Dalle Memorie di Carlo De Angelis

Capitolo V - Carlo De Angelis e altri patrioti approdano in Irlanda e in Inghilterra

Sommario. -- I. Decreto reale che ci commuta la pena nella deportazione in America -- II. Imbarco di sessantasei condannati politici su la corvetta Stromboli -- Commiato dai miei figli -- III. Partenza per l'America -- Passaggio dello stretto di Gibilterra -- Arrivo a Cadice -- Inutili nostre proteste -- Imbarco su una nave americana -- IV. Nostre proteste al capitano della nave -- Voltiamo la prua per l'Irlanda -- V. Approdo nell'isola -- Assistiamo alla messa -- Visita del Major di Cork -- Mazzini manda da noi Giuseppe Fanelli -- Festose accoglienze a Cork ed a Bristol -- VI. Arrivo a Londra -- Entusiastiche accoglienze -- Miei colloqui con Mazzini -- Mia conoscenza con Crispi in casa di Mazzini -- Mie visite a Ledru Rollin ed a Kossut -- Amicizia con Rosalino Pilo -- VII. Partenza da Londra -- Colloqui con Saliceti -- Sono ricevuto dall'imperatore -- Traversata delle Alpi -- Arrivo in Italia.

I. Ecco l'alba del 1859-60, che comincia a farsi fulgida attraverso la nostra prigione. Non solo voci vaghe, ma assicurazioni positive di uomini bene informati fin dal passato dicembre ci avevano fatto vedere certa un'amnistia generale per il prossimo matrimonio del duca di Calabria. Alcuni poi dicevano che l'amnistia vi sarebbe stata solo per quelli che avevano fatto supplica e chiesto grazia; per la qual cosa io fui consigliato da amici a fare una supplica, se non volevo morire in galera, poiché la mia salute, già scossa, diventava di giorno in giorno peggiore. Rifiutai di nuovo.

Verso il mezzodì del 9 gennaio, mentre si chiudeva il bagno, avemmo notizia che alcuni agenti del Governo erano arrivati nonostante il mare tempestoso; supponemmo che fosse una delle solite visite della polizia, tanto più che, chiusa la ciurma dei condannati per delitti comuni, ci chiamarono ad uno ad uno nel corridoio. Quivi invece ci fu letto il decreto del 27 dicembre 1858 con il quale, in occasione del matrimonio del principe ereditario, la rimanente pena dei ferri ci veniva commutata nell'esilio perpetuo dal regno con la deportazione in America. Questa misura non comprendeva che circa 90 condannati, dei quali 12 morti precedentemente; sicché il maggior numero si lasciava nelle galere. Ci si disse di tenerci pronti, perché da un giorno all'altro saremmo stati imbarcati per il nostro destino, e ci si fecero le solite e vane promesse che il Governo ci avrebbe fornito di tutto ciò che ci abbisognava e che, se alcuni di noi avessero voluto condurre seco moglie e figli, il Governo avrebbe dato a costoro il viaggio gratuito. Quel buon comandante che era il capitano Landi ci fece tosto togliere le catene. Nei giorni seguenti vennero amici da Napoli a confortarci; e quei compagni che avevano in questa città le loro famiglie ebbero il piacere di prendere da esse commiato.

Ci arrecò certamente sorpresa questa misura governativa, più che altre per la prevenzione in cui eravamo dell'amnistia. Per chi aveva famiglia era dolorosissimo il doversi separare, e forse per sempre, dai proprii cari. Pensavamo inoltre che al disagio del lungo viaggio in America non tutti avrebbero potuto sopravvivere, per la salute cagionevole di molti. Ma infine l'uscire dalla galera era pure gran cosa! Dapprima io avevo pensato di condurre meco i due figli miei Peppino e Pietrino; ma mille considerazioni, massime del pericolo di questi esseri a me così cari pel lungo tragitto in America, ed il timore che avremmo potuto trovarci tutti e tre un giorno senza risorse nella terra dell'esilio mi rimossero dalla prima risoluzione.

Ognuno di noi comunicò subito alla propria famiglia la sorte che ci era toccata, chiedendo danaro e quanto altro poteva abbisognargli. Ma quelli che come me erano lontani dal paese nativo non potettero averne neppure risposta. Nel pomeriggio del 15 ci fu detto da persone venute da Napoli che in quel giorno agenti di polizia con ufficiali di marina e con molto apparato di forze eransi recati alla galera di Montesarchio a rilevarne Poerio ed altri, che trovavansi colà e dovevano subire la stessa destinazione. Poco dopo vedemmo quattro vapori, che, usciti dal porto di Napoli, vennero a gettare l'ancora avanti a Pozzuoli, in vista di Nisida. Pensammo che nella notte ci saremmo imbarcati; e quindi ognuno fece il suo fagotto delle poche biancherie che aveva potuto portar seco.

