L'emigrazione cilentana in Australia


di Domenico Chieffallo



Con notevole ritardo in relazione agli emigranti provenienti dalle altre Regioni d'Italia, i Cilentani hanno scoperto l'Australia.
In quelle remote terre fin dal 1855 erano approdati piroscafi italiani che, se pure effettuavano viaggi commerciali, avevano trasportato anche gente che partiva per trovare un lavoro all'estero.
Così era stato per il "Goffredo Mameli" comandato da Nino Bixio, sul quale oltre ad un carico di marmi e mattoni, erano stati imbarcati ottantaquattro emigranti. Parimenti risultano aver scaricato su quelle sponde un cospicuo numero di emigranti le navi "Lidia", "Amelia", il "Petronilla" e l'"Aquila". Il numero di coloro che si avventuravano in quelle remote contrade era comunque esiguo e tale, ancora per molto tempo, si sarebbe mantenuto.
D'altro canto l'economia dell'Australia cominciava ad essere conosciuta nei primi decenni del nuovo secolo, quando ci si rese conto che l'enorme distesa di terra (1), la popolazione assolutamente esigua (2), una gran quantità di bestiame per la produzione laniera e la scoperta di alcuni giacimenti auriferi, costituivano un'attrattiva di notevole richiamo per coloro che abbandonavano i propri paesi per ridisegnare il loro futuro.
In tal modo il flusso cominciò ad ingrossarsi, non raggiungendo però mai punte degne di particolare attenzione.
E' dopo la seconda guerra mondiale che l'Australia diventa una delle mete più perseguite dagli Italiani, soprattutto meridionali, che nella riconversione delle attività agricole del luogo in senso industriale e nella persistente scarsezza di mano d'opera indigena, intravedono nuove possibilità per le loro esigenze lavorative.
Il flusso migratorio dal Cilento trova radici proprio negli eventi bellici. Il Governo australiano, nel corso del conflitto, aveva assunto la decisione di aumentare la propria autonomia industriale, pressoché da sempre soggetta e condizionata da altre nazioni, prima fra tutte l'Inghilterra, e, di pari passo pose in essere ogni più utile tentativo per il rilancio della produzione, alquanto stagnante e di scarsa redditività.
A tal fine venne nella determinazione di mobilitare tutte le forze attive disponibili e per le quali aveva creato un vero e proprio piano di mobilitazione obbligatoria per il raggiungimento dei fini stabiliti. L'assenza degli uomini indigeni, impegnati in guerra, certamente rendeva arduo quel programma e di necessità si doveva mirare a risorse umane diverse da quelle usuali.
Nel contesto di quella visione politica globale, ebbe a maturare e concretizzarsi la storia dei "campi di raccolta" dei prigionieri di guerra italiani, dalla quale sarebbero in seguito derivati impensabili risvolti dai contenuti umani e sociali di ampia portata.
I soldati italiani fatti prigionieri in Medio Oriente e in India furono trasportati in Australia a bordo di navi traghetto, in un viaggio che sarebbe stato unico nella storia di quelle terre per la particolare connotazione che esso assunse. Ben 18.500 prigionieri di guerra italiani, stipati in quelle stive, venivano portati verso un futuro che, per molti di loro, avrebbe significato un radicale cambiamento dell'esistenza.
Giunti sul suolo australiano quei soldati furono internati in ben trenta campi, disseminati in punti diversi del territorio nazionale.
Dalle testimonianze del tempo e dalle documentazioni in merito, si evince che quei prigionieri erano trattati alquanto bene. Né tale circostanza deve sembrare strana, se si considera quanto bisogno c'era della loro presenza lavorativa nelle zone ove erano stati confinati.
Invero parte di quegli internati furono adibiti in lavori di pubblica utilità, nel campo dell'edilizia, dei trasporti, delle opere di difesa per le calamità naturali, per la costruzione di strade, acquedotti, ponti, infrastrutture varie. Il maggior impegno fu loro richiesto per la costruzione della ferrovia transcontinentale che proprio in quegli anni era in fase di realizzazione.
