LA PITTURA DI MICHELE CORTAZZO
(Clara Schiavone)


Quando si parla di pittura cilentana, o almeno di quella espressa ai massimi livelli e che ha avuto una elevata risonanza non solo oltre i limiti territoriali regionali ma anche nazionali, la prima figura artistica a cui immancabilmente si fa riferimento è quella di Paolo de Matteis. Ma ci sono altri personaggi che hanno operato dignitosamente nel campo delle arti figurative travalicando talvolta, e purtroppo, quell'atteggiamento di morboso attaccamento alla propria terra, ma che, loro malgrado, vi hanno dovuto rinunciare (almeno professionalmente) per dare un'immagine di se stessi meno limitata e a più ampio respiro, nazionale e internazionale.

È quello che è accaduto a due pittori dell'800, Michele e Oreste Cortazzo, il primo originario di Ceraso, suo figlio, invece, nato a Roma. Nelle loro opere, o almeno in quelle che sino ad ora si è potuto analizzare, è difficile scorgere delle note biografiche, dei riferimenti alle proprie origini e alla propria terra, di individuare, insomma, quegli aspetti caratteriali tipici della "cilentanità", che invece de Matteis nelle sue opere aveva esplicato magistralmente. I Cortazzo sono pittori che, pur operando in due ambienti completamente diversi, si sono adeguati alle tendenze pittoriche predominanti del loro tempo e alle esigenze più frequenti della committenza. Sconosciutissimi, mai analizzati attentamente dalla storiografia artistica, ho avuto al tempo stesso l'onore e l'onere di scoprire e studiare questi due artisti, sui quali scarse o quasi inesistenti erano le notizie, e di proporre i primi risultati della mia ricerca in un saggio contenuto nel libro "La Siepe e la Quercia", pubblicato questa estate[1].

Entrambi i pittori hanno un'attenzione verso il fatto di diventare degli artisti di tipo accademico professionalmente qualificati e la loro attività è quindi destinata immediatamente a un mercato di alto livello. In questo discorso c'è il problema di bruciare le radici perché non esistono aree di mercato locali, a Ceraso e nel Cilento, in grado di assorbire questo tipo di attività. La singolarità in Michele Cortazzo, così come nel figlio Oreste, anche se per quest'ultimo ci sono più giustificanti, è insita proprio nell'assenza di ogni riferimento all'ambiente da cui proviene, se è vero che ogni artista si porta dentro qualcosa della propria terra. Questo è dovuto forse al fatto che entrambi i pittori sono degli ottimi professionisti ma si muovono con molta cautela rispetto ai fermenti pittorici innovativi, per cui più che estrinsecare la loro carica emotiva amalgamandola con il fatto pittorico e il tema sociale, si sono piuttosto preoccupati di soddisfare di volta in volta, e astutamente, credo, da un punto di vista di mercato, le richieste e i diversi gusti dei committenti.

Ho iniziato la ricerca partendo, per ovvie ragioni di ordine cronologico da Michele Cortazzo, padre di Oreste. Don Aniello Scavarelli, parroco di Ceraso, mi aveva fatto avere una foto di un'opera di Michele, ubicata nel palazzo reale di Caserta.

Ma nella reggia ho scoperto che c'era stato un errore di catalogazione, molte attribuzioni erano state invertite. Infatti l'opera della foto non era, come si pensava, La Carità Romana di Cortazzo, bensì Il Soccorso all'indigenza di Tommaso De Vivo, pittore dello stesso periodo e di pari formazione accademica, solo più noto. In effetti entrambe le opere si possono ammirare nello stesso ambiente, la "Sala di ricevimento della regina", una di fronte all'altra.

In sostanza l'errore era dovuto al fatto che anni fa la catalogazione delle opere veniva effettuata approssimativamente dagli stessi custodi della reggia, per cui molti errori erano dovuti proprio all'incompetenza.

Michele Cortazzo nasce a Ceraso a cavallo tra il XVIII e XIX secolo, comunque non oltre il 1808, dato che negli archivi anagrafici, consultabili da questa data in poi, il nome di Michele Cortazzo non compare. Inizia probabilmente qui la sua attività pittorica come autodidatta, non si è a conoscenza purtroppo di eventuali contatti con altri artisti cilentani o se abbia avuto modo di frequentare qualche bottega nella zona.

