale perfino con i nemici (Mt 5,45). Egli era un essere-per-gli-altri fino alla fine (Gv 13,1). La novità del suo servizio di riconciliazione sta nel fatto di non aver agito unicamente nell'ambito del culto, ma in tutta la vita: nello stare con le masse, nella predicazione, nell'incontro con le persone, nella preghiera, nella vita e nella morte.

La sua morte sulla croce come conclusione della sua fedeltà alla causa di Dio ispirata dall'amore e dal perdono, è il più bell'esempio di donazione e di sacrificio per gli altri, compresi i nemici. Risorgendo si fa presente nel tempo per sempre con la sua azione riconciliatrice tra gli uomini.

La comunità primitiva ha capito subito. In lui Dio ha riconciliato tutte le cose (Col 1,20), unificò il mondo distruggendo tutte le barriere che erano state elevate (Ef 2,14). Egli realizzò la speranza contenuta in ogni atto sacerdotale: riconciliare l'uomo con Dio e con gli altri uomini.

Vi riuscì in modo totale e perfetto (Eb 9,26 s; 1Pt 3, 18).

Per questa sua azione Lo chiamarono, lui che era nella società un laico, sommo Sacerdote (Eb 10,21) e Unico Mediatore (1Tm 2,5).

Il sacerdozio inoltre non è uno stato, ma un modo di esistere che propone la riconciliazione. Poiché Gesù visse nella sua vita, morte e risurrezione in modo esaustivo e in senso escatologico il tema della riconciliazione, dell'unità e dell'amore, può essere chiamato sommo ed eterno sacerdote (Eb 6,20).

Cristiano è colui che cerca di orientare la sua vita sulle tracce e secondo lo spirito che in Gesù Cristo si manifestava.

In questo senso tutta la vita cristiana è vita sacerdotale.

Nella fede e nei sacramenti siamo fatti partecipi del sacerdozio di Cristo (Lumen Gentium 10,28). Non soltanto, ma anche partecipi di tutta la sua ricchezza di servizio, di annuncio e di santificazione (LG 10,12; AA 3/l335).

In altre parole il cristiano è responsabile della missione di tutta la Chiesa di portare l'annuncio di salvezza con la parola e l'esempio, ai santificare il mondo, di servire ed essere responsabile dell'ordine e della concordia nella comunità.

Nella Chiesa inoltre riscontriamo, in un primo momento, un'uguaglianza fondamentale: tutti sono in Cristo e formano il suo popolo santo, tutti partecipano del suo sacerdozio di riconciliazione. Se col termine laico intendiamo, secondo la parola greca, colui che fa parte del popolo (laos) allora tutti sono nella Chiesa necessariamente laici: papi, vescovi, sacerdoti e semplici fedeli perché tutti sono membra del popolo di Dio.

Da ciò possiamo dedurre che la differenza tra gerarchia e laicato non è primaria, ma secondaria.

Essa solo può esistere sul piano dell'uguaglianza radicale degli uomini a servizio e in funzione di questa e non sopra e indipendentemente da essa.

Il sacerdozio universale dei fedeli non si articola soltanto a livello culturale. Esso trova precisamente nel culto la sua più alta espressione. Però deve essere vissuto nel vasto orizzonte della vita, come lo visse Gesù Cristo. Non soltanto la sua morte sulla croce fu causa di redenzione: tutta la sua esistenza, nei momenti di culto e nella "profanità" della vita, quando parlava al popolo e nella realtà di ogni giorno fu strumento di riconciliazione e perciò sacerdotale. Ecco perché Paolo avvertiva i romani a "offrire la loro vita come olocausto vivo, santo e gradito a Dio" (Rm 12,1).

Nel caso specifico delle donne che hanno fede in Cristo ogni momento della vita può avere una funzione sacerdotale e riconciliatrice: la loro attenzione ai figli, il loro servizio nell'edificare in buona armonia la famiglia, la loro professione che le pone a contatto con altre persone sia come insegnanti, infermiere, dottoresse, segretarie, commesse ecc.

