L'arte popolare e l'artigianato del Cilento
(Amedeo La Greca)


L'arte popolare antica
L'arte popolare contemporanea e l'artigianato

C'è nell'animus di ogni popolazione una sorta di "passione artistica" che si esterna in certe contingenze connesse alle scadenze rituali o finalizzate ad ornare i luoghi di frequentazione collettiva. La fabbricazione delle maschere rituali presso i popoli primitivi o la decorazione di un luogo di culto, sono elementi che manifestano anche un tentativo di mantenere il legame col soprannaturale tramite l'espressione di quanto di meglio il "genio" popolare può produrre.

La civiltà del consumismo, lì dove ha steso i suoi tentacoli, ha cancellato la funzione sociale e religiosa dell'artista del popolo che ogni piccola comunità ha sempre prodotto e tenuto in grande considerazione, ammirandone l'abilità nel cavare da un pezzo di legno o di pietra delle figure, nelle quali riconosceva i propri sentimenti; o lasciandosi affascinare dalla magìa dei suoi colori, il cui impasto veniva gelosamente custodito.

Il pittore o lo scultore ha così sempre goduto, anche qui nel Cilento, di una sorta di rispetto; ma ha condotto un'esistenza isolata, da solo con la sua arte, considerato un tempo come una specie di stregone ed oggi come un "tipo strano"; di solito non è tenuto troppo in considerazione perché i suoi modelli di vita si scostano notevolmente da quelli comuni.

Oggi che l'arte popolare si va riscoprendo, si è riusciti a valorizzare la produzione di questi artisti, non in riferimento ai canoni ufficiali che nella provincia raramente trovano il modo di esprimersi, quanto piuttosto in riferimento al fatto che essa rappresenta l'unica testimonianza della spiritualità e della cultura del popolo, basata su valori diversi, ma non per questo meno validi. Il mondo dei "senza-storia" che non trova altra collocazione nella società se non nella fatica quotidiana, senza possibilità di riscatto, ha sempre trovato nell'espressività dell'immagine, nella profusione di motivi ornamentali e di colori vivaci, la possibilità di elevarsi ad una dignità spirituale, esternando i propri sentimenti nel raffigurare con tematiche per lo più religiose il desiderio di rifugiarsi in un mondo luminoso, dove il dolore fosse più sopportabile.

Il valore di queste "espressioni" che non si possono definire artistiche nell'accezione comune del termine, vanno dunque valutate con un animo diverso perché basate su valori diversi. Esse possono considerarsi, fra l'altro, un modo di celebrare il trascendente, di esprimere la bellezza della natura e del soprannaturale, ma con un'espressività raffigurativa sempre legata alla realtà contingente: i colori, le decorazioni sono piene di fantasia, a volte di brio; ma i visi delle figure restano rudi, marcati, a volte distorti, come quelli dei contadini.

L'arte popolare antica

Gran parte della produzione artistica popolare era un tempo concentrata nelle chiese, in quanto queste da sempre hanno rappresentato il punto di riferimento della vita religiosa e sociale delle piccole comunità.

Purtroppo gli interventi architettonici realizzati periodicamente soprattutto nel nostro secolo, hanno per lo più spazzato via queste testimonianze, o perché irrimediabilmente deteriorate o perché ritenute "brutte", cioè non più rispondenti ai nuovi canoni estetici o al desiderio di rinnovare gli ambienti.

Così è quasi del tutto scomparsa l'iconografia sacra in argilla grezza e policroma; come pure sono andate distrutte molte statue in malta o gesso policromo e le figure in terracotta o pietra (dette comunemente muócci) poste ad ornamento delle fontane, dei portali o sulle cuspidi dei tetti. Stessa sorte sta toccando agli stemmi gentilizi (in pietra, marmo o legno) che ornano le sommità dei portali specie nei paesi dell'interno; nonché alle croci di pietra, poste al centro delle piazze su una colonna, attorno alle quali si riuniva l'Universitas (es. a Morigerati, a Castel San Lorenzo, ecc;) o erette alle porte del paese o su una roccia per "cristianizzare" un antico luogo di culto pagano (es. Santa Marina). E ben poche sono rimaste anche le antiche edicole poste ai crocicchi delle vie, che sono state le prime ad essere depredate in tempi moderni dagli antiquari: ne sono sopravvissute solo alcune, alquanto recenti (del secolo scorso o degli inizi di questo) che recano dipinte immagini sacre su maioliche (es. Rofrano, Capaccio, Laurino, Piaggine, Vatolla, ecc.), che meriterebbero di essere indagate a parte come le più vive testimonianze della pietà popolare.