Scarse sono le notizie biografiche sul suo conto, anche se alcune solerti discendenti stanno cercando di ricostruire l'albero genealogico della famiglia, per individuare la giusta collocazione di Michele e il grado di parentela.

Si trasferisce a Napoli giovanissimo e forse grazie all'interessamento di uno zio, ufficiale dell'esercito borbonico, che è stato anche raffigurato pittoricamente dal nipote, si iscrive all'Accademia di Belle Arti. Siamo in piena restaurazione borbonica, dopo un periodo di dominio francese. Non dimentichiamo ancora prima il sanguinoso periodo della rivoluzione napoletana del 1799. Quasi tutto il materiale figurativo, relativo al semestre rivoluzionario della repubblica napoletana, è andato distrutto, e una causa determinante fu la reazione borbonica che provocò terribili massacri e saccheggi, compiuti ad opera dell'esercito sanfedista guidato dal cardinale Ruffo.

L'accademia sospese le sue lezioni fino al 1803. A partire, invece, dal 1806 e cioè con l'ascesa al trono di Napoli, per un decennio, di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, Napoli cerca di ritornare agli antichi splendori e a un ruolo di egemonia culturale, grazie anche alle interessanti riforme apportate dai nuovi regnanti napoleonidi[2].

Anche Ferdinando I di Borbone, quando nel 1815 ritornò al trono di Napoli dall'esilio siciliano, dovette riconoscere che il periodo di supremazia francese fu molto prolifico per la cultura e l'arte napoletana. Infatti Ferdinando ebbe l'intelligenza di non disfare quanto lasciatogli dal vecchio nemico.

Murat fece venire dalla Francia molti pittori e alcuni contribuirono in qualche modo alla modernizzazione della scuola locale. Furono alcuni allievi di David a diventare punto di riferimento di molti pittori accademici: Jean Baptiste Wicar, direttore dell'accademia dal 1806 al 1809, diede una svolta in senso neoclassico all'insegnamento, affermando il primato del disegno e dell'antico. Diverse committenze murattiane furono condotte a termine sotto Ferdinando I che spesso ne accettò l'impostazione culturale. Allo stesso modo continuò a servirsi del grande Canova, cui Murat aveva affidato il ritratto equestre di Napoleone, facendogli porre sul cavallo già pronto per il Còrso la figura di suo padre Carlo, incaricandolo pure del suo ritratto equestre. In effetti Murat si era impegnato molto nel campo della promozione culturale. Con decreto, nel 1809, aveva approvato i nuovi statuti dell'accademia il cui pensionato romano dava agli allievi vincitori di una borsa di studio la possibilità di conoscere le più moderne tendenze dell'arte e i modelli antichi.

MICHELE CORTAZZO, La morte di Eudossia, disegno giovanile, da "L'ape Italiana"

Inoltre con un altro decreto si ordina la formazione di una galleria di pittori napoletani per raccogliere e conservare le opere dei migliori maestri napoletani, evitandone così la dispersione e il loro degrado. Purtroppo questo secondo proposito per avversioni politiche non fu mai attuato.

È sempre nel periodo murattiano che furono organizzate le prime mostre dei prodotti artistici del regno, nel tentativo di valorizzare manifatture ed artisti meridionali. I Borbone riprenderanno più tardi l'idea dando alle manifestazioni una certa periodicità[3].

Questa premessa storica ci aiuterà a capire il clima di fervore culturale, in piena restaurazione borbonica, che troverà Michele a Napoli quando arriva per iscriversi all'Accademia di Belle Arti. I giovani allievi dell'accademia ebbero l'opportunità di approfondire i moderni orientamenti della cultura neoclassica attraverso l'osservazione dei modelli antichi che, grazie alle relazioni intercorse con il Canova, dovevano essere studiati dal vero, presso le gallerie e i musei.

I migliori allievi, inoltre, potevano usufruire di quel periodo di pensionato, voluto da Murat, che consentisse loro di trasferirsi temporaneamente a Roma e di raggiungere un certo grado di perfezionamento negli studi. Riallacciandomi sempre alle positive innovazioni murattiane, a partire dal 1826, furono organizzate biennalmente, fino al 1859, delle esposizioni d'arte che accoglievano, oltre ad opere di artisti già noti, i saggi degli allievi napoletani e i dipinti inviati dagli allievi pensionati a Roma[4].