Per la donna cristiana la professione non ha soltanto il fine di guadagnare il pane; può diventare il mezzo attraverso il quale essa rende effettivo il servizio agli altri, la concordia, la riconciliazione tra gli uomini e diventare lo strumento col quale avvicinare gli uomini, superando divisioni e accettando con dignità e silenzio situazioni alle volte penose e apparentemente insuperabili.

Il servizio che si esprime nella riconciliazione deve essere compiuto da tutti i cristiani. Tale impegno li rende sacerdoti, tanto gli uomini quanto le donne. In questo modo essi prolungano nel tempo e nello spazio la funzione unificatrice di Cristo sommo sacerdote per sempre.

b) Lo specifico del sacerdozio ministeriale non è la facoltà di consacrare, ma di essere principio di unità nella comunità.

Questo modo di intendere il sacerdozio come abbiamo sottolineato sopra non crea problemi per la donna. La difficoltà sorge quando si affronta il sacerdozio ministeriale, cioè quello che è proprio degli uomini che hanno ricevuto il sacramento dell'ordine. Qual è la loro specificità che li distingue da tutti gli altri sacerdoti-del-popolo-di-Dio? Potranno le donne accedere a esso?

Esiste una definizione classica espressa già nel Documento del Sinodo dei Vescovi del 1971, a riguardo del sacerdozio ministeriale, che definisce la condizione specifica del sacerdote, considerato in se stesso, senza relazione diretta con il popolo di Dio.

Attraverso l'ordinazione sacerdotale, esso è abilitato a essere il rappresentante ufficiale di Cristo: "I presbiteri sono consacrati da Dio, mediante il Vescovo, in modo che, resi partecipi in modo speciale del Sacerdozio di Cristo nelle sacre celebrazioni agiscano come ministri di colui che ininterrottamente esercita la sua funzione sacerdotale in favore nostro nella liturgia per mezzo del suo Spirito" (Presbyterorum Ordinis,5).

Ciò che è specifico del sacerdote è la facoltà di consacrare. Lo spazio in cui il sacerdozio è limitato è il settore cultuale e sacramentale.

Ora ciò non significa affatto una riduzione del grande significato che aveva il sacerdozio di Gesù Cristo. Questo non si limita soltanto al culto, ma deve essere vissuto nel contesto di tutta la vita, che deve portare i segni della unità, della pace e della riconciliazione. Si noti bene inoltre che l'ordinazione non conferisce propriamente un potere in funzione del culto e della consacrazione. Non è infatti il sacerdote che consacra, battezza e perdona. È Cristo che perdona, battezza e consacra. I presbiteri mettono a disposizione la loro persona perché il Cristo invisibile si faccia sacramentalmente visibile. Il potere non è quello di consacrare, ma quello di rappresentare ufficialmente il sacerdozio unico ed eterno di Gesù Cristo. Il sacramento dell'ordine innalza la persona a questa funzione.

Qual è la relazione del presbitero con il popolo di Dio?

Non lo dobbiamo pensare al di fuori, al di sopra o indipendente dal popolo di Dio. Il suo ruolo non deve essere determinato in base ai suoi poteri sacramentali, posto davanti ad un popolo che è privato di questi poteri. Il punto di partenza deve essere ecclesiologico e comunitario: è infatti per il servizio della Chiesa che esiste il presbitero e non indipendente da essa.

La Chiesa-comunità nasce come sacramento universale di salvezza. Attraverso le sue istituzioni, con la parola e i sacramenti, con i ministeri essa deve rendere attuale la riconciliazione portata da Gesù Cristo.

Tutti i fedeli sono corresponsabili in questa missione e non soltanto quelli che hanno ricevuto l'ordine. In questa comunità radunata nel nome di Cristo le differenze di nazione, di intelligenza e di sesso non hanno alcun valore (Gal 3, 28). Tutti indistintamente sono inviati. In base a questo concetto acquista significato l'uguaglianza e la fratellanza di tutti in Cristo.