Quanto agli affreschi che un tempo coprivano praticamente intere pareti delle chiese, o alle decorazioni a motivi floreali e geometrici delle case gentilizie, essi hanno subito non migliore sorte in quanto negli anni passati, con molta superficialità, sono stati ricoperti di vernice o di intonaco nuovo nel corso delle ristrutturazioni. Oggi con molta oculatezza, nei recenti restauri, se ne cerca a fatica il recupero, scoprendo a volte pitture di notevole valore artistico. Vanno citati anche i piccoli quadri degli ex-voto che numerosissimi si conservano nei santuari e che, al di là del loro valore pittorico, testimoniano la fede ingenua e devota del popolo e il suo rapporto col trascendente.

Una nota particolare è da dedicarsi alle grandi tele dipinte con scene della Passione, usate per ornare gli altari della Deposizione, che si usano ancora realizzare nelle chiese in occasione della settimana Santa: sono andate quasi tutte distrutte e le poche superstiti giacciono ormai abbandonate. Ricordiamo quelle di Pollica, Galdo, Cannicchio.

Di questa arte popolare antica vogliamo qui segnalare alcuni pezzi di notevole interesse che sono miracolosamente sopravvissuti.

Sul M. Pittari, in una delle grotte che, inglobate in una rudimentale struttura muraria, un tempo costituivano il cenobio di S. Michele, oggi ancora possiamo ammirare un'interessantissima testimonianza del culto di questo Santo (è noto che i Longobardi, convertitisi al Cristianesimo, identificarono nell'Arcangelo il loro antico dio Wotan, che essi veneravano in caverne). Alla sinistra dell'altare è collocata una lastra di pietra di circa 90 cm. di altezza sulla quale è scolpito a bassorilievo l'Arcangelo con scudo crociato, armato di lancia con la quale uccide il drago; tutt'intorno, sulla cornice, compaiono dei graffiti, tra i quali ben distinguibile è la spirale che è frequente nella simbologia magica longobarda. Il cenobio era stato fondato per volontà dei principi longobardi di Salerno e dato in possesso al vescovo di Paestum. Nel 1142 il vescovo Giovanni lo cedeva all'abate di Cava, Falcone; all'epoca già vi si celebrava con solennità la festa l'8 di maggio. La civiltà longobarda era penetrata profondamente nella cultura delle popolazioni locali tanto che, nel 1330 un arciprete del luogo, Nicola, ancora viveva "jure Longobardorum".

Considerato, dunque l'ambiente culturale, nonché i simboli che compaiono sul bassorilievo e lo scudo crociato che compare nella figura, possiamo proporne la datazione agli inizi del XII secolo, dopo la prima crociata e prima del possesso benedettino.

Anche a San Mauro Cilento, sopra l'ingresso della Cappella dell'Immacolata, vi è una testimonianza di questo culto: un bassorilievo su una tavoletta di marmo di circa 40 cm. di altezza, raffigura l'Arcangelo rivestito di armatura del Basso Medioevo, con nella sinistra la bilancia della Giustizia divina e nella destra una lancia con la quale colpisce il Diavolo in sembianze femminili, come nella iconografia sacra del XIV e XV secolo, con chiaro riferimento alle streghe, le cui arti erano ritenute frutto della loro simbiosi con Satana.

Interessantissima, per la sua singolarità, è la vera ottogonale da cisterna di Laurino, attigua alla chiesa di S. Pietro, istoriata; nella simbologia dei bassorilievi potrebbe ravvisarsi un linguaggio esoterico di natura teosofica. L'ignoto scultore ha inciso nei riquadri degli otto pannelli un gran numero di simboli, praticamente quelli più correnti della simbologia cristiana nel Medioevo (stelle a sei, sette o otto punte, scala, sole, luna, teschio, tiara, chiavi, spada, ecc.); l'opera è ascrivibile tra il XIII-XIV sec.

A Capizzo, sul timpano della vecchia chiesa parrocchiale (oggi affiancata a quella del XVIII sec.), in una nicchia è inserita una bellissima statuetta in terracotta, purtroppo acefala, che regge il bambino sulla sinistra e mostra i seni scoperti: è la Madonna del Latte o delle Grazie, raffigurata secondo l'iconografia popolare pre-tridentina.

