Spigolando fra gli Antichi
Brani classici riguardanti il Cilento

di Fernando La Greca


1. Palinuro è sempre stato un promontorio pericoloso per le navi, in caso di tempesta, fin dall'antichità: vi hanno fatto naufragio intere flotte romane, al tempo delle guerre puniche, ed in seguito. Anche la flotta romana di Ottaviano (Augusto) vi fece naufragio, nel 36 a.C., durante le guerra contro Sesto Pompeo. Le navi scampate e da riparare furono portate a terra, probabilmente sulla stessa costa lucana tra Velia e Palinuro, e il comandante Agrippa andò via in cerca di legname. Menodoro, ufficiale di Sesto Pompeo, con le sue sette navi, attaccava le imbarcazioni in riparazione, e si prendeva anche beffe dei nemici. Ce lo racconta Appiano (B.C., V, 98-101), nella traduzione di E. Gabba.

Cesare, all'inizio della tempesta, si era rifugiato nel golfo di Elea, che era ben protetto, eccettuata una sola exere che andò perduta presso il promontorio. Un vento di libeccio essendo succeduto a Noto, il golfo fu investito dalle ondate essendo aperto verso Occidente, e non era possibile uscir fuori contro il vento che soffiava contro il golfo né remi né ancore potevano tener ferme le navi, ma esse venivano sbattute o l'una contro l'altra o contro gli scogli. E per la sopraggiunta notte il disastro era ancora più grave.
Quando la tempesta cessò, Cesare seppelliva i morti, curava i feriti, faceva rivestire quelli che erano sfuggiti a nuoto e li armava con altre armi e riparava l'intiera flotta con i mezzi disponibili. Gli erano state distrutte sei delle navi maggiori, ventisei delle minori e ancor più delle liburniche. E per queste riparazioni egli dovette impiegare trenta giorni, ed oramai la fine dell'estate era prossima e, quindi, per lui la miglior cosa sarebbe stata il rinviare la guerra alla prossima estate. ma essendo tormentato il popolo dalle carestie, riparava le navi con sollecitudine, avendole tratte a terra.... Menodoro... precipitandosi, non previsto, come un fulmine sulle navi che proteggevano le flotte di Cesare in costruzione e ritirandosi, sparendo, si impadroniva di due e anche di tre per volta delle navi guardiane, e di quelle da trasporto, che portavano frumento, ferme agli ormeggi o in mare affondava o catturava o dava alle fiamme. Ogni cosa era in piena confusione a causa di Menodoro, mentre Cesare ed Agrippa erano lontani: quest'ultimo era in movimento per raccogliere legname. Una volta Menodoro, per sfida e per disprezzo del nemico, fece volontariamente incagliare la nave in un banco di fango molle e simulava che fosse trattenuta dalla sabbia, finché, mentre gli avversari si precipitavano giù dai monti verso di lui come a una preda pronta, faceva retrocedere la nave e se ne andava fra le risa, e scorno e stupore dominavano l'esercito di Cesare.

2. Le lucaniche, salsicce di carne porcina, erano una rinomata specialità della Lucania. In un brano Apicio, buongustaio romano del I sec. d.C., ce ne dà la ricetta (De re coquinaria, II, 4):

La ricetta per le lucaniche è simile alla precedente: si triti pepe, comino, santoreggia, ruta, prezzemolo, spezie, bacche di lauro, salsa di pesce, e si aggiunga polpa ben triturata, in modo che il tutto sia di nuovo ben rimescolato con il mortaio. Dopo aver aggiunto ancora salsa di pesce, pepe intero, grasso in abbondanza e pinoli, si introduca l'impasto in un budello reso quanto mai lungo e sottile, e così lo si sospenda al fumo.