Se vi è una uguaglianza così fondata, non significa però che tutti debbano fare le stesse cose.

La Chiesa è infatti una comunità di uguali e organizzata, ma dove i compiti sono posti in un certo ordine gerarchico.

Vi è in essa diversità di carismi che per Paolo sono sinonimo di funzioni. "Ciascuno ha il proprio dono (carisma) da Dio, chi in un modo, chi in un altro" (1Cor 7,7), ma tutti questi carismi sono per il bene comune (1Cor 12,7). Questi carismi (funzioni) appartengono alla struttura della Chiesa, in modo tale che senza di essi non sarebbe la Chiesa di Cristo. Esiste poi una simultaneità di carismi nella Chiesa.

È a questo punto che bisogna porsi la domanda: a chi spetta il compito di esprimere dei carismi? Il carisma dell'unità deve essere a servizio di tutti i carismi affinché tutto concorra per il buon ordine, l'armonia e il bene comune. Il Nuovo Testamento parla di carismi di guida e di governo e di quelli che presiedono alla comunità (1Ts 5,12; Rom 12,8; 1Tm 5,17).

I presbiteri (anziani), i Vescovi (episkopen) e i diaconi sono i portatori del carisma dell'unità in seno alla comunità.

Lo specifico del presbitero-sacerdote consiste in questo carisma: coordinare le varie funzioni nella comunità (carismi), orientarle tutte a beneficio della Chiesa, promuovendone alcune e incoraggiandone altre, svelare i carismi già presenti ma non ancora sorti a livello di coscienza nella comunità e ammonire chi mette in pericolo l'unità della comunità.

Il sacerdote non convoglia verso se stesso tutte le funzioni, ma deve far convergere nell'unità tutti i servizi.

Il presbitero diventa così il responsabile principale dell'unità della Chiesa locale, sia nella diaconia dell'amore fattivo attraverso l'assistenza ai fratelli più poveri e nel contesto dei servizi nella comunità, sia nell'annunciare il Vangelo con la catechesi, la predicazione, i corsi di aggiornamento sia, infine, nel servizio del culto e dei sacramenti.

In ogni settore egli deve promuovere l'unità e la armonia affinché la comunità sia un solo corpo nel Cristo Gesù.

In conformità a questa interpretazione, lo specifico del sacerdote non è di consacrare e insegnare, ma di essere segno di unità nel culto e nell'annuncio del messaggio. In ragione di questo suo carisma spetta a lui presiedere la celebrazione e annunciare con autorità.

I compiti che il presbitero compie nella Chiesa locale spettano al Vescovo nella Chiesa di una regione e al Papa nella Chiesa Universale: a tutti spetta essere principium unitatis visibile.

Ci domandiamo se questo compito di radunare nell'unità può essere affidato esclusivamente agli uomini.

La storia attuale e la verità dei fatti ci indicano che la donna può avere le stesse capacità dell'uomo, sia nel governo della società civile come nelle esperienze già in atto nella Chiesa, nelle quali delle religiose assunsero la direzione della Chiesa locale.

La donna svolge il ruolo di unità secondo la sua specificità femminile, diversa da quella dell'uomo, lo stesso risultato di concordia, progresso e unità nella comunità dei fedeli.

Il sacramento dell'ordine designa nella comunità la persona che coordinerà, nel segno dell'unità e della riconciliazione, i vari servizi inerenti alla vita comunitaria.

Tutti hanno il compito di preoccuparsi dell'unità.

Però il sacerdote, sia uomo che donna, è preposto ufficialmente in nome di Gesù Cristo a presiedere la diaconia della riconciliazione e della coesione della comunità.