Le Autorità australiane si avvidero che gli operai italiani erano i più dotati e redditivi, per la qual cosa furono preferiti agli altri prigionieri, tant'è che nel 1944 il Governo dispose che solo i prigionieri italiani potevano essere internati in quei campi.
Altri militari rinchiusi, invece, furono messi a disposizione degli agricoltori dei luoghi perché se ne servissero per i lavori nei campi. Gli agricoltori e gli allevatori che dietro regolare autorizzazione delle Autorità prelevavano prigionieri internati, dovevano fornir loro vitto e alloggio per tutto il periodo dei lavori. Non erano tenuti però a pagare alcun compenso, in quanto dovevano versare al Governo una tassa di una sterlina a settimana per ogni prigioniero utilizzato e il Governo stesso, dopo aver trattenuto sulle somme versate la parte di sua spettanza, stornava dei fondi che andavano, per l'ammontare di quindici scellini individuali, a ciascun prigioniero utilizzato. Nei campi il lavoro fu sempre altamente redditizio e nei periodi degli adempimenti stagionali quei lavoranti venivano trasportati con i camions in zone a volte distanti anche una intera giornata di viaggio.
Un dato di estremo interesse è dato dalla circostanza che nelle fattorie dove essi erano adibiti, mancava l'elemento maschile giacché gli uomini erano impegnati sui vari fronti di battaglia e di conseguenza alle donne toccava gestire l'azienda agricola.
In una realtà di quel genere, costellata dall'immensità dei luoghi, dalla incalcolabile lontananza dai centri abitati, dalla ossessionante solitudine, quella circostanza a volte creò legami non solo sul piano umano, ma anche su quello affettivo, che avrebbero in seguito orientato le scelte di vita di molti di quei prigionieri.
Cessato il conflitto e rientrati dalla guerra gli Australiani, non c'era più motivo perché i prigionieri Italiani fossero ulteriormente trattenuti. Alla fine del 1946 e agli inizi del 1947 il Governo mise a disposizione delle navi per il rimpatrio degli italiani.
Molti, riacquistata la libertà, profittarono della confusione seguita all'euforia per la fine del conflitto e si nascosero per non essere rimpatriati. In quelle terre avevano deciso di sistemarsi per sempre. Altri rientrarono per ricongiungersi alla famiglia, ma comunque con l'intenzione di ritornare in Australia dove avrebbero trovato una sistemazione in quelle fattorie che in quel modo tanto inusitato li avevano accolti. Altri ancora, raggiunti i paesi d'origine, furono costretti a riprendere la via dell'Australia quando si resero conto che per loro la terra natia non offriva alcuna possibilità di lavoro.
Infine ci fu chi nella lontananza fu preso dal ricordo di qualche donna che, durante la prigionia, gli aveva offerto comprensione ed affetto. E quel legame agì da richiamo e fece riprendere, questa volta volontariamente, la via del mare.
Emblematico, in proposito è stato il caso di Giuseppe Sansone da Cannalonga. Fatto prigioniero nel 1943 era stato portato in Australia e rinchiuso in uno di quei campi, dal quale veniva periodicamente prelevato dalla proprietaria di una fattoria perché eseguisse i vari lavori agricoli. Col tempo fra i due era nata una reciproca comprensione che si sarebbe in seguito tramutato in legame più intenso e duraturo.
Al rientro in Cannalonga, finita la guerra, una fitta corrispondenza fra i due era preludio all'espatrio del Sansone che rientrato in Australia provvide in seguito a richiamare gli altri fratelli, Pasquale e Angelo.
La via per l'Australia ormai era tracciata e da Cannalonga si creò un vero flusso verso quel continente, che vide, sia pure in misura ridotta, anche l'arrivo di cilentani di altri paesi.
Dell'emigrazione in Australia vanno evidenziati due aspetti del tutto peculiari, per il contenuto umano che li caratterizzarono e per i risvolti a volte drammatici che in più occasioni essi assunsero.