II. La mattina del 16, sul fare del giorno, i vapori vennero nel porto di Nisida; e noi fummo invitati a Partire. Ma prima di uscire dal bagno fummo perquisiti diligentemente nelle robe e nelle persone da gendarmi venuti appositamente, che tolsero a noi tutti gli scritti, gli abiti e le insegne della galera e dettero a coloro che non avevano abiti propri calzoni, giacche o soprabiti ed anche qualche camicia. Io non presi alcuno di tali oggetti del Governo, perché avevo abiti e biancheria mia a sufficienza. Fummo tosto imbarcati sulla corvetta Stromboli, dove dopo circa dieci anni potei riabbracciare Poerio, Dono, Pica, Mollica e gli altri compagni, che erano a Montesarchio e già erano stati imbarcati la sera precedente. Erano circa due ore pomeridiane quando salpammo dal porto di Nisida per Procida, ove si fermarono di nuovo lo Stromboli e l'altra corvetta Ettore Fieramosca, sulla quale era imbarcato il capitano di fregata Brocchetti, comandante la spedizione, per prendere a bordo gli altri nostri compagni, che erano in quel bagno. Ciò fu tosto eseguito; e poco dopo il tramonto del sole passammo di nuovo da Procida, facendo poi rotta per l'isola di S. Stefano, dove la mattina del 17 furono imbarcati gli altri condannati politici che stavano in quel bagno, Spaventa, Settembrini, Porcaro ed altri.

La piccola isola di S. Stefano è vicina a quella di Ventotene, dove erano due miei figli in volontaria relegazione e mio fratello Pompeo, i quali avevano già saputo il mio destino e quello dei miei compagni: e perciò, appena videro quei vapori in quelle acque, pensarono che su di essi anche io fossi imbarcato. Ne furono poi assicurati da un biglietto che io avevo potuto mandare loro la stessa mattina per mezzo di un barcaiuolo. Quindi i miei figli Peppino e Pietrino si posero in barca e vennero a vedermi e nel tempo stesso a chiedere licenza al comandante della spedizione, Brocchetti, di far venire anche mio fratello Pompeo, il quale come servo di pena non poteva a suo piacimento allontanarsi dall'isola. Il comandante di questa aveva detto che glielo avrebbe permesso solamente se il detto capitano di fregata Brocchetti avesse acconsentito. Questi aderì alla domanda. Allora i miei figli tornarono alla vicina Ventotene; s'imbarcò con essi Pompeo, e tutti e tre vennero nelle acque ove eravamo ancorati. Mi fu concesso di vederli solo da bordo dello Stromboli e parlare loro per circa mezz'ora; non si volle ad essi permettere di montare sul cassero del bastimento perché io potessi abbracciarli. Per quanto mi fosse riuscita confortevole la vista dei miei cari, altrettanto mi riuscì doloroso il dovermene separare chi sa per quanto tempo e nel dubbio di poterli rivedere più mai.

Mio fratello Pompeo, considerando che io, come tanti altri, forse ero privo di danaro, mi portò le poche monete di cui disponeva, cinquanta piastre.

III. Alle due pomeridiane lasciammo quelle acque, mettendoci in rotta per 1o stretto di Gibilterra, dopo essere stati presi a rimorchio dalla fregata Ettore Fieramosca, comandata dal detto Brocchetti. Il tempo era bellissimo ed il mare in calma come d'ordinario nei mesi di estate. La sera del giorno 18 eravamo in vista dell'isola di Sardegna, il cui capo Teulada svoltammo nel corso della notte; nel giorno 19 eravamo nel golfo di Lione; nel dì 20 fummo in vista delle isole Baleari. La notte passammo innanzi al capo Palos, donde Colombo salpò per la scoperta del nuovo mondo; il 21 eravamo in vista del capo di Gata, il 22 innanzi Malaga. Al tramonto del sole giungemmo in vicinanza dello stretto, che traversammo circa due ore dopo, passando innanzi Gibilterra, che distinguevamo dai lumi. Il mare continuava ad essere tranquillo, ma nella notte, mentre eravamo alla distanza di circa trenta miglia da Cadice, una improvvisa burrasca ci obbligò a tornare indietro ed andare a gettar l'ancora nella baia di Gibilterra, innanzi la città spagnuola di Algesiras. Erano le nove antimeridiane del giorno 23, giorno di gala per la Spagna; per la qual cosa vedemmo sventolare le bandiere ed udimmo le salve dei castelli della città, alle quali risposero le salve della nostra fregata, il Fieramosca. Algesiras è una città graziosa, per quanto se ne può giudicare dal mare, poiché nei tre giorni che restammo all'áncora in quelle acque non ci venne mai permesso di scendere a terra. Diversi battelli con uomini e donne si accostarono più volte alla corvetta su cui noi eravamo imbarcati, anche per vendere degli aranci; ma neppure a quella buona gente fu permesso salire su la nave. bellissima, ridente è tutta quella costa della Spagna.