Il sacramento non conferisce un qualcosa di esclusivo, raggiungibile soltanto attraverso il sacramento e senza il quale tale sacramento non potrebbe essere dato nella Chiesa. Invece il sacramento conferisce una visibilità più nitida a ciò che deve essere ricercato da tutti nella comunità e cioè l'unione e l'amore.

Per questo, come negli altri sacramenti, anche in quello dell'ordine c'è una stretta relazione tra la funzione di tutti i fedeli e quella del sacerdote.

È compito del sacerdote presiedere l'assemblea che si raduna per ascoltare la parola e celebrare l'eucaristia. Perciò spetta a lui, in modo ufficiale, il potere di rappresentare Cristo principio e fonte di unità. Di conseguenza spetterà a lui, a maggior diritto, consacrare e celebrare l'eucaristia.

Se la donna può essere, come lo è già di fatto in molte parrocchie, principio di unità, allora teologicamente non troviamo nulla che possa opporsi a che lei possa, per mezzo dell'ordinazione, consacrare e rendere Cristo sacramentalmente presente quando la comunità è radunata per compiere un atto di culto.

Non è questo il momento di esplicare come lo potrà fare. Non potrà certamente essere spiegato attraverso la teoria; la risposta potrà venire solo dall'esperienza concreta e dalla realtà di un determinato contesto.

Conclusione: l'umano e il religioso sono "animus" e "anima".

Le prospettive che abbiamo fin qui sviluppate inseriscono il sacerdote, sia uomo che donna, nell'ambito della comunità umana ed ecclesiale. Ciò fa parte della più antica tradizione neotestamentaria.

Lo stesso canone VI del Concilio di Calcedonia (451) dice espressamente: "Nessuno deve essere ordinato nel modo più assoluto ne presbitero, ne diacono, ne chierico in genere, se non gli viene assegnata soprattutto una Chiesa urbana o rurale o un martyrion o una Chiesa monastica. Per quanto riguarda coloro che sono ordinati senza qualcuna di queste funzioni, il Santo Concilio decide che la sua ordinazione è nulla e inesistente e che, ad onta di chi conferì loro l'ordine, non potranno esercitare le loro funzioni in nessun luogo".

Il risultato della nostra esposizione vuol indicare, in sintesi, che non ci sono argomenti determinanti per impedire che la donna possa accedere al sacerdozio ministeriale. Aggiungiamo anche che una giusta collocazione di esso, alla luce del sacerdozio di Cristo, non pone la specificità del sacerdozio nel potere di consacrare, ma nell'essere principio di unità nella comunità. Ora la donna può compiere questa diaconia altrettanto bene quanto l'uomo.

La posizione della donna nella Chiesa deve accompagnare l'evoluzione della donna nella società civile. Quest'ultima ha oggi la tendenza di concedere la stessa parità di diritti alla donna come all'uomo, per cui risulta sempre più inconcepibile qualsiasi discriminazione fondata sulla differenziazione biologica e culturale. La Chiesa che vuole essere, a ragione, cattolica, non dovrebbe per nessun motivo in base a tali fattori, mantenere la sua restrizione tradizionale.

Una riflessione più dilungata del compito di rappresentare la salvezza in Gesù Cristo dovrebbe far capire agli ecclesiastici l'umiltà di riconoscere che "la pienezza della divinità e dell'umanità di Cristo" non può esaurirsi nella rappresentanza di soli uomini. L'antropologia moderna avverte con sufficienti ragioni che non si può più semplicemente parlare di qualità esclusivamente femminili e qualità maschili.

L'umano è sempre composto di caratteri maschili e caratteri femminili che si trovano articolati, con intensità diversa, in ogni esistenza umana individuale.