Anche a Sacco, sui muri del campanile della chiesa di S. Silvestro, si possono ammirare tre statue di terracotta (dette dal popolo I Muócci) che raffigurano S. Silvestro, Cristo flagellato e S. Nicola, probabilmente risalenti al XIV sec., ma reinserite nella ristrutturazione del campanile in epoca rinascimentale. Nella stessa struttura esterna della chiesa, sotto un arco detto volgarmente Arrèto Santi (cioè posto dietro il luogo ove sono le statue dei santi), è collocata in una parete una piccola lastra di pietra sulla quale è inciso un crocifisso ("croce espiatoria"), probabilmente di tarda epoca longobarda, ma con ornamenti rinascimentali chiaramente aggiunti. Sempre a Sacco, lungo l'impervia mulattiera che collega il centro abitato odierno con quello antico (detto "Sacco Vecchio", ma in epoca bizantina "Zatalàmpe"), su una roccia sono incisi due simboli fallici, che in epoca cristiana sono stati ritoccati per fare da ornamento ad una nicchia che fino a pochi anni orsono accoglieva una statuetta; ma l'antica funzione magica traspare ancora chiaramente dal bassorilievo.

A Laureana, sulla facciata della cappella dell'Annunziata, nella fascia sotto il timpano, troviamo gli unici esempi di decorazione in terracotta coi simboli di una confraternita, composti a mo' di triglifi e metope, realizzati nel 1895.

Numerose sono anche le testimonianze di iconografia sacra in malta policroma, le cosiddette "Madonne di pietra". L'immagine, ricavata con mattoni legati da malta, modellata e rifinita con gesso e stucco, veniva poi dipinta a colori vivaci; gli occhi erano ottenuti con vetro grezzo. Le figure appaiono rigide e con l'espressione fissa, ma di una bellezza toccante; sono quasi tutte anteriori al XVII secolo. Molte hanno conservato la tipologia greca e possono ricondursi all'iconografia della Madonna Odighitria ("che guida il cammino"): appaiono sedute in trono e recano per lo più il Bambino sulla sinistra, mentre la destra è benedicente e regge un simbolo ieratico legato alla tradizione del luogo.

Queste statue sono inasportabili, ovviamente, per la tecnica di costruzione; ma questo fatto va interpretato anche alla luce di un concetto di storia delle religioni diffuso nei culti antichi: il nume tutelare veniva "fissato" nel luogo della ierofanìa, come a trattenerlo su quella terra che dona la vita. Tutto ciò, a livello inconscio, ancora sopravvive nei racconti popolari relativi a queste "Madonne" che, con la loro apparizione hanno santificato il luogo e lo abitano stabilmente.

Ne ricordiamo alcune: S. Maria Greca a Roccagloriosa, la Madonna di Pietrasanta a San Giovanni a Piro, della Stella a Perdifumo e a Valle Cilento, della Sala a San Mauro Cilento, delle Grazie a Orria, della Neve sul M. Cervati, la Potentissima ad Acquavena, S. Giovanni del Ruchìto a Celso, S. Mauro nella grotta di Capizzo, S. Maria della Sala e S. Pietro a Salento, ecc.

Di notevole interesse appaiono taluni affreschi emersi in seguito a recenti restauri di chiese e che il rinnovato interesse per l'arte popolare ha proposto come beni culturali da tutelare ad ogni costo. Tra i più significativi ricordiamo:

- quelli della cappella di S. Nicola a Capograssi, un tempo monastero; se ne sono salvati soltanto sei, tre dei quali in buono stato di conservazione; risalgono probabilmente al XVI secolo e raffigurano: il martirio di S. Silvestro, la Vergine in trono con S. Benedetto, tre santi benedettini, la Madonna del latte, S. Benedetto e l'Annunziata, la Vergine col bambino. Le linee delle figure a volte molto marcate, denunciano vari interventi posteriori.

- quelli della cripta della chiesa di S. Eufemia a San Mauro La Bruca: solo due sono in buono stato di conservazione; uno copre un'intera parete del primo ambiente e raffigura la presentazione di Gesù al tempio, con ai lati S. Mauro Abate e S. Eufemia; a fianco dell'ingresso, in un pannello, è raffigurata S. Lucia. Nel secondo ambiente, più piccolo, sul muro cui è addossato l'altare, vi è dipinta una crocifissione e sulle due pareti laterali che si piegano a volta, sono raffigurati episodi della vita di S. Eufemia. Questi affreschi, opera di diversi pittori, sono ascrivibili tra il XVI e il XVII secolo.

- quelli rupestri: nella grotta di S. Mauro a Capizzo, di S. Lucia a Magliano Vetere, di S. Iconio e di S. Biagio a Camerota; i primi sono appena leggibili a causa dell'umidità; tutti rivelano un dato importantissimo: testimoniano la frequentazione culturale assidua di questi luoghi lungo i secoli; appaiono eseguiti da diverse mani e in varie epoche; sono per lo più di una semplicità estrema e nello stile richiamano gli ex-voto; quelli più recenti (XVIII-XIX sec.) appaiono eseguiti da mano più provetta.