Fino alla mezzanotte del 25 restammo ancorati innanzi Algesiras, quando, calmatosi il mare, salpammo di nuovo per Cadice, nella cui baia arrivammo alle ore 8 antimeridiane del giorno 26. Bella ed antica città è Cadice; ha un'immensa baia, nella quale si vedono altre città. Verso il tocco dello stesso giorno 26, venne a bordo il vice console napoletano in Cadice: egli nulla ci seppe o volle dire della nostra sorte, scusandosi col dire che non ancora aveva ricevute le relative istruzioni. Noi ci eravamo lusingati che in Cadice saremmo rimasti liberi e padroni di noi stessi: e perciò istantemente chiedemmo al console ed al comandante Brocchetti di essere sbarcati; ma tutto fu inutile. Chiedemmo al Brocchetti che almeno a Carlo Poerio, il quale era gravemente ammalato, fosse permesso di sbarcare a Cadice perché si potesse curare. Vane premure! Brocchetti venne sullo Stromboli a visitare il Poerio e ci disse, dopo qualche istanza, che gli ordini del re erano di trasportarci in America, a New York!... Facemmo una protesta, sottoscritta da tutti, e la mandammo al governatore spagnuolo di Cadice e un'altra al Governo spagnuolo: ma tutto riuscì vano. Leggemmo poi in alcuni giornali spagnuoli l'interpellanza rivolta da un deputato dell'opposizione al Governo spagnuolo sul nostro conto, acciocché questo non avesse fatto il gendarme al Borbone di Napoli, e le vaghe, elastiche parole risposte dal Ministro degli esteri; ripetemmo allora un'altra rimostranza a questo ultimo, inviando nello stesso tempo un ringraziamento a quel deputato. Ma sempre invano, tanto che ci venne il sospetto che colui il quale aveva promesso di dar corso alle nostre lettere, impostandole in Cadice (era un ufficiale medico calabrese, della marina napoletana), non avesse adempiuto la promessa.

Frattanto che il Brocchetti ed il console si adoperavano per noleggiare un bastimento che ci trasportasse a New York, noi eravamo sempre stivati a bordo dello Stromboli, galera galleggiante che ci aveva assegnata il Borbone. Senza che mai ci fosse permesso di mettere piede a terra, restammo nella baia di Cadice fino alle ore 10 antimeridiane del giorno 19 febbraio, nel qual giorno fummo sbalzati su la nave americana David Stewart, la sola che si poté noleggiare per la nostra deportazione, poiché molti altri capitani di bastimenti europei vi si negarono. Presi a rimorchio dalla fregata napoletana Ettore Fieramosca, fummo trascinati nell'oceano fino all'1 pomeridiana del giorno seguente, 20 febbraio. Allora, lontani circa 200 miglia dal capo San Vincenzo, fummo lasciati liberi sulla nave e vedemmo allontanarsi la bandiera napoletana.

Da Gibilterra e da Cadice avevo inviato lettere alla mia famiglia ed a mio fratello Giovanni: due altre ne scrissi dal bordo della nave americana. Insieme con quelle dei miei compagni furono consegnate al Brocchetti, che puntualmente le fece recapitare per la posta. E a dire il vero, non fummo scontenti del modo in cui l'equipaggio dello Stromboli e tutti i marinai ed ufficiali dei due legni napoletani ci trattarono. Essi non solo ci usarono tutti i riguardi, ma si prestarono a non poche nostre esigenze, mostrandosi, specialmente i marinai, dolenti della nostra sorte ed animati da vera simpatia per la causa per cui soffrivamo. Così pure restammo contenti del vitto, che sarebbe stato anche migliore se coloro che ne avevano la direzione, il mastro di casa ed il cuoco, non avessero voluto guadagnare sui nostri trattamenti. Sulla nave americana rinvenimmo dei giornali, fra i quali l'Indépendence belge, e potemmo conoscere alcune notizie dell'Italia, mentre fino ad allora non ci era stato possibile sapere nulla, avendo il governo di Napoli ordinato al comandante Brocchetti di non farci avere alcuna comunicazione. Non mi si vollero consegnare due lettere direttemi da mio fratello Giovanni, cui io avevo dato conoscenza della mia deportazione prima che fossi partito da Nisida. Con quelle lettere egli mi faceva un quadro politico dell'Italia, precisamente del Piemonte, e mi diceva che da un momento all'altro sarebbe cominciata la guerra con l'Austria, che noi saremmo stati ben accolti dovunque e che tosto avremmo potuto ritornare in Italia. Queste due lettere, venute in potere del Brocchetti, non mi si vollero consegnare neppure all'atto della partenza. Ciò io seppi tardivamente da un mio compagno, Domenico Dramis di Lungro, cui lo aveva confidato un suo compaesano, che era imbarcato sullo Stromboli come ufficiale, e ne aveva avuto confidenza dal Brocchetti.