3. Spesso la Lucania, di cui faceva parte il Cilento in epoca antica, era descritta come una regione orrida, con alte montagne, rocce e dense foreste. Si tratta di un topos, un luogo letterario, ripetuto da diversi scrittori, ma smentito da altre fonti che mettono in risalto la ricchezza produttiva della Lucania e i suoi "dolci rifugi", anche in epoca tarda. Del resto anche nel brano successivo, di Avieno, del IV sec. d.C. (Descriptio orbis terrae, vv. 496-510), appena prima della Lucania, nel Picentino, ovvero nella zona di Pontecagnano, troviamo la descrizione di colline ricoperte di copiose viti ed estesi tralci. Probabilmente tutte le colline intorno alla piana del Sele dovevano avere tale aspetto.

Di qui inizia il suolo dell'agro Campano; qui i flutti una volta
Partenope caduta nella distesa del mare tranquillo
accolsero nel loro seno. Se ancora verso il tiepido mezzogiorno
volgi lo sguardo, vedrai le più alte cime boscose
dei monti Picentini. La loro chioma colà in copiose viti
si distende, e Bacco ricopre i campi con estesi tralci.
Quindi la regione dei Lucani orrida per le rocce
che si levano in alto; i molti sassi appuntiti rendono aspro
il suolo già ostile, e le foreste sono buie per gli alberi densi.
Di qui i forti Bruzi abitano fra le spine e dimorano
in rocche malsicure, finché i fiumi della Sicilia
si protendono verso il mare, e le acque nelle aperte campagne
piegano dolcemente verso la costa, sia dove l'onda adriatica
dei mari orientali rigetta lontano estese alghe, sia dove
i rapidi cavalloni del Tirreno la travolgono.

4. In un brano di Cassiodoro (Var., IV, 48), Teodorico concede ad Eusebio il permesso di soggiornare, per ritemprarsi in vacanza, nella "dolce" Lucania. Siamo lontani, come si vede, da Avieno, che vi trovava solo luoghi orridi. Forse è cambiato il gusto del paesaggio, o forse, in un'epoca di invasioni barbariche e di monasteri, cominciano ad essere apprezzati i dulces recessus (anno 507/511 d.C.).

All'illustre Eusebio, il Re Teodorico.
Dopo i tumultuosi impegni cittadini, accresciuti dalle noie e dalle molestie della burocrazia, desideri liberarti dal tuo ufficio nella dolcezza della provincia, giustificandoti con le attuali gravose faccende, terminate le quali desideri godere della tranquillità della campagna. E poiché davvero con le nostre disposizioni ti è stata data questa garanzia, quando giungerà il tempo in cui sarai libero dalle attuali occupazioni, con il nostro permesso ti concediamo otto mesi di riposo nei dolci rifugi della Lucania, da computare dal momento in cui, col favore divino, ti sarà possibile uscire dalla città. Trascorsi i quali, come è desiderio di molti, affrettati a tornare nella tua sede di Roma, restituendoti alla comunità dei nobili e a una conversazione degna del tuo rango.

5.
Si parla spesso di decadenza e disfacimento per le città di Paestum e Velia alla fine dell'impero Romano. Ma le fonti sembrano dirci il contrario. In un brano di Cassiodoro (Var., IV, 5), i naviculares (ossia gli armatori) della Lucania sono invitati a trasportare generi alimentari nella Gallia, afflitta da una carestia (anno 508/511 d.C.). Se ne deduce sia il perdurare della ricchezza produttiva della regione lucana, ricca di vettovaglie, sia una notevole attività dei suoi naviculares. E' stato ipotizzato che tali naviculares siano di Velia, o comunque che sfruttino per la loro attività i porti lungo la costa, Velia, Pioppi, S. Marco di Castellabate, la baia della Licina di Agropoli, Paestum.