Il primo di detti aspetti era dato dalla esasperata solitudine dei luoghi e dal relativo condizionamento psicologico che essi esercitavano sull'animo e sulla mente degli emigrati. Il secondo era inerente al fenomeno delle spose per procura che proprio in quegli anni e per quelle terre raggiunsero cifre assolutamente imprevedibili.
L'immensità delle pianeggianti distese, pressoché disabitate, la lontananza a volte esasperante fra i vari insediamenti umani, l'impossibilità pratica di concrete relazioni umane, la monotonia del lavoro che spesso andava compiuto individualmente e non in gruppi, la impossibilità ad impiegare il tempo libero in qualche attività ricreativa, tutto concorreva a creare nell'animo dell'emigrato una interiore inquietudine che in più casi sfociava in atti di ribellismo o intolleranza verso altri, se non addirittura in alterazioni psichiche non controllabili.
Pazzie e suicidi furono casi ricorrenti in molti emigrati che non seppero resistere a quella dimensione che accentuava a dismisura la già drammatica situazione psicologica in cui versavano per le loro vicende.
Né va trascurato che l'emigrazione in Australia all'origine fu tipicamente maschile, per cui l'esigenza di avere una donna diventava un ulteriore motivo di turbamento psichico, che spesso sfociava in vere e proprie forme di alterazioni patologiche.
Molti emigrati sarebbero rientrati se non fosse esplosa, quasi all'improvviso e all'unisono in ogni contrada del Meridione, la prassi dei matrimoni per procura. Non che prima l'istituto non esistesse! Per procura si erano sposate ragazze cilentane con uomini già emigrati in Brasile, in Argentina, negli Stati Uniti. Ma si trattava pur sempre di casi sporadici e mai giunti a livello di fenomeno di massa. Cosa che invece avvenne per l'Australia. Il matrimonio veniva celebrato nel paese d'origine e ivi registrato. In chiesa il sacerdote celebrava la funzione mentre al posto dello sposo compariva un amico o un parente dallo stesso delegato.
Finita la funzione un breve e malinconico festino e via, lungo l'Oceano, sulla "nave delle spose" in rotta per l'Australia alla ricerca di una nuova vita con un uomo a volte conosciuto solo per fotografia.
Alcune donne, le più intraprendenti, affrontavano il viaggio da sole per sposarsi appena giunte a destinazione.
Avveniva, a volte, che ci si sposava immediatamente subito dopo lo sbarco, in una delle tante chiese che insistevano nella zona del porto. Nacque in merito una consuetudine che vide quelle donne che l'osservavano individuate con l'appellativo di "spose delle banchine".
Le vicissitudini di un emigrante di Cannalonga Domenico Antonio Carbone (3), costituiscono una rara e obiettiva testimonianza della realtà, a volte drammatica e imprevedibile, che i cilentani hanno dovuto affrontare nelle terre australiane Dai suoi ricordi trapela il grande spirito di adattamento e la non indifferente forza di volontà che hanno animato gli emigrati in terra australiana.

"... Nel 1945, all'età di 24 anni, intrapresi al mio paese il mestiere di fabbro. La mia bottega era frequentata da quasi tutti i contadini della zona perché forgiavo gli arnesi per i lavori nei campi: zappe, accette, scalpelli, coltelli per la potatura delle piante. Ferravo anche asini e muli e facevo lavori di stagnatura per recipienti di cucina.
Per oltre dieci anni il mestiere mi aveva reso bene e i guadagni mi consentivano di menare una vita discreta.
Verso la fine degli anni quaranta, però, da Cannalonga e dai paesi vicini moltissimi contadini cominciarono ad emigrare in Australia e in Venezuela.
La mia bottega era sempre meno frequentata perché non c'erano più uomini che avevano bisogno dei miei attrezzi per lavorare la campagna. Quasi tutti erano andati via.