IV. Quando fummo avvertiti che ad ogni modo dovevamo essere deportati a Nuova York, pensammo di protestare col capitano del bastimento che ci avrebbe imbarcati; fu formulata la protesta prima di partire da Cadice. Subito che la fregata napoletana ci lasciò nell'oceano, demmo tale protesta, firmata da tutti, al capitano della nave americana, dichiarando che contro la nostra volontà noi eravamo stati imbarcati sul suo bastimento per essere trasportati a Nuova York, dove non volevamo andare, e che, essendo uomini liberi, non ci si poteva usare violenza e trattarci come mercanzia. Il capitano della David Stewart non conosceva altra lingua che l'inglese, la quale si ignorava da tutti noi. Fece da interprete Raffaele Settembrini, figlio del nostro compagno Luigi Settembrini. Quel giovane era stato condotto in Inghilterra da un gentiluomo inglese, che, prendendo in considerazione la sventura del padre suo Luigi e la desolazione della sua famiglia, lo aveva messo ad educare in un collegio nautico. Raffaele Settembrini trovavasi imbarcato in qualità di secondo pilota su un vapore mercantile che transitava per Cadice, quando noi eravamo ancorati in quella baia. Avendo egli saputo che sui legni napoletani trovavasi il padre, era venuto a visitarlo. Poi, desiderando di seguire il padre nel suo destino, aveva chiesto il permesso al comandante del vapore su cui faceva da pilota e si era imbarcato sulla nave americana che ci trasportava, sotto la finta veste di cameriere per non dare sospetto al console americano, che non vi avrebbe acconsentito. A questa prima nostra protesta, con la quale domandavamo di essere sbarcati in un porto d'Europa e precisamente in Inghilterra, il capitano americano non volle aderire, opponendoci il proprio interesse; perché aveva convenuto il noleggio per novemila e cinquecento colonnati, dei quali aveva ricevuto soltanto seimila: gli altri doveva ritirarli dal console napoletano a Nuova York: questi non glieli avrebbe pagati qualora non ci avesse trasportati in quella città. Egli adduceva inoltre di aver impegnata la sua parola d'onore di condurci in America. Fu fatta una seconda protesta, nella quale dicevamo che avremmo chiamato il capitano innanzi ai tribunali del suo paese come responsabile di tutti i nostri mali e della morte di coloro che sarebbero periti durante il lungo tragitto fino a Nuova York, essendo noi tutti molto malandati in salute. Impauritosi di questa minaccia, il capitano accondiscese, dopo aver chiesto parere altresì all'equipaggio, che era tutto di buona gente, a sbarcarci a Cork, in Irlanda. Di ciò noi ci mostrammo contenti; perché, senza aver predilezione per un porto più che per un altro, era nostro desiderio restare in Europa, per la potente ragione, fra le tante altre, che non tutti avremmo potuto resistere al disagio di un sì lungo viaggio e moltissimi saremmo periti. Infatti, se nei primi giorni pochi erano stati presi dal mal di mare, nell'Oceano, sia per le burrasche che erano cominciate, essendo la stagione dell'equinozio, sia per i cibi cattivi e per l'acqua pessima che avevamo, onde il nostro stomaco erasi indebolito, eravamo molto sofferenti. Il 21 febbraio perciò si voltò la prua verso nord-ovest. Fino al 18 febbraio il tempo era stato piuttosto buono ed il mare in calma, di modo che avevamo fatto pochissimo cammino ed eravamo rimasti sempre in direzione delle coste di Spagna.

V. Il primo di marzo il mare cominciò ad essere burrascoso; facevamo la rotta nord-est con vento ad orza. A mezzogiorno eravamo al grado 42.18 di latitudine. Nel dì 4 si cominciarono dall'equipaggio i preparativi per l'ancoraggio. Al far del giorno 5 eravamo in vista delle coste meridionali dell'Irlanda, ma, per il vento contrario, non prima delle ore due di mattina del 6, domenica, entrammo nella vasta e pittoresca baia di Cork, nella quale alle sette fu gettata l'ancora. Essendo liberi di noi stessi, in diverse comitive scendemmo in alcuni battelli del paese, che si erano subito avvicinati alla nostra nave, e dopo una mezza ora fummo a terra, nel primo borgo di Cork detto Queenstown, che è un bel paese di circa venti mila abitanti, la maggior parte cattolici.

Si iniziava davvero per noi un'era novella, di cui principiavamo a godere prima ancora di metter piede nel libero suolo dell'Inghilterra, imperciocché non un agente di sanità, né di polizia, né di dogana venne a chiedere di noi, delle nostre carte e a rovistare i nostri effetti. Potemmo fare ciò che più ci talentava. Prendemmo alloggio a comitive in diversi alberghi. Io mi trovai con Poerio, Cuzzocrea, Castromediano, Dono, Mollica, Parente, Serino ed altri. Da un commerciante del paese, il quale parlava l'italiano e che ci aveva guidati all'albergo, fummo invitati ad andare ad udire la messa, essendo domenica, in una chiesa cattolica, ove cominciammo a vedere gli usi ed i costumi di quel popolo e dove udimmo per la prima volta angeliche voci di gentili signorine, le quali al suono di un organo accompagnavano la messa, richiamandoci alla memoria giorni meno tristi! Da tanto tempo non avevamo udito che il suono delle nostre catene, che per lunghi anni ci aveva assordato le orecchie, e poi per cinquanta giorni il rumore delle onde, il cigolare delle corde, il batter delle vele! Una certa impressione pure ci fece la forma delle chiese cattoliche inglesi, specie di tribuna, affatto diversa dalle chiese italiane.