- quelli di S. Maria delle Grazie a Capograssi, del XVII sec.

- quello della cappella rurale della Madonna dell'Acquasanta, a Laureana (XVII sec.), magnificamente inserito in una struttura di stucchi policromi che troneggia su una composizione iconografica alla maniera antica, rimasta fortunatamente intatta e che un progettato restauro rischia di cancellare.

- quelli del Santuario della Madonna del Granato a Capaccio, messi in luce dal recente restauro, che narrano i miracoli di S. Biagio;

- quelli della chiesa della Potentissima ad Acquavena, nel XIX secolo, che ornano l'abside e fanno da corona alla statua in malta policroma, narrandone i miracoli.

- quelli di artigianato francescano dei conventi di Vatolla, Capaccio, Lustra e Laurino, che sono a cicli, anche se gli interventi posteriori (di solito del XVIII secolo) ne ampliano la tematica.

Nel convento di S. Maria della Pietà a Vatolla, gli affreschi sono concentrati nella chiesa. Abbiamo già narrato come questo convento sorse nel luogo dove venne rinvenuto un antico affresco della Pietà. Questo oggi appare incorniciato ed ornato di corona e cannacca (collana nuziale) secondo l'uso della pietà popolare; appare in discreto stato di conservazione; alcuni interventi posteriori hanno in parte coperto gli elementi naturalistici del fondo, ma hanno risparmiato le belle linee della figura del Cristo morto. Nella stessa cappella si possono ancora intravedere alcuni pannelli della Via Crucis sui muri perimetrali; mentre un pannello laterale è occupato da un altro affresco del tipo devozionale che raffigura la visione di una santa martire e appare di matrice neoclassica.

Nel convento di S. Francesco a Lustra gli affreschi ornano i muri perimetrali del portico e sono ascrivibili alla fine del XVI secolo; narrano la vita e i miracoli di S. Bernardino da Siena che, secondo la tradizione, fondò il convento.

Di estremo interesse appaiono quelli del convento di S. Antonio a Laurino, XVIII-XIX sec., che ornano i muri perimetrali del chiostro e le volte dei corridoi; ma sono in completo abbandono. Essi narrano la vita e i miracoli di S. Antonio di Padova; ciascuna scena è commentata da una didascalia. Altri affreschi, pure di artigianato francescano, ornano la chiesa attigua.

Vanno inoltre segnalati dei manufatti di arte popolare che spesso passano sotto silenzio o sono stati abbandonati... e forse per questo si sono salvati.

Ricordiamone alcuni conservati presso il Museo diocesano di Vallo: i 14 pannelli (cm. 50 x 62) di una Via Crucis, olio su tela, del XVIII secolo; una croce astile in argento, proveniente dalla cattedrale, opera di un artigiano locale del XVI secolo; un tabernacolo in legno di noce intarsiato e intagliato e una croce in legno, avorio e madreperla di artigianato francescano del secolo scorso.

A Sessa Cilento abbiamo anche rinvenuto, in una dimora privata, una statuetta in gesso policromo che raffigura la Madonna della Stella, probabilmente del XV secolo; il proprietario ci ha narrato di averla recuperata in una discarica ove era stata buttata durante i lavori della chiesa parrocchiale negli anni Settanta. La statuetta, elementare nelle linee, è alta appena 70 cm., è raffigurata come in trono e regge con la destra il Bambino in piedi e nudo, mentre con la sinistra gli accarezza la gamba. Questo tipo di iconografia doveva essere predominante nelle nostre chiese (unitamente a quella delle statue in malta policroma inasportabili e quelle in terracotta) almeno fino al primo dopoguerra quando, approfittando del denaro che il Governo metteva a disposizione per la ristrutturazione, molti parroci fecero letteralmente cambiare volto agli edifici sacri, preoccupati solo di abbellire cancellando il "vecchio".

A Celso, sopravvissuta miracolosamente all'insensata distruzione di una cappella gentilizia, troviamo, in casa di privati, una bellissima lastra marmorea della Madonna di Loreto (XVI sec.) voluta dalla famiglia De Verdutiis.

Altri elementi di arte popolare li possiamo individuare nelle "riggiole" per pavimenti, certamente di importazione vietrese, ma indicative per il gusto che si andava creando qui nella provincia; ne sono rimaste di meravigliose nella basilica di Castellabate, nella cappella del convento francescano a Gioi, nella vecchia chiesa dei SS. Pietro e Paolo a Stio, nella chiesa parrocchiale a San Mauro Cilento, nel refettorio del Convento di S. Maria della Pietà a Vatolla, datate, queste ultime, 1741.