Per me furono tempi duri. Cercai in tutti i modi di tenere in piedi l'attività, ma senza clienti non c'era niente da fare. Ero sposato e avevo una bambina di tre anni quando, agli inizi del 1956 mi resi conto che non avevo altra via d'uscita se non quella di emigrare.
Un paesano che si trovava in Australia, Mario Scelza, mi aveva mandato l'atto di richiamo e io, con la morte nel cuore, lasciai la famiglia e il mio paese.
Mi imbarcai a Napoli sul "Conte Biancamano" che dopo ventidue giorni di navigazione, toccando il Pireo, Porto Said, Porto Aden, giunse finalmente a Frimandola in Australia.
A Napoli ci eravamo imbarcati in trecento, di cui una quarantina provenienti dal Cilento. Al primo scalo nel Pireo la nave imbarcò quattrocento greci, per la maggioranza donne in giovane età, e non sposate come poi ho appreso durante la navigazione.
Allo sbarco ero atteso da due ragazze che aveva mandato Mario Scelza e che mi accompagnarono alla sua casa in Pert, poco distante dal luogo dove ero sbarcato.
Il giorno appresso mi misi alla ricerca di un lavoro, ma mi resi subito conto che non conoscendo la lingua locale era difficile riuscire ad ottenerne uno.
Decisi allora di mettermi in contatto con un paesano che stava già da tempo a Waitalla nel West Australia, distante da Pert due giorni e una notte di viaggio in treno. Questo paesano si chiamava Domenico Pizzolante.
Gli scrissi una lettera spiegandogli la mia situazione e dopo qualche giorno ho ricevuto un suo vaglia telegrafico con venti dollari con l'invito a prendere il treno e raggiungerlo a Paragasta.
Così feci e dopo un viaggio che sembrava non terminare più, attraversando territori immensi e sconfinati, sotto una calura impressionante, finalmente arrivai a destinazione.
Là c'era ad aspettarmi il Pizzolante che mi accompagnò a Waitalla. Durante il tragitto volle sapere notizie di Cannalonga, dei paesani e di tutto ciò che era successo dalla data della sua partenza. Più gli davo notizie e più ne chiedeva e mi accorsi che in lui era molto forte il desiderio del paese che aveva lasciato.
A Waitalla c'era la più grande compagnia mineraria e fonderia dell'Australia, la BHCP, dove il Pizzolante da tempo lavorava.
Fui assunto senza difficoltà e assegnato a Iron-Baron, dove era in costruzione la ferrovia Là ho trovato altri sei paesani di Cannalonga che mi accolsero con festa.
L'avere trovato un lavoro mi procurava una grande gioia, anche perché il trattamento era ottimo e vitto e alloggio erano a carico dell'Impresa.
Quella gioia però fu di breve durata, perché ben presto mi accorsi che il lavoro era massacrante. Si lavorava all'aperto sotto un sole micidiale e un calore che faceva star male Si avvertiva come se la pelle si bruciava e a volte si respirava a fatica. Di giorno eravamo tutti bagnati di sudore che diventava appiccicaticcio e ci dava un senso di insofferenza. La temperatura arrivava anche a quarantadue gradi e per combattere la debolezza che provocava, anche per la grande perdita di sudore, dovevamo prendere pillole di sale, fornite dall'Impresa.
Ma questo era niente in confronto al tormento che ci davano le mosche. Non ne avevo mai viste tante in vita mia. Erano migliaia e migliaia che ronzavano attorno a noi. All'ora della sosta, per il pranzo, dovevamo accendere dei fuochi con legna resinosa, che provocava fumo. Pr poter mangiare ci mettevamo vicino al fumo perché teneva lontane le mosche. Solo con questo sistema si riusciva a mangiare, perché le mosche all'odore del mangiare si avventavano addosso ed erano attirate dalla bocca delle persone piene di cibo. Erano scene disgustose che ho visto parecchie volte e chi c'è capitato è stato male per il grande ribrezzo che ha provato.