All'amabile Conte Devoto, il Re Teodorico.
Non sta bene accogliere malvolentieri le nostre disposizioni, quando è chiaro che esse procurano vantaggio soprattutto ai sudditi. Pertanto, abbiamo saputo che nella regione gallica c'è scarsità di generi alimentari, e verso tali luoghi sempre velocemente si dirigono i commercianti, per rivendere a prezzo maggiore le cose comprate a poco prezzo. E così, fidando nella tua devozione, sappi che con il presente decreto tutti gli armatori della Campania, della Lucania e della Tuscia dovranno affidarsi ad idonei fideiussori, e dirigersi con ogni specie di vettovaglie verso le Gallie, con il permesso di vendere così come si conviene tra compratore e venditore. E' un grande vantaggio commerciare con i bisognosi, quando la fame fa disprezzare ogni ricchezza al fine di poter soddisfare le proprie necessità. Infatti, pur obbedendo alla propria avidità, che vende qualche cosa che è richiesta, sembra quasi, in certo modo, donarla. Portare cibi a persone sazie è un'impresa rischiosa, ma chi li porta a persone digiune può fissare il prezzo a suo arbitrio.

6. In una lettera all'amico Trebazio Testa del 20 luglio del 44 a.C., scritta da Velia (Ad famil., VII, 20 ), Cicerone parla della città, della villa di Trebazio, caro ai concittadini, del fiume Alento, della salubrità e amenità del sito, dove, oltre un secolo prima, Paolo Emilio, il vincitore di Pidna, ammalato, era andato a curarsi, in una villa lungo la riva del mare, dove c'era molta quiete. Trebazio probabilmente intende disfarsi dei suoi possedimenti a Velia per costruirsi una casa a Roma, e Cicerone cerca di dissuaderlo. La casa è chiamata domus Papiriana, e da altre fonti sappiamo che il padre del poeta Stazio, Papirio, con tutta probabilità, era di Velia. Davanti casa c'è un albero di loto, cioè un kaki, che impedisce una completa vista panoramica. Si fa accenno anche ad un libro di medicina, forse non a caso, se si ammette l'esistenza di una scuola medica a Velia, e, guarda un po', si tratta di un libro sull'alimentazione, in quella che poi sarà la patria della "dieta mediterranea". Si tenga presente che Cicerone, in seguito all'uccisione di Cesare (idi di marzo del 44 a.C.), aveva deciso di recarsi in Grecia, seguendo la via marittima Velia-Reggio.

Velia mi è diventata più cara, da quando ho capito che tu ne sei amato. Ma perché parlare solo di te, che sei stimato da tutti? Del tuo Rufio, sulla mia parola, è sentita a tal punto la mancanza, come se fosse uno di noi. Ma non ti rimprovero di averlo portato con te a Roma, per la costruzione della tua casa. Sebbene Velia non sia da meno del Lupercale [sul colle Palatino], tuttavia preferisco Roma rispetto a tutto quello che c'è qui. Tu però, se ascolterai i miei consigli, come sei solito, conserverai questi tuoi possedimenti paterni (i Veliensi infatti hanno non so quale timore), né lascerai il nobile fiume Alento, né abbandonerai la casa dei Papirii. Sebbene essa abbia un albero di loto, sul quale sono soliti trattenersi gli uccelli di passaggio, se tuttavia lo taglierai, molto ne guadagnerai in vista panoramica. Ma, soprattutto, mi sembra opportuno, specialmente di questi tempi, poter contare su un rifugio, in primo luogo la stessa città, abitata da persone a cui sei caro, e poi la tua casa e i tuoi campi, e tutto questo in un luogo tranquillo, salubre, ameno. Credimi, caro Trebazio, interessa anche a me! Ma stammi bene, cura i miei affari, e, se gli dei mi aiutano, aspettami prima della cattiva stagione. Ho portato via a Sesto Fadio, discepolo di Nicone, il libro di Nicone "Sulla voracità". O medico amabile, come sarei arrendevole ai suoi precetti! Ma il nostro Basso mi aveva tenuto nascosto questo libro; tu invece lo conoscevi, sembra. Il vento si sta rafforzando. Cerca di star bene. Da Velia, 20 luglio.

7. Bruto, l'uccisore di Cesare, si fermò per qualche giorno con la sua flotta ad Elea, dove incontrò anche Cicerone. Un dipinto, raffigurante l'addio di Ettore ed Andromaca, fa scoppiare in lacrime la moglie di Bruto. Ce lo racconta Plutarco (Brut., 23, 4), nella traduzione di C. Carena.