Appena la nuova del nostro sbarco si sparse tra quella popolazione, gente di ogni età, di ogni sesso e condizione vennero a visitarci. Nel giorno 7 alcuni dei nostri compagni andarono a Cork a presentare un indirizzo al Mayor della città, esponendogli che eravamo sbarcati in quel luogo e chiedevamo asilo al libero popolo della Gran Bretagna. Io scrissi subito a mio fratello Giovanni il mio felice arrivo. Il Mayor di Cork aprì una sottoscrizione per sovvenire coloro tra noi che ne avevano bisogno e dipoi venne con altri gentiluomini a visitarci. Ci furono portati alcuni giornali, nei quali leggemmo che in Nuova York si facevano preparativi per riceverci, che il console sardo aveva ricevuto ordine dal governo di Sardegna di mettere a nostra disposizione un vapore che ci avesse portati in Italia subito che fossimo giunti. L'ambasciatore sardo di Londra, conosciuto il nostro sbarco a Cork, aveva dato disposizioni al console sardo di fornire a tutti noi i mezzi per il viaggio fino a Londra, sempre quando ci fosse piaciuto di recarci colà. Il 10 marzo andai a vedere Cork per avere da quella dogana una specie di passaporto e per comprare talune cose: vi pernottai e fui bene alloggiato. Verso la mezza notte io ero per andare a letto, quando venne a visitarmi un emigrato siciliano, che era domiciliato in Cork e che era venuto a trovarci a Queenstown, conducendomi il sig. Giuseppe Fanelli, emigrato napoletano, il quale mi conosceva di nome, come io conoscevo lui, latore di una lettera di Mazzini a tutti noi deportati napoletani e di un'altra di alcuni amici diretta a me, a Mauro, a Praino ed a Pace. La missione del Fanelli era di conoscere le nostre idee e di informarsi se avremmo aderito a quelle di Mazzini. La mattina seguente tornai a Queenstown, ed in mia compagnia venne anche Fanelli per farsi presentare al Poerio. Oltre tante dimostrazioni di simpatia per la nostra nobile sventura da tutta la popolazione di Cork e di altre città d'Irlanda, leggemmo nel Times che si era aperta una sottoscrizione per sovvenire ai deportati napoletani.

La sera del 12 il console sardo, che già ci aveva comunicato i dispacci e le disposizioni che dal ministro sardo a Londra aveva ricevute relativamente a noi, venne ad invitare Poerio ed i compagni di lui ad andare a casa sua la mattina del 14 per festeggiare il giorno onomastico del re di Sardegna. A Queenstown restai fino alla mattina del 17, in cui andai di nuovo a Cork, ove mi imbarcai con altri quattordici compagni sul vapore inglese Juverna Bristol, avendoci lo stesso console portati personalmente i biglietti di prima classe per il piroscafo e per la ferrovia fino a Londra. Alle ore tre pomeridiane del giorno stesso salpammo dal fiume-canale di Cork, dopo aver fatto inserire in un giornale della città un addio ed un ringraziamento agli abitanti di Cork e di Queenstown per le cortesi accoglienze fatteci. Dal fiume sboccammo nella baia di Cork, d'onde uscimmo nell'oceano, rivedemmo Queenstown, viaggiammo con propizio vento la notte; la mattina del 19 ci trovammo nel Canale di Bristol, poco distante da Cardif. Ivi trovammo la nave americana sulla quale eravamo stati imbarcati a Cadice. Verso le sei pomeridiane giungemmo in Bristol, dove, poiché vi era pervenuto avviso che da un giorno all'altro saremmo arrivati, quella popolazione venne ad attenderci allo sbarcatoio. Il comandante del detto vapore, appena entrato nello stretto canale che dal fiume Juverna conduce a Bristol, aveva inalberato delle bandiere di festa; il popolo rispondeva con grida di gioia, con spari di mortaletti e con l'innalzare altre bandiere su le case, su le torri, quasi attendesse lo sbarco di un sovrano. Subito che il vapore gettò l'ancora, una calca immensa di popolo si affollò allo sbarcatoio e cominciò a salire sulla tolda: prima di tutti salirono sulla tolda due nostri connazionali, un napoletano, Giuseppe Gaetano Damiani, e un genovese, un tal Niccolò, capitano marittimo, il proprietario di un albergo in Bristol, Henry Allen, il direttore di un giornale e, poco dopo, un deputato della Camera dei Comuni, Mister Langton, i quali tutti ci usarono delle cortesie. Per essi, per il loro linguaggio quasi imponente che usarono verso quel popolo non venimmo schiacciati o soffocati dall'immensa calca che continuava a salire sul vapore. Vennero anche giornalisti; vollero tutti i nostri nomi, che anzi scrivemmo di nostro proprio carattere. Il barone Damiani ci faceva da interprete. Il Langton ci fece molte gentili esibizioni e cortesie e, insieme con gli altri inglesi, fece venire sei carrozze, sulle quali venimmo portati a braccia da quel buono, ospitale, liberalissimo popolo, il quale si stringeva intorno a noi per darci la mano, per dirci delle parole cortesi, per gridarci degli evviva! Tutti avrebbero voluto montare in carrozza con noi! La prima carrozza, su cui mi trovavo insieme con Achille Argentini, Giuseppe Pace, Luigi Parenti e Damiani, si spezzò per il soverchio peso, essendovi saliti anche degli inglesi; si dovette farne venire un'altra. Infine per le influenti parole del Langton e dell'albergatore Allen potemmo tutti montare in carrozza ed a passo lento avviarci all'albergo, preceduti da una banda musicale. Ma era difficile l'andare innanzi, poiché le strade erano stivate di numerosissimo popolo, che tutto ci si serrava intorno per stringerci la mano: uomini, donne, ragazzi di tutte le classi volevano montare sulle nostre carrozze per abbracciarci: ognuno ci porgeva un ricordo: io ebbi da un operaio una piccola scatola di zinco piena di tabacco. Né solamente nelle strade, ma dalle terrazze, dalle finestre di tutti i palazzi facevano capolino uomini e donne e ci salutavano agitando i loro fazzoletti e gridando i loro Hear! replicati. Riusciva impossibile scendere di carrozza all'albergo assegnatoci, dove molte migliaia di cittadini, o per quanti la strada ne capiva, si erano stivati.