Un altro grave problema era l'acqua per bere, che sul posto non esisteva. Veniva trasportata con vagoni ferroviari e depositata in grandi bidoni, tenk, dove dovevamo bere. Ci accorgemmo però che in quell'acqua si formavano dei vermiciattoli di colore rosso che davano un grande disgusto perché si vedevano galleggiare.
In un primo tempo cercavamo di non bere, ma il caldo asfissiante, il sudore e le pillole di sale che ci seccavano la lingua ci fecero vincere quel ribrezzo. Mettevamo un fazzoletto sulla bocca e attraverso di esso succhiavamo l'acqua, in modo che i vermiciattoli si fermavano nel fazzoletto.
Attorno a noi c'era solo deserto. La vegetazione era inesistente e gli alberi erano privi di foglie, con i rami e i tronchi rinsecchiti.
Il lavoro era tremendo. Non bastava fissare i binari, ma anche raddrizzarli perché il calore li faceva dilatare e quindi perdevano la loro forma. I binari li mettevamo uno distante dall'altro di circa quaranta centimetri. Poi per il caldo il ferro si dilatava e poiché ai lati dei binari li avevamo chiusi con presse per evitarne l'ingrossamento, essi sfogavano in quello spazio vuoto e si congiungevano uno con l'altro.
Quella vita era insopportabile e la sera, seduti in mezzo a quell'inferno parlavo con i miei paesani e cominciavamo a pensare di andare via per trovare un lavoro più sopportabile.
Dopo il tramonto, anche se si riposava e l'aria diventava più sopportabile, per noi incominciava un altro tormento. C'era un silenzio che faceva paura. Si sentiva nell'aria una sensazione di smarrimento e ci sentivamo come tanti minuscoli insetti sperduti in un immenso spazio.
Solo gli animali davano segno di vita e spesso ci facevano sobbalzare.
Accendevamo dei falò non per riscaldarci, ma per avere una compagnia, come se fossimo a casa vicino al camino. Nessuno aveva voglia di parlare, ognuno pensava ai familiari, agli amici, al paese lontano.
Tutto ciò invece di darci conforto ci faceva soffrire di più. Si desiderava soprattutto la compagnia di una donna.
Durante la settimana santa del 1956 avvenne un fatto straordinario. Il grande caldo aveva fatto dilatare un pezzo di binario a circa trenta chilometri dal posto dove stavamo noi. Per questo fatto nell'ultimo vagone di un treno che trasportava materiale pesante per i lavori, le ruote erano uscite fuori dai binari. Poiché nessuno se ne era accorto, il vagone fu trascinato per oltre trenta chilometri e così per tutto quel percorso i binari furono danneggiati e la linea doveva essere rifatta.
Per poter riparare la linea bisognava prima sostituire i binari e per fare ciò si dovevano spiantare quelli già fissati e rovinati. Quel lavoro avveniva con l'uso dei pichi che venivano usati come leve per rimuovere i binari. Purtroppo ci accorgemmo che tutti i pichi erano spuntati per il continuo uso che se n'era fatto. L'ingegnere capo non sapeva come fare e si trovava in grande difficoltà.
Le squadre di operai lungo il percorso dei trenta chilometri non potevano lavorare e aspettavano che qualcuno dell'Impresa gli donasse ordini.
Fu allora che mi venne un'idea. Conoscevo bene il mio mestiere di fabbro e mi presentai all'Ingegnere dicendo che potevo rifare la punta ai pichi. L'ingegnere mi disse che era impossibile perché non c'era sul posto l'incudine e il mantice. Gli dissi allora che avevo solo bisogno di due bidoni, uno vuoto e uno pieno di acqua.
Avuti i due bidoni, come detto, ho capovolto quello vuoto e ho praticato sopra una diecina di buchi. Dentro ho acceso fuoco con legna resinosa e sopra, dove c'erano i fori, ho disposto del carbone fossile che là attorno ce n'era in grande quantità I carboni si accesero e il fuoco si manteneva vivo per l'aria che passava attraverso i fori e lo alimentava.
In quei fori inserivo la punta dei pichi che in breve tempo diventavano incandescenti.