Interessante è anche la "croce espiatoria" in pietra del campanile della Collegiata di Laurino.

Una nota a parte va agli altari di pietra e malta policroma. Ne son rimaste pochissime testimonianze: tra queste citiamo quello della cappella dello Spirito Santo a San Mauro Cilento, di recente restaurata, che reca la data 1721, e quello del Rosario a Perdifumo.

Interessanti appaiono anche gli altari di legno scolpito e dorato: citiamo fra tutti quello monumentale della Collegiata di Laurino, della cappella del Rosario nella stessa chiesa, e quello della cappella del convento di S. Antonio, pure a Laurino, sul quale ancora si possono osservare due teche che custodivano un tempo delle reliquie, poste ai due estremi e che chiudono a mò di architrave gli ingressi del coro ligneo.

L'arte popolare contemporanea e l'artigianato

Gli ultimi anni sono stati caratterizzati, a livello internazionale, da una ricerca quasi spasmodica da parte di taluni, non solo di opere d'arte o pezzi di antiquariato ma anche di prodotti artigianali di qualità. Si sa che ciò è stato favorito da una notevole disponibilità di capitali da investire in un bene ritenuto sicuro, ma non da sensibilità estetica: altrimenti non si spiegherebbe come non ci sia stata una corrispondente crescita culturale e di valori spirituali.

Nelle piccole comunità del Cilento, come di riflesso, è avvenuta la stessa cosa. Ma, non potendo questa terra offrire una vasta produzione di arte o pezzi di buon antiquariato, si è cominciato a custodire con taccagnerìa ogni elemento che poteva apparire di valore, dopo che il meglio era stato ormai derubato o svenduto. E come sempre capita, si è cominciato ad apprezzare il valore culturale degli oggetti antichi o rustici quando ormai ne sono rimasti ben pochi; solo allora sono stati "scoperti" come "segni" di quell'identità che, perduta negli anni del facile benessere, la si ricerca oggi come un relitto da salvare in extremis.

A questo proposito dobbiamo qui citare alcuni tentativi fatti negli anni scorsi per valorizzare l'arte popolare e l'artigianato, finiti poi nel nulla per una serie di contingenze a cui il Cilento non è nuovo.

Nell'estate del 1983 fu organizzata la "Prima Mostra dell'Artigianato e dell'Arte popolare", che riscosse un notevole successo, per la novità della cosa e soprattutto per il fervore con cui soprattutto gli stranieri ammirarono e acquistarono moltissimi pezzi. L'anno successivo si volle ritentare l'iniziativa e fu designato Palinuro come sede: il 16 luglio la mostra doveva essere aperta ufficialmente; ma il giorno precedente un gruppo di commercianti sostenuti dai familiari, protestarono vivacemente in piazza Virgilio, dove si stavano allestendo gli stands.

L'atmosfera surriscaldata convinse gli organizzatori a spostare la mostra a Marina di Camerota, ove si tenne negli ultimi giorni di luglio e da dove il 6 agosto venne poi trasferita a Marina di Ascea. L'Ispes (Istit. per la promozione e lo sviluppo economico e sociale), che aveva finanziato in parte l'iniziativa, si era assunto anche l'incarico di formare le nuove leve dell'artigianato e di fornire fattive possibilità di lavoro, oltre ad impegnarsi successivamente affinché la mostra non fosse rimasta fine a se stessa, anche al fine di commercializzare i prodotti. Ma tutto finì lì: gli artigiani-artisti tornarono alle loro case coi loro bei pezzi invenduti, le amministrazioni e le Pro-Loco non avevano percepito il messaggio e di lì a poco l'Ispes, come d'incanto, scomparve. Altri istituti della capitale hanno poi negli anni successivi messo i loro tentacoli sul Cilento: è una serie di sigle tra le quali è difficile orientarsi (Formez, Cesvic, CSC, ecc.), tutti con gli stessi criteri e sistemi: preparano megalitici progetti, percepiscono fondi dallo Stato e poi scompaiono o vivono latitanti sul territorio.

Per fortuna, di tutto questo atteggiamento di non-cultura, non sono rimasti vittima i pochi anziani artigiani-artisti che hanno continuato a coltivare in silenzio la loro "passione" di scultori, incisori, decoratori: i loro pezzi si fanno ammirare e si elevano al di sopra dello squallore di questo Cilento contemporaneo, senza estetica e culturalmente colonizzato, perché essi hanno conservato la genuinità antica e l'autenticità culturale.

Brevemente vogliamo qui segnalare alcuni di costoro che hanno saputo esprimere col legno, con la pietra o con l'argilla i motivi universali della storia umana, pur non possedendo il bagaglio tecnico e la cultura dell'artista.