Quindi Damiani ed Allen, che erano con noi in carrozza, pensarono di condurci alla stazione della ferrovia di Londra, dicendo che partivamo per quella città. Alla stazione scendemmo di carrozza, c'introducemmo in quel vasto locale e, fingendo di partire, uscimmo su un'altra strada, per la quale poi a piedi fummo condotti all'albergo. Accortosi di questo stratagemma, il popolo venne a fare i suoi soliti evviva! sotto l'albergo, per cui dovemmo più volte affacciarci alla finestra per salutarlo e ringraziarlo. Era nostro intendimento partire per Londra la mattina seguente; ma ne fummo impediti dalle cortesie di quegli affettuosi Allen, Damiani ed altri, tanto che dovemmo fare un telegramma all'ambasciatore sardo per annunziargli che saremmo partiti il giorno seguente. La sera si vuotarono in onore nostro molte bottiglie e ci vennero regalate paste e dolci. Il buon Damiani volle condurmi a casa sua, sita in Clyston, borgata di Bristol, e mi fece premure affinché vi avessi condotto pure un amico di mia scelta. Vi condussi Luigi Parenti, perché, avendo egli cominciato a dar segni di demenza, credetti bene tenerlo sempre a me vicino. Conobbi la moglie del Damiani, una gentildonna di Bristol di età avanzata, che era stata lungamente in Italia, in Napoli, e parlava perciò l'italiano; essa ci colmò di gentilezze. La mattina del 20, domenica, a buon'ora scendemmo dalla casa di Damiani in Bristol ed insieme con gli altri compagni girammo la città. Ci recammo in un ufficio fotografico, pregati dal direttore di esso, che volle fare i nostri ritratti, indi all'amenissimo colle di Clyston, posto sopra il porto, ed allo sbarcatoio. Là incontrammo un gentiluomo, un tal Mister Hare con la consorte e con i figli, i quali cortesemente ci invitarono ad entrare nella loro vicina deliziosa casina, ove ci fecero bere squisiti vini. Ritornammo in Bristol, dove la sera il detto Mister Hare venne a regalarci, a nome della consorte, un magnifico mazzo di fiori, colti nella sua villetta, cosa rara e pregiata in Inghilterra. Vennero pure il su nominato deputato della Camera dei Comuni Mister Langton, il presidente ed alcuni soci dell'associazione operaia. Da Londra il partito repubblicano aveva spedito ad incontrarci il Fanelli, l'Antoglietta ed altri. I nostri compagni Spaventa, Settembrini, Pica, per consiglio dell'ambasciatore, ci mandarono incontro G. B. Riccio per farci deviare dal cammino stabilito, affinché in Londra non fossimo stati ricevuti dai repubblicani.

La mattina del 21 movemmo col primo treno per Londra e verso le 11 antimeridiane giungemmo alla stazione di Packington, in una sala della quale si era preparata una lauta colazione. Durante la quale un inglese, amico di Mazzini, pronunciò un discorso; altro in italiano ne lesse Domenico Antoglietta. Quindi, accompagnati dalla maggior parte degli emigrati italiani, tra quali Quirico Filopanti, già professore alla Università di Bologna, che fece un altro discorso nella sala innanzi alla stazione, e preceduti da una banda musicale, percorremmo in carrozza la strada di Oxford, tra i saluti e gli urrah! di tutti i cittadini che abitavano lungo quella via, e fummo condotti in un'altra sala, ove si vuotarono altre bottiglie. Di là andammo alle abitazioni che ci erano state assegnate. Io abitai presso le signore Emilia e Luisa Mark, che mi davano lezione di inglese. La sera gli emigrati italiani ci vollero a pranzo all'albergo dell'Unione.

A Londra fu aperta dalla aristocrazia una sottoscrizione per venire in aiuto di noi esiliati. Sottoscrissero alcuni ministri, come lord Palmeston, Gladstone, e molti altri; e, secondo uno specchietto che venne a nostra conoscenza, si raccolsero circa dieci mila sterline, cioè lire italiane 250 mila. Noi deportati avemmo delle somme raccolte a Londra ed a Cork circa lire 4500, più le spese del viaggio.

L'ambasciatore sardo a Londra, Emanuele D'Azeglio, ci fece sapere che intendeva conoscerci tutti e visitarci, ma, non potendo farlo singolarmente, desiderava che ci fossimo riuniti una mattina in una sola abitazione. Poerio non era ancora arrivato; quindi si divisò da taluni di riunirci nella casa dove abitavano Spaventa, Settembrini, Pica ed altri, coadiuvati da Giuseppe De Vincenzi, onesto liberale, intelligente e ricco proprietario, che già si trovava a Londra. L'invito fu fatto anche a me; ma invece di recarmi all'abitazione su mentovata, mi feci accompagnare da Mosciare fino alla porta dell'ambasciata e visitai il D'Azeglio che mi accolse con molta gentilezza e mi ringraziò della visita.