Così infuocati e pronti ad essere lavorati li poggiavo sul binario come se fosse l'incudine e con un grosso martello di ferro li lavoravo appuntendoli e servendomi del bidone dell'acqua per poterli temprare.
Il boss non credeva ai suoi occhi. Per ben diciotto giorni ho continuato a fare quel lavoro, mentre il boss con un carrello andava raccogliendo, in tutti i punti dove stavano le squadre i pichi spuntati che io lavoravo per appuntire.
Il fatto venne riferito alla direzione dell'Impresa che stava a Waialla e i capi vennero sul posto per conoscermi e complimentarsi. Mi dissero che a fine lavoro dovevo andare a Waialla per un lavoro più qualificato, ma l'Ingegnere capo dal quale dipendevo si oppose perché voleva impiantare un'officina sul posto e aveva bisogno di me.
Erano passati intanto cinque mesi. Io sentivo di non sopportare quel lavoro che diventava ogni giorno sempre più pesante. Anche se la paga era buona e mi permetteva di aiutare la famiglia e di risparmiare, cominciavo a pensare di abbandonare tutto.
Una sera ne parlo con i miei paesani che come me erano sfiniti per il clima insopportabile, per la durezza del lavoro e per gli altri disagi. Si sapeva in giro che nel nord Australia cercavano tagliatori di canna da zucchero, che in quei luoghi il clima era migliore e che anche le paghe erano più alte.
Ci decidemmo e il giorno dopo lasciammo il campo io, Mario Scelza, Domenico Pizzolante e Carmine Troncone.
Il viaggio durò quattro giorni e quattro notti. All'arrivo non abbiamo avuto problemi per il lavoro, che ce n'era in quantità e i proprietari avevano bisogno di mano d'opera. Però con i paesani ci siamo divisi perché ognuno ha trovato lavoro da un padrone diverso. Il mio era in Atmenton e si chiamava mister Tod.
Per due mesi ho fatto quella esperienza. Credevo di trovare una fatica più sopportabile, invece ero caduto dalla padella nella brace.
Si doveva prima ripulire il terreno della sterpaglia e dell'erba foltissima che cresceva attorno alle canne. Per fare questo si dava fuoco attorno, perché le canne non si bruciavano in quanto erano fresche.
Così preparato il terreno la mattina all'alba si iniziava il taglio e ognuno doveva entro le undici riempire tre carrelli di quattro tonnellate di canne ognuno.
Era un lavoro bestiale che comportava anche due pericoli mortali. Uno era la presenza di serpenti, fra i quali il taipo era il più velenoso e il suo morso dava la morte quasi subito. L'altro era costituito dai topi che facevano le loro tane proprio fra le canne. Con il loro morso si contraeva una tremenda malattia che in pochi giorni procurava la morte.
Dopo due mesi di quella vita ci rendemmo conto che non era possibile continuare e così io, Mario Scelza e Domenico Pizzolante abbandonammo tutto e partimmo per Sidney. Carmine Troncone restò, perché aveva trovato lavoro in un mulino e se la passava bene.
A Sidney trovai lavoro in una fabbrica governativa che produceva tubi in lamiera e vi rimasi un anno, quando venni a sapere che a quarantaquattro miglia da Camberra si stava costruendo una grande diga nei pressi di Upper Cotter Dam e che l'Impresa E. S. Clementson cercava operai.
Mi presentai e fui assunto. Alla costruzione della diga lavoravano circa mille operai, tutti emigrati. Fra di essi vi erano un centinaio di cilentani. Per le referenze che avevo mi misero in officina. Guadagnavo molto bene perché avevo 12 scellini e mezzo per ora lavorative e inoltre vitto e alloggio gratuito. Dopo 18 mesi la diga era terminata ed io avevo necessità di trovare un nuovo lavoro.
(... Omissis ...).