A) FRANCESCO COCCARO, EBANISTA DI SACCO, E IL SUO MUSEO

Classe 1902, ha sempre vissuto nel paese natale dove, nel 1988, nella sua casa, è riuscito a concretizzare il suo sogno: riuscire a raccogliere in un museo la propria produzione artistica di legno intagliato. Sono opere che propongono a cicli, con scene profondamente "umane", i momenti salienti della vita dell'uomo; dagli episodi biblici alle scoperte scientifiche, dagli uomini illustri alle favole di Esopo, dai personaggi della mitologia ai temi della religiosità cristiana a lui particolarmente cari in quanto scopre in essi la vera storia dell'umanità.

Mi è bastato parlare qualche volta con lui per scoprire come egli, restando profondamente radicato nel paese, sia riuscito a superare l'isolamento culturale aggrappandosi agli autentici valori umani e a vincere la conflittualità con le forze avverse del destino e della barbarie. Ed è forse questo il messaggio più profondo della sua produzione che "ha avuto - tiene a precisare - come esclusiva maestra la Natura".

Francesco Coccaro ha dato anche una lezione di amore verso il paese natale nelle sue polemiche coi concittadini che non accettavano di rendere belle le loro abitazioni con opportune decorazioni in legno sui portoni, come lui ha fatto; e soprattutto lavorando gratuitamente per la chiesa parrocchiale di S. Silvestro ove, oltre a varie cornici e nicchie per le statue dei santi, nel 1959 intagliò il battistero e nel 1976 l'altare maggiore.

Il suo museo, che egli ha denominato "dell'arte artigiana originale e della storia", è testimone di una vita dedicata a sublimare il suo lavoro di ebanista.

B) CARMINE ASTORE, DI ORRIA, E LA PIETRA CHE VIVE

Cominciò a cimentarsi nella difficile arte di intagliare la pietra, seguendo la millenaria tradizione del paese natale, dopo che vi si era ritirato per dedicarsi alla coltivazione della terra.

Emerse allora in lui la cultura dei miti popolari e per circa un ventennio, fino al 1985 quando ormai la vista l'aveva quasi abbandonato, ha tratto dalla pietra locale (l'arenaria cilentana) raffigurazioni che rievocano il passato, intriso di memorie e di immagini simboliche. Nascevano così statuette che raffigurano in maniera stilizzata e ideale il mondo umano, animale ed oggetti comuni. La "Sposa a cavallo", la "Madre e il figlio", le lampade, le sirene dalle sembianze di persone care, sono i temi ricorrenti che si ispirano al mondo dei racconti popolari ascoltati da bambino, personalizzati da una sensibilità artistica originalissima ed espressi col paziente lavoro di scalfittura.

La sua produzione, purtroppo, è andata quasi del tutto dispersa, perché venduta dagli eredi, nonostante che più volte dagli ambienti culturali si sia tentato di sensibilizzare le autorità locali affinché raccogliessero quelle sculture in un ambiente accessibile, sia per la fruizione da parte delle scuole che turistica. Non sarebbe rimasto, infatti, un episodio isolato in quanto il comune di Orria, come abbiamo visto, offre anche un bellissimo itinerario con i suoi "murales".

C) GUERINO GALZERANO, DI CASTELNUOVO CILENTO, E I MOSAICI DI CIOTTOLI

Si è creato, con la sua personalità, la fama del tipo eccentrico che sdegnosamente vive una sua vita particolare, dedicata ad un solo lavoro: rivestire con ciottoli i muri delle case, all'interno e all'esterno. E' chiacchierato, a volte, per il suo passato, tollerato dai paesani quando, col permesso delle autorità competenti, dà inizio ad un nuovo lavoro. La sua casa in campagna, quella in paese, alcuni vicoli, hanno così acquistato grazie a lui un aspetto nuovo e inusitato. Certamente suscitò ulteriore scalpore quando nel cimitero mise mano anche alla sua tomba: vi incastonò la lapide con tanto di foto ed epitaffio; vi figurano la data di nascita (1922), i nomi dei genitori ed un ammonimento: "... qui lascio le mie spoglie. Qui finisce la legge degli uomini e comincia quella di Dio". E' la saggezza del contadino che vive una sua dimensione, frutto delle mille peregrinazioni fuori dal suo paese natale e di quell'esperienza umana acquisita a contatto col mondo che "è brutto - ci dice - perché ha prodotto il Male". Egli lo ha voluto rendere più bello col suo lavoro, dando solennità alle dimesse forme antiche di alcuni angoli del paese, quasi a coprire un'epoca.