Il Cortazzo che partecipò all'esposizione del 1833, sicuramente faceva parte del gruppo dei pensionati a Roma, in quanto, in questa occasione, egli espose tre opere, tra cui una copia fedele del Figliuol prodigo di Guercino, che aveva potuto osservare e studiare a Roma ed è la versione che si trova nella galleria Borghese. La riproduzione fedele di opere di grandi maestri antichi era un po' una prerogativa di quasi tutti gli allievi pensionati a Roma, secondo il criterio che solo un buon copista avrebbe potuto dare sfogo alla fecondità del proprio ingegno.

MICHELE CORTAZZO, Il figliuol prodigo

Oltre al Figliuol prodigo espose una rappresentazione del Giasone che conquista il vello d'oro e il Sacrificio di Abramo.

MICHELE CORTAZZO, Giasone che conquista il vello d'oro

Il critico Achille Arcasenza che insieme al cronista della rivista Il Topo letterato recensiva l'esposizione, non ebbe parole encomiabili, se pur ironicamente incoraggianti nei confronti dell'artista:

"Ho innanzitutto osservato nell'entrare, sulla destra della sala dove sono esposti i quadri, tre lavori del signor Michele Cortazzo, uno della grandezza naturale, rappresentante il Giasone che vittorioso riporta il conquistato vello d'oro, un altro piccolo rappresentante il sacrificio di Abramo, e un terzo copia del figliuol prodigo del Guercino. Non ti parlo io di quest'ultimo perché non vi si può che ammirare solo il merito dell'inventore. Quanto alle altre due opere, per quello che ho potuto osservare sembrano di diverso autore.

L'espressione e i lineamenti del volto del Giasone non credo che siano lodevoli, poiché non a un eroe della Grecia, ma a un uomo del volgo par che somigli. Oltretutto le tinte sono uniformi e scalcinate. L'Abramo è di un colorito forte e non leccato, e di una maniera piuttosto franca e ardita.

Ma il disegno sembra meno corretto di quello del Giasone, né l'espressione è quella di un uomo che per volere del suo Signore sta in atto di sacrificare il proprio figlio. Ciò nonostante vorrei che l'autore considerasse piuttosto i difetti dell'Abramo che quelli del Giasone, poiché in quello mostra un ingegno più fecondo e un gusto migliore. E tu bene sai, amico, che la perfezione del disegno può acquistarsi con l'esercizio: laddove lo spirito e il gusto, se dalla natura non ci è dato, inutile è ogni sforzo dell'uomo... Tuttavia questo valente e giovine artista merita di essere lodato e incoraggiato: Tanto più che odo che il Giasone è stato da lui dipinto in stato di infermità"[5].

D'altronde era ben comprensibile la posizione polemica di Arcasenza, in quanto egli volgeva i suoi gusti pittorici più verso la novella scuola di Posillipo che non a quella emulatrice dell'antico.

Infatti le sue lodi andarono ad artisti appartenenti alla scuola di paesaggio dell'olandese Pitloo, tra cui Beniamino De Francesco, Gabriele Smargiassi e, soprattutto, a colui che diverrà in seguito il più autorevole esponente del Vedutismo napoletano: Giacinto Gigante. Pietro Ebner riporta figurante all'esposizione del `33 anche un'opera rappresentante la Maddalena[6] che sarà stata esposta, probabilmente, in una successiva biennale, e di cui oggi non si ha nessuna traccia, così come sono andati dispersi l'Abramo e quattro opere che si trovavano a Ceraso: Narciso, l'Incontro di Ulisse con il cane Argo, un Autoritratto e il Zi Tenente, di cui ho fatto cenno inizialmente; quasi tutte opere a soggetto storico e mitologico, secondo i dettami della più schietta tradizione neoclassica. Unica opera di cui si è a conoscenza, ancora posseduta da un discendente nel Cilento è il San Antonio, opera giovanile di Michele collocabile cronologicamente nel periodo antecedente l'esperienza accademica.

MICHELE CORTAZZO, San Antonio

Si evidenzia in quest'opera un'ingenuità stilistica e l'assenza di nozioni di anatomia artistica rilevabili soprattutto nelle mancate proporzioni del bambino; anche se l'opera appare diversa sia per il segno stilistico e cromatico che per il soggetto delle opere successive, già traspare, però, da essa un buon tratto disegnativo e uno sforzo intenso a una ricerca artistica, se pur entro i limiti della cultura cilentana di quegli anni. È l'opera più naif di Michele, ma è, in fondo, la più cilentana di tutte, non soltanto perché è la meno "acculturata", ma perché questa voluta ingenuità arcaistica probabilmente ci riporta a Paolo de Matteis che notoriamente è il massimo artista cilentano, nella cui pittura devozionale ha espresso nel settecento, alcuni valori importanti del barocco internazionale.