Un normale processo di personalizzazione e di maturazione umana esige e suppone che l'uomo esprima, in grado sempre superiore, il suo aspetto di anima (l'aspetto femminile nel maschio) e la donna il suo aspetto di animus (l'aspetto maschile nella donna). Secondo questa distinzione, gli uomini per la propria realizzazione agirebbero bene se creassero più spazio di libertà e di liberazione per la donna, così lei a sua volta avrà più possibilità di rappresentare Gesù Cristo uomo, che come tutti gli uomini possedeva nella sua umanità le dimensioni maschili e femminili. Solo così si potrà esprimere con la vita, nella nostra storia, la parola profetica di Paolo:

"Non c'è più uomo ne donna, poiché tutti noi siamo uno in Gesù Cristo" (Gal 3,).

Nota

In data 15 ottobre 1976 la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicò una Dichiarazione sulla questione dell'ammissione delle donne al Sacerdozio. Tale documento riafferma la dottrina tradizionale, in opposizione alla tendenza di quell'orientamento teologico che si esprime a favore dell'ammissione delle donne al ministero sacerdotale. Il documento è emesso da un'autorità ufficiale ed è autentico. Possiede un'autorità speciale che trascende quella di qualsiasi teologo. Però, secondo il giudizio teologico sul valore di un documento ufficiale, non è infallibile. Perciò non può essere estraneo da errori, come già avvenne nel passato. Però tale affermazione non toglie e non sminuisce l'autorità della Dichiarazione.

Con tutto il rispetto la teologia può e inoltre è suo compito specifico, valutare il peso degli argomenti presentati in essa. Così fece con grande destrezza Karl Rahner in un recente commento e giudizio critico sulla Dichiarazione della Sacra Congregazione (cfr. Priestertum der Frau? In Stimmen der Zeit, maggio 1977, 291-301). Rahner conclude che l'argomentazione addotta non lascia teologicamente convinti, e neppure sbarra del tutto la strada. La questione è posta sul tappeto e rimane aperta e così il dibattito deve proseguire. L'argomento di base addotto nella Dichiarazione è l'affermazione che la donna non può aver accesso al sacramento del sacerdozio perché Cristo non ha introdotto nessuna donna nel collegio apostolico e neppure gli apostoli lo fecero. Il documento afferma che tale gesto non appartiene ai condizionamenti socio-storici dell'epoca, ma che esso traduce la volontà di Gesù. La tradizione blocca così la fede e la prassi della Chiesa attuale. È proprio questo punto che deve essere provato e non già accettato come un presupposto. La Dichiarazione lascia l'onere di dare una prova a quelli che ammettono tale condizionamento, invece di tentare, come converrebbe, di fornire tale prova lei stessa. Per di più il concetto di sacerdote rimase vincolato praticamente all'aspetto cultuale e liturgico, quando ormai nella riflessione teologica e anche a certi livelli ufficiali come abbiamo sopra indicato il sacerdozio viene considerato in una prospettiva più ampia come servizio all'unità della Chiesa a tutti i livelli. Il documento perciò segna il passo in questa discussione, ma non chiude del tutto il discorso. Forse ottiene il risultato di procrastinare la venuta di una soluzione.

La teologia tenendo in grande considerazione e rispettando la Dichiarazione, avrà spazio per continuare a discutere sulle ragioni favorevoli e contrarie.

Nota redazionale

Con il Motu Proprio "Ad tuendam fidem" pubblicato nel giugno 1998 il papa ha modificato il Codex. Se (prima) la seconda aggiunta alla Manifestazione di fede doveva di per sé essere riconosciuta (come coercitiva) dalla cerchia di propagatori e propagatrici della fede, mediante questa integrazione al Codex è ora diventata un obbligo giuridico per tutti i fedeli. Il can. 750 ricevette un § 2. La relativa trasgressione deve essere punita con una pena adeguata. La definizione della pena del can. 1371 n. 2 CJC subì una corrispondente integrazione. Quindi colui che sostenesse l'ordinazione sacerdotale per le donne, dal momento dell'entrata in vigore della Lettera il 1° ottobre 1998, può essere ammonito a ritrattare dal proprio vescovo diocesano e rispettivamente punito, ma di ciò può essergli chiesto conto anche direttamente da Roma.