Così si esprimeva Bruto nelle sue prime lettere. Senonché a Roma si andavano ormai formando due fazioni, l'una raccolta intorno a Cesare, l'altra intorno ad Antonio, e gli eserciti si vendevano come merce all'incanto, ponendosi agli ordini del miglior offerente. Bruto disperò quindi che la situazione potesse in qualche modo migliorare e decise di abbandonare l'Italia, recandosi per via di terra attraverso la Lucania ad Elea, che è una città sulla riva del mare. Lì era stabilito che Porcia lo lasciasse per tornare a Roma, ed essa si fece forza per non tradire la commozione da cui era pervasa; ma un dipinto la tradì, sebbene fin'allora si fosse mostrata ardita. Il soggetto del dipinto, tratto dalle storie elleniche, era l'addio di Andromaca ad Ettore: Ettore consegnava alla sposa il figlioletto, ma ella teneva lo sguardo fisso su di lui. Al vedere riprodotta sulla tavola l'immagine stessa della passione che la tormentava, Porcia scoppiò in lacrime e, tornando più volte nel corso della giornata innanzi al dipinto, sempre piangeva. Uno degli amici di Bruto, Acilio, le recitò allora i versi ove Andromaca dice ad Ettore: "Ettore, padre e augusta madre ormai / e fratello mi sei, e dolce sposo". Bruto sorrise e disse: "Io però non penso di rivolgere a Porcia le parole che Ettore rivolge ad Andromaca: 'Bada alla tela, al pennecchio e alle ancelle', poiché se la natura del corpo le impedisce di compiere azioni pari a quelle degli uomini, il suo spirito lotta per la patria con lo stesso nostro coraggio". L'episodio è riferito dal figlio di Porcia, Bibulo. Da Elea Bruto salpò e fece vela per Atene.

8. Il poeta Orazio (Epist., I, 15, vv. 1-25) chiede informazioni all'amico Vala, probabilmente originario di Paestum, sul clima e le risorse di Salerno e di Velia, per passarvi l'inverno. Il medico Antonio Musa aveva curato Augusto con l'idroterapia fredda, forse nella stessa Velia, e ormai Baia, con i suoi bagni caldi, era passata di moda. Orazio cerca una nuova cittadina dove villeggiare, più a sud. Orazio si rivela qui il prototipo del villeggiante, esigente e di gusti raffinati, in cerca di località tranquille e poco conosciute (altrimenti perché informarsi?).

Fammi sapere, Vala, com'è l'inverno a Velia, qual è il clima di Salerno, che gente abita in quei paesi e qual è lo stato della strada (infatti, riguardo a Baia, Antonio Musa afferma che non mi è di giovamento, e tuttavia me la sta rendendo nemica, mentre mi cura con bagni ghiacciati in un ambiente freddo. Così quel villaggio si lamenta per i suoi mirteti abbandonati, e per l'indifferenza verso acque sulfuree che si diceva eliminassero alla radice le malattie più ostinate, e detesta i malati che osano porre testa e stomaco sotto le sorgenti di Chiusi e che si recano a Gabi e nelle sue fresche campagne. Dovrò cambiar posto e dirigere il mio cavallo lontano dai percorsi abituali. "Dove vai? La mia meta non è più Cuma né Baia", dirà il cavaliere irritato tirando le redini a sinistra, ma il cavallo ci sente solo dal morso). Fammi sapere quale delle due città ha più grano per nutrirsi, e se bevano acqua di cisterne o di sorgenti perenni (per quanto riguarda il vino di quei lidi, non me ne preoccupo. Nel mio podere, in campagna, posso sopportare e accontentarmi di tutto, ma quando vado al mare, desidero un vino generoso e dolce, che scacci gli affanni, porti ricche aspettative nelle mie vene e nel mio cuore, mi suggerisca le parole, mi preservi giovane per le ragazze della Lucania). Fammi sapere quale terra sia più ricca di lepri, quale di cinghiali, e quali acque abbondino di pesci e frutti di mare, per poter ritornare a casa grasso come un Feace. Tutte queste cose mi comunicherai, e ad esse fedelmente mi atterrò.