D) LINA PINTO, DI POLLICA, E I MUóCCI DEL PRESEPE

Professoressa, madre di famiglia, ha scoperto da pochi anni questa sua passione e già si è imposta all'attenzione di un pubblico colto, essendo riuscita a modellare i personaggi del Presepe (e altre figure) usando la tecnica compositiva degli artigiani napoletani: testa, mani e piedi sono di creta, il corpo di stoffa e paglia, molto flessibile, rivestito con abiti, finemente modellati e ricamati, che riproducono gli antichi costumi cilentani, realizzati da Erminia La Greca di Cannicchio. I personaggi così ottenuti, vengono utilizzati per il presepe a Natale e poi esposti durante la "Festa paesana" a Pollica nel mese di agosto.

E) FRANCESCO MEROLA, DI VALLO SCALO, E L'ANTICA ARTE DELL'ARGILLA

Fino ad alcuni anni orsono, in quasi tutte le fiere o nelle manifestazioni culturali, Francesco Merola era presente con le sue sculture in argilla che riproducevano castelli, palazzi gentilizi, dimore rurali e figure varie della sua terra; poi questa "presenza" è venuta meno perché l'artigiano-artista non ha più prodotto. La mancanza di un forno adatto per cuocere i manufatti (nonostante l'amministrazione comunale ne avesse promesso uno anche per avviare un discorso di artigianato diretto ai giovani), ha impedito che egli continuasse in questa sua "arte", i cui pezzi unici erano apprezzati soprattutto all'estero.

Forse è il destino di questa antica arte che in tempi passati costituiva un necessario sostegno della vita domestica con la produzione di utensili di uso comune. Basterà ricordare le fornaci di Elea per la produzione dei noti "mattoni velini" e delle antefisse, in età classica; e nel medioevo, ricordiamo gli utensili di terracotta prodotti dai monasteri benedettini; e in epoca più vicina a noi, i "cretàri" di Sessa e Camerota, noti, questi ultimi, su tutte le fiere costiere dell'Italia meridionale: quest'arte ha avuto un riconoscimento a livello internazionale solo tramite un libro stampato in Germania nel 1965. Gli autori, individuando una linea comune nella lavorazione odierna della creta a Camerota, in Sicilia e in alcune località della Grecia moderna, ne ricercano la matrice nella tecnica e nelle forme della Grecia classica.

Inoltre, proprio grazie a due stranieri, oggi il Cilento ha una sua piccola produzione artistica anche nella lavorazione della ceramica, che in passato aveva raggiunto una sua decorosa dignità. Maria e Jak Smit, lei cecoslovacca, lui inglese, dagli anni Settanta, vivono isolati in una campagna nei pressi di Forìa di Centola, in perfetta sintonia con la natura e producono un tipo di ceramica ormai affermata in Europa e che rappresenta un'intelligente sintesi di motivi e forme tipiche cilentane con elementi nordici.

Va citata anche, almeno per lo sforzo produttivo, una piccola fabbrica artigianale di ceramica impiantata alcuni anni orsono ad Agropoli.

F) GIUSEPPE FERRO, DI GALDO CILENTO, E L'ARTE DI INTRECCIARE VIMINI DI CASTAGNO

Vive a Galdo e possiede una piccolissima bottega ove trascorre la maggior parte del tempo libero dai lavori dei campi. Giuseppe Ferro è conosciuto in tutto il Cilento (e anche fuori) per la sua straordinaria abilità nel ricavare dal legno di castagno oggetti di ornamento: abat-jours, portagioie, canestri, borsette, a volte di minuscole dimensioni. I rami di castagno, opportunamente trattati col calore di un forno, divengono fra le sue mani dei vimini sottilissimi e prendono le forme volute, frutto della sua fantasia. Le manifestazioni culturali e le sagre sembra non possano fare a meno di invitarlo, tanto i suoi piccoli capolavori attirano. La sua presenza in queste occasioni è inoltre particolarmente gradita perché egli sa anche fare spettacolo con la sua piccolissima armonica a bocca, da cui ricava motivi di musica classica e popolare. Giuseppe Ferro può considerarsi il re degli intrecciatori di vimini: è infatti l'unico ad usare il legno, a differenza di altri (sono numerosissimi in tutto il Cilento) che usano canne, salici o altri tipi di vimini, certamente più semplici nella lavorazione, per creare oggetti di ornamento di varie dimensioni e forme, che, un tempo, erano contenitori d'uso comune per i prodotti della campagna.