Non solo l'aristocrazia, ma anche il partito repubblicano, tra cui figuravano gli Irlandesi, ci dettero delle feste. Invitato insieme con altri nelle Hall Sale, non potetti andarvi perché indisposto: mandai una lettera che fu letta con gradimento e pubblicata dai giornali. Taluni compagni rifiutavano inviti che venivano dal partito repubblicano. Io ero stato presentato a Mazzini dal mio vecchio amico Giuseppe Libertini, di Lecce, cui il Mazzini, dopo letta la mia lettera diretta al Circolo dell'Hall Sale, disse che voleva parlarmi. Vi andai quindi con Libertini. Chi potrebbe rammentare tutto ciò che egli mi disse con la sua parola affascinante? La sua abitazione era modestissima: una stanza, dove era un letto, un tavolo da scrivere, poche sedie, pochi arredi, moltissime carte e giornali. Di rimpetto alla porta di entrata, un grande specchio, che rifletteva tutte le persone che entravano nelle stanze, di modo che il grande agitatore filosofo e grande italiano dal posto dove era seduto abitualmente vedeva i visitatori prima che fossero entrati nella camera. Una ragazza annunciò il nostro arrivo. La seconda volta che fui a visitarlo, mi raccomandò di fare dimostrazioni, appena giunto in Italia, contro l'alleanza francese per la guerra dell'indipendenza italiana. Mentre discorrevamo di simili cose, la domestica venne ad annunciare che vi era mister Crispi. In questa occasione conobbi Francesco Crispi, di Palermo, che allora, mezzo lacero, era aiutato da Giuseppe Mazzini. Questi mi domandò se desideravo conoscere Ledru Rollin, ed alla mia risposta affermativa disse al Crispi di accompagnarmi e presentarmi. Infatti la mattina seguente il Crispi venne a Regent-Street insieme con Emilio Petruccelli ed Emilio Maffei, di Potenza, e ci condusse dal Ledru Rollin, il quale, accennando alla politica ed alla Francia, mi dichiarò che non credeva prossima la caduta di Napoleone, che l'esilio sarebbe durato non poco e che l'alleanza dell'Italia per la guerra contro l'Austria, era un fatto compiuto. Il Mazzini mi aveva dato pure un biglietto per Luigi Kossut, ungherese, dal quale mi recai solo. Lo trovai affabilissimo. Non conosceva l'italiano e parlava lentamente il francese, sì che in questa lingua facemmo la nostra conversazione. E, parlando pur di politica disse franco, che se dopo la guerra d'Italia si fosse potuto addivenire ad una confederazione di stati danubiani, con la Serbia, il Montenegro, ecc., egli avrebbe creduto ciò una fortuna; ma niente altro si poteva sperare per non pochi anni.

Con Giuseppe Libertini abitava il patriota Rosalino Pilo, morto poi da eroe nell'insurrezione del 1860: feci amicizia anche con lui. Conobbi altresì Aurelio Saffi, di Rimini, già triumviro della Repubblica Romana del 1849, e, per mezzo loro, altri emigrati italiani. Il Pilo mi diede una lettera per un suo compatriota, un tale Vasto di Catania, che stava a Parigi e che io in seguito trovai insieme al Carnazza, il quale avevo già conosciuto a Napoli (dove dimorava fin dal 1843) per mezzo del compianto Matteo De Augustinus, illustre economista.

In una delle feste date dagli Irlandesi vi erano la Regina e la bella Mak Farlan, ancora giovane, moglie del generale che aveva fatto la guerra di Crimea e di poi era stato colpito da apoplessia. Rimasto paralizzato, stava su di una seggiola a bracciuoli, ove appunto lo trovai quando andai a far visita alla signora. Questa volle che a tavola io stessi alla sua destra, mi colmò di gentilezze, mi invitò a colazione per il giorno seguente; essendovi io andato, ella mi chiese diverse notizie anche sui miei compagni che erano intervenuti alla festa. Eravamo in tutti 12. Mi disse francamente che essi non le avevano fatto bella impressione. Vi erano diverse signore, tra le quali la moglie di un medico repubblicano, che, nella sala da ballo, mi fece chiedere da una signora il mio biglietto da visita, poiché essa non parlava né l'italiano, né il francese. Vi era pure un'altra signora più giovane, ricca e vedova, la quale volle, nonostante mi fossi dapprima negato, che avessi ballato con lei. Poscia mi consegnò un mazzo di fiori, dicendomi che lo avessi tenuto fino all'uscire dalla festa; parlava il francese; mi invitò pure a colazione. Se non fosse stato per l'amore alla mia famiglia, sarei rimasto in Londra con una bella e ricca dama! Nel partire da Londra scrissi una lettera di ringraziamento al giornale The Mornig Post.

VII. Io partii da Londra, insieme con Luigi Parenti, la mattina del 26 aprile, dopo aver visitato tutte le cose più notevoli di quella immensa e magnifica città. Mi imbarcai con il Parenti sul piroscafo La Seine, in London Bridge, alle ore sette di mattina. Giunsi alle 4 pomeridiane a Boulogne, donde la sera con treno espresso proseguii per Parigi, giungendovi la mattina successiva. Presi alloggio all'albergo Beau Sejour al Boulevard des Italiens. A Parigi vidi al caffè del Cardinale diversi emigrati italiani, tra i quali il Saliceti, lo Sterbini ed il Romeo, il Vasto ed il Carnazza, che mi usarono molte cortesie e mi invitarono a pranzo. Conobbi pure il maestro di musica Broga, abbruzzese, che allora dimorava colà e vi fece in seguito fortuna. Egli venne dipoi in Italia, a Napoli, e fece molto parlare della sua grande valentia. Tutti questi italiani mi furono larghi di cortesie e di profferte e mi accompagnarono in diversi luoghi della città.