A Camberra in quei giorni la Compagnia francese Citra reclutava operai per la costruzione di un'altra diga. Mi feci assumere e così per un anno il problema era risolto. Finiti i lavori parto per IslamBend ove era in costruzione una galleria e anche una diga. Là ebbi la sorpresa di trovare l'Ingegnere che aveva costruito la diga a Upper Cotter Dam che mi fece assumere e mi mandarono a lavorare in galleria. Dopo tre mesi però l'Ingegnere mi chiamò e mi disse che aveva bisogno di me alla diga, perché si doveva impiantare un'officina e io stesso dovevo dirigerla. In questo modo per due anni sono stato il responsabile dell'officina dell'Impresa che io stesso avevo impiantato da zero.
(... Omissis ...).
Gli anni passavano e in me cresceva il desiderio di un lavoro meno pesante, lontano dalle zone deserte, perché la solitudine è la peggiore cosa che esista e ti fa stare male e ti abbrutisce. Decisi perciò di rientrare a Sidney, volevo vivere a contatto della gente, vedere negozi, qualche spettacolo. E poi volevo richiamare mia moglie e mia figlia. Come potevo farlo se continuavo a stare in mezzo a zone desertiche?
Pensavo a tutto questo quando mi venne un'idea. Io sapevo parlare bene il francese, lo spagnolo, l'inglese e anche l'arabo, che avevo appreso durante la mia lunga permanenza in zona di guerra.
Pensai allora che la conoscenza di quelle lingue in una grande città poteva servirmi per un lavoro più dignitoso.
A Sidney mi presentai in un albergo l'Australian Hotel, il cui direttore, un ebreo che si chiamava mister Tarragano, mi assunse per la durata di mesi tre. Alla fine di quel periodo, poiché ero molto utile per i clienti stranieri fui riconfermato e in breve tempo diventai insostituibile per l'andamento dell'albergo, dove ero inquadrato come portiere ma facevo un po' di tutto. La paga era ottima e il trattamento non poteva essere migliore. Mi sentivo finalmente rinascere. Il lavoro era dignitoso, mi dava soddisfazione e mi consentiva di vivere a contatto con molta gente.
Ero ormai in condizione di poter richiamare la famiglia. Cosa che ho fatto e dopo cinque anni, per migliorare ancora, sono passato alle dipendenze di un altro albergo di Sidney ancora più grande ed elegante, come capo portiere. Così sono trascorsi ben ventidue anni vivendo in una situazione dignitosa e di piena soddisfazione in quella città.
Ma anche nei giorni migliori c'era sempre qualcosa che ti rodeva dentro, il ricordo del paese dove sei nato.
Nel 1974 si decide di rimpatriare. Cannalonga è sempre la stessa. Nulla è mutato, la gente, la piazza, il lavoro che non c'è. Con i risparmi portati dall'Australia costruisco una casa su un sito di mia proprietà. Passano due anni e mi rendo conto che in Cannalonga per me non c'è nessuna possibilità di lavoro. Se vuoi lavorare devi andare via, oggi come allora.
Agli inizi del 1977 lascio la famiglia e ritorno di nuovo a Sidney. Vi resto per altri tredici anni. Rimpatrio il 2 agosto del 1990. La mia avventura da emigrante è finita. Questa volta per sempre. Non mi pento di niente. Se fossi più giovane ritornerei ancora a Sidney, ma ho settant'anni e sono stanco. Un solo pensiero mi tormenta; quando mi guardo attorno: cosa faranno i giovani in questa terra? Anche loro dovranno partire per poter vivere...
" (4).


NOTE

1. La superficie è di 7.695.000 Km2.
2. La popolazione era di 10.965.000 unità.
3. Domenico Antonio Carbone, nato a Cannalonga il 10-12-1921.
4. Archivio privato Domenico Antonio Carbone - Cannalonga.


(Tratto da: Domenico Chieffallo, Cilento oltre oceano. L'emigrazione Cilentana dall'Unità alla seconda guerra mondiale , Acciaroli, Centro di Promozione Culturale per il Cilento, 1994, pp. 329-338)



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