9. Secondo una leggenda, Ercole giunse, nel territorio di Poseidonia, presso uno scoglio, dove si raccontava questo episodio: un cacciatore indigeno di cinghiali disprezzò la dea Artemide, e ne venne punito. Lo scoglio viene identificato da P. Cantalupo con il promontorio di Agropoli, sul quale vi sarebbe stato, nell'antichità, un tempio di Artemide. Ecco il racconto di Diodoro (IV, 22, 3-4), nella traduzione di P. Cantalupo.

Queste cose, dunque, (Eracle) compì in quei luoghi; partitosi di là giunse ad uno scoglio nel territorio dei Poseidoniati, presso il quale si favoleggia sia accaduto un fatto straordinario e meraviglioso; un cacciatore indigeno cioè, molto rinomato per le sue brillanti imprese venatorie, che in tempi precedenti era solito consacrare ad Artemide, inchiodandole agli alberi, le teste e le zampe degli animali uccisi, avendo preso una volta un enorme cinghiale, disse, quasi a disprezzo della Dea, che ne dedicava la testa a se medesimo e, tenendo dietro alle parole, appese questa ad un albero; egli poi, essendo l'atmosfera afosa, a mezzogiorno si distese a dormire; scioltosi nel frattempo il legaccio, la testa cadde sul dormiente e l'uccise.

10. L'indovino Astifilo di Poseidonia, amico intimo di Cimone, generale ateniese, interpretò negativamente un suo sogno, presagendone la morte. Siamo nel 450 a.C., e Cimone sta preparando una spedizione in Egitto contro i Persiani, dalla quale non tornerà più indietro. In questo periodo Poseidonia è al suo massimo splendore, e viene edificato il suo tempio maggiore, cosiddetto "di Nettuno". Si possono supporre all'epoca buoni rapporti di Poseidonia con Atene, se un suo cittadino era intimo del grande stratega ateniese. Astifilo nell'episodio è incaricato anche di un sacrificio a Dioniso. Curiosa la somiglianza del nome a quello di Assteas, noto pittore pestano di vasi, attivo però circa un secolo dopo. Ecco il racconto di Plutarco (Cimon, 18, 2-6) nella traduzione di C. Carena.

Quando tutto era pronto [anno 450] e già i soldati sulle banchine attendevano, Cimone fece un sogno. Gli sembrò di vedere una cagna che latrava furiosamente contro di lui, e tra i latrati lanciava dalla bocca parole umane; diceva: "Và', che sarai accetto a me e ai miei cuccioli". Un sogno difficile da spiegare. Pure, Astifilo di Poseidonia, un indovino intimo di Cimone, dichiarò che la visione presagiva la morte di Cimone stesso. Egli l'interpretava in questo modo: un cane che abbaia verso una persona le è nemico, e ad un nemico non si potrebbe essere più accetti che morendo; la mescolanza, poi, delle voci, umana e canina, sta ad indicare che il nemico cui si allude è il medo, poiché l'esercito dei Medi è un miscuglio di Elleni e di barbari. Oltre alla visione, durante il sacrificio che Cimone offrì a Dioniso, mentre l'indovino squartava la vittima, un nugolo di formiche raccolse via via il sangue che cadeva a terra, lo trasportò tutto, poco alla volta davanti a Cimone e gliene spalmò all'ingiro l'alluce di un piede. Egli rimase così molto tempo senz'accorgersi di nulla; quando vi pose mente, gli si avvicinò il celebrante e gli mostrò il fegato: mancava del lobo. Ma ormai non c'era più tempo per tirarsi indietro dalla spedizione.


(Tratto da "Quaderni del Parco - Cultura Ambiente Territorio" - supplemento a "Cronache del Mezzogiorno"- n. 4, primavera 1997, pp. 13-18.
Fernando La Greca ha curato il volume Fonti Latine per la Storia della Lucania Tirrenica, edito dal Centro di Promozione Culturale per il Cilento, Acciaroli, 1994)



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