Conobbi pure Aurelio Saliceti. Questi mi disse che un emigrato, ..., datosi alla polizia francese ed alla causa del principe Murat, aveva da Londra avvisato la polizia che si tramava alla vita dell'imperatore e che perciò sarebbero venuti a Parigi diversi emigrati napoletani. Mi assicurò che Napoleone si sarebbe recato personalmente in Italia a dirigere le operazioni della guerra. E mi volle presentare una sera allo stesso imperatore Napoleone, che mi ricevé nel suo gabinetto da studio con molta cortesia. Discorrendo con Saliceti delle aspirazioni del principe Murat e delle accuse che a lui, Saliceti, si erano fatte, perché a Genova, Torino e Napoli si sapeva che egli cospirava ed aveva cercato di fare propaganda per Murat, il Saliceti mi dichiarò francamente che l'imperatore Napoleone gli aveva fatto premure all'oggetto e gli aveva detto "che cosa ne faremo di Murat?". L'imperatore pensava che nel Napoletano, per le tradizioni del padre, Gioacchino, il principe potesse aver simpatie; e perciò avrebbe voluto collocarlo sul trono di Napoli. Il Saliceti, non vedendo altro mezzo per scuotere il trono del Borbone, né sperando nella rivoluzione, vi aveva aderito. Allora Napoleone guardava sempre ad una federazione italiana con a capo il papa. Dopo l'alleanza col re di Sardegna mutò pensiero; avrebbe voluto formare un regno di Etruria e collocarvi suo cugino Gerolamo. Appunto a tale scopo aveva voluto che questi sposasse la principessa Clotilde, figlia di Vittorio Emanuele, ma il disegno dell'imperatore trovò forte opposizione in Toscana, specialmente da parte del Ricasoli, e non riuscì.

A Parigi ebbi per mezzo della posta una lettera di mio fratello e così fui tranquillo per le notizie che mi si davano dei miei cari. Già prima a Londra, per mezzo dell'ambasciatore D'Azeglio, avevo scritto ai miei ed avevo ricevuto risposta presso l'ambasciata stessa.

Partii da Parigi più presto di quanto non avessi desiderato, a causa degli avvenimenti d'Italia, ove già era cominciata la guerra. La sera del 6 maggio partii per Torino. La mattina del 7 movemmo per Chambery, indi per S. Jeanne de Morienne, donde la sera iniziammo in diligenza la salita delle Alpi. Sul fare del giorno dalla cima del Moncenisio, coperta di neve, guardai la pianura d'Italia. Che bello spettacolo si presenta agli occhi del viaggiatore dalla vetta di quegli alti monti! Alle ore 7 giungemmo a Susa, donde ne partimmo in ritardo verso le 10 e mezza, poiché si caricava nel convoglio molta artiglieria e cavalleria francese. Giunsi a Torino all'una pomeridiana. Era di domenica: nella corsa da Susa a Torino avevamo visto tutte quelle contadine con i loro costumi di festa, alcune con cuffie, altre con paglie dal fondo piccolissimo e dalle larghe falde. Vidi a Torino diversi amici, Mancini, D'Ayala, Scialoia, Plutino, Pisanelli, Tommasi, Leopardi, Ciccone, Mandoi, il quale ultimo mi fece vedere le cose più interessanti di quella piccola ma graziosa città. La mattina del 12 partii per Genova, dove giunsi alle due pomeridiane. Contemporaneamente vi sbarcava l'imperatore Napoleone, sicché la città era in gran festa, gli alberghi tutti pieni. Mi diressi a casa di Francesco Antonio Mazziotti, che era là emigrato e che mi condusse la sera stessa a vedere l'illuminazione della città ed il passaggio dell'imperatore Napoleone, che andava al teatro Carlo Felice. Erano con noi Pietro Mazziotti, figlio di Francesco Antonio, e Leonino Vinciprova.

Il giorno 20 partii da Genova per Riva, ove trovai mio fratello. Non potrei descrivere la commozione che entrambi provammo nel rivederci dopo undici anni. Mi credetti tornato a nuova vita vedendomi in mezzo a persone di famiglia; e passai giorni lietissimi e tranquilli. Ai 25 di luglio tornai a Genova e andai poi a Vercelli per vedere Luigi Parenti, che aveva tentato di uccidersi con un colpo di pistola e cominciava allora a riaversi. Mi recai quindi a Milano, passando per Magenta, ove la terra era tuttora calda del sangue dei soldati italiani caduti nella battaglia che quivi si era combattuta pochi giorni innanzi; oltre i sepolcri che erano stati scavati lungo la ferrovia, si vedevano ancora avanzi di abiti nei campi adiacenti e le case crivellate da palle di cannone e di fucile.

Trascorsi i mesi successivi a Riva ligure, godendo un po' di tranquillità dopo giorni così tempestosi.


Tratto da:
MATTEO MAZZIOTTI (a cura di), Memorie di Carlo de Angelis, ristampa, Centro di Promozione Culturale per il Cilento, Acciaroli, 1995
(Ristampa delle Memorie del noto patriota cilentano di Castellabate, sullo sfondo dei moti del 1848).



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