G) MICHELE DEL VERME, DI PRIGNANO CILENTO, PITTORE, E LA COSCIENZA DELLA CIVILTà CONTADINA

Lungo la nazionale che attraversa la parte nuova di Prignano Cilento, facilmente si individua un edificio che ospita una mostra permanente di pittura sulla civiltà contadina cilentana. Ne è proprietario ed unico autore Michele Del Verme, appassionato studioso di storia locale, profondo conoscitore della realtà socio-culturale del luogo, pittore autodidatta.

Ha dedicato una vita a ritrarre la vita contadina, riproducendo sulle tele da circa quaranta anni i momenti che ne scandiscono il ritmo, come rituali eterni di un ciclo primitivo.

Sono nati così un centinaio di quadri che ritraggono la mietitura, la vendemmia, la raccolta delle ulive, il frantoio, la celebrazione di una festa, la trebbiatura... insomma tutti quei momenti della vita rurale che costituiscono la vita stessa delle famiglie dei contadini.

La sua pittura è semplice, schematica, quasi elementare, a volte molto realistica; sa scegliere gli elementi più rappresentativi dei soggetti, accentuandone le linee quasi emotivamente: come emotivi sono i ricordi che si sciolgono in forme semplici che spesso indulgono alla ricchezza di particolari, usata solo per puntualizzare l'essenzialità del messaggio.

Egli ha così narrato la vita di una piccola comunità di contadini che oggi, non più legati alla terra, volgono altrove il loro sguardo per trovare nel commercio una sorta di riscatto sociale.

Ma Michele Del Verme, il riscatto lo ha già trovato nella "memoria" di una civiltà, la quale pur se non è più, ritorna ad essere presente come cultura; lo ha trovato mettendo a disposizione dei suoi compaesani, delle scuole e dei turisti la sua produzione, testimoniando così con una singolare scelta di vita la riappropriazione di una identità che sembrava perduta.

H) EUGENIO BOCCUTI, DI TORCHIARA, E L'ARTE DEL FERRO BATTUTO

Lavora ormai poco: ma l'ultima sua opera, ha voluto realizzarla per il Santuario del Granato, per il quale ha "battuto" il ferro, piegandolo alle forme mitiche del frutto sacro, un tempo, ad Hera e poi, in epoca cristiana, simbolo della Grazia divina. D'altra parte nella sua difficile arte egli - ci dice - si collega a tutte le "forme" vegetali (foglie, pampini, frutti, rami) che, pur caduche nella realtà, come la vita umana, acquistano nella nuova materia la consistenza del metallo ritenuto tra i più preziosi fin dall'antichità. La sua bottega è stracolma di manufatti: dai classici letti matrimoniali ai bouquets di fiori, dai lampadari dalle mille forme ai ramoscelli di fico e tralci di vite, dalle statuette ai minuscoli ornamenti.

Rivivono così nel nero metallo i molteplici elementi della natura tramite le fantasiose composizioni e le surreali creazioni, trovando nella durezza del ferro la loro definitiva forma.

I) DOMENICO DI MARCO, DI AGNONE CILENTO, E LA COSCIENZA DELL'ARCHITETTURA RURALE ANTICA

E' un giovanissimo artigiano della pietra. Iniziò da adolescente a costruire in miniatura case e ponti per abbellire il giardino di casa; poi ha continuato realizzando costruzioni rurali, case gentilizie, edicole: sono in pietra, non più alte di mezzo metro, ma perfette nei particolari, a volte ricercate nelle rifiniture. I piccoli sassi sono legati da calce, quella di una volta; le soglie dei balconi o delle finestre riproducono i fregi come negli originali; i coppi della copertura sono realizzati in terracotta uno per uno; gli infissi in legno e coi vetri montati come in antico; perfino i fregi dei grandi portali di ingresso sono riprodotti alla perfezione.

La sua opera è una lezione per gli architetti che hanno voluto ignorare lo stile di un certo tipo di costruzioni rurali, tradendo con i loro progetti - che volevano essere innovativi - questa terra che anche nelle moderne ma non decorose abitazioni è stata costretta a subire uno dei tanti colonialismi.

La lezione di Domenico Di Marco oggi si impone in tutta la sua attualità: lo sguardo al passato, ad un certo modo di concepire il rapporto con la terra e col territorio, la coscienza di inserirsi nel paesaggio quasi in punta di piedi per non violentarlo, la rivalutazione culturale e strutturale delle "forme" autentiche della nostra civiltà rurale, sono elementi che oggi più che mai vanno ripresi - prima che sia troppo tardi - e reinseriti nel nuovo paesaggio che il Cilento si appresta a costruire col "Parco nazionale".



Tratto da:
AMEDEO LA GRECA, Guida del Cilento 3, I Beni Culturali, Centro di Promozione Culturale per il Cilento, Acciaroli, 1993, pp. 99-112.



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