Interessante è il fatto che un pittore come de Matteis sia stato immediatamente assorbito da un meccanismo migratorio di tipo centrifugo, diventando prima a Napoli il maggior allievo di Luca Giordano e in seguito sarà uno dei pochi pittori di area napoletana del primo '700 ad avere un lungo soggiorno a Parigi, dove avrà un grande successo come artista internazionale, come sarà, probabilmente, capitato a Oreste Cortazzo qualche tempo dopo. Ritornando al San Antonio è interessante la riflessione enunciata dal prof. Guarracino[7], per quanto riguarda il volto del santo che sembra (trovandomi concorde in questa impressione), "il volto di una maschera napoletana, con i tratti somatici molto stilizzati, le ciglia molto tirate, una fisionomia che sembra scaturire dal connubio tra un Pierrot e un viso femminile", questo forse nel tentativo di imitare o entrare nelle grazie di qualcuno: di un pittore, di un ambiente, forse il biglietto di presentazione nei confronti dell'entourage in cui Michele vuole inserirsi o si è già inserito. Il San Antonio, quindi, potrebbe essere una citazione, un omaggio a qualche esponente dell'ambiente in cui si è formato, "non è assolutamente un fatto singolare che dei pittori si servano di questi giochi di riflessi, di un ammiccamento nel tentativo di ingraziarsi qualche autorevole personalità".

Ritorniamo all'esposizione del `33, alla quale oltre al Cortazzo vi parteciparono pittori come Filippo Marsigli, Camillo Guerra, Natale Carta, Tommaso De Vivo, tutti artisti pensionati a Roma, e che in seguito occuperanno posti di rilievo all'interno dell'istituzione accademica e nell'ambito delle committenze borboniche, e che ebbero l'opportunità di formarsi brillantemente presso la scuola di Vincenzo Camuccini, nominato nel 1829, da Francesco I di Borbone, direttore dei pensionati della regia accademia di Belle Arti di Napoli a Roma[8].

Considerando valida l'ipotesi che il Cortazzo facesse parte dei fortunati sovvenzionati a Roma, se ne può dedurre che anch'egli appartenesse a quel gruppo di allievi camucciniani. D'altronde la linea pittorica adottata da Cortazzo lo accomuna con questi altri pittori, essi si proposero in effetti di recuperare la mitologia classica con una tendenza dominante allo studio e all'imitazione dell'antico come una "nuova maniera". A differenza degli artisti operanti a Napoli che studiavano la pittura classica solo attraverso statue e gessi, senza alcuna possibilità di formazione di quel gusto pittorico che viene dalla continua osservazione e dallo studio delle pitture antiche, Cortazzo e i pensionati a Roma studiavano non solo all'accademia ma anche sui quadri degli antichi maestri dell'arte. Può essere stato proprio il Camuccini, apprezzato autore di copie di maestri antichi, a indurre il Cortazzo a copiare il Figliuol prodigo di Guercino, e a farlo interessare al Rinascimento italiano di Michelangelo e Raffaello e alle teorie neoclassiche di Mengs e Winckelmann, nonché alla lezione di David di cui il Camuccini, nel 1810, aveva frequentato lo studio a Parigi[9].

Ed è soprattutto l'impostazione della pittura davidiana che emerge dalle opere di Cortazzo e dagli altri artisti di formazione camucciniana. L'ascendenza del neoclassicismo davidiano è rilevata in maniera tangibile nell'opera che meglio chiarifica il percorso artistico del pittore cilentano: La Carità Romana. Considerando il fatto che i borboni attingevano, per arredare le sedi del palazzo di Capodimonte e dei palazzi reali di Napoli e Caserta, dalle biennali, comperando le opere migliori, e considerando l'ubicazione della Carità Romana, se ne può dedurre che anche quest'opera avrà partecipato ad una biennale borbonica, successiva a quella del `33.

MICHELE CORTAZZO, La Carità Romana

Questo dipinto focalizza il tema della "carità" reinterpretando in chiave religiosa l'episodio di Cimone e Pero, rintracciabile già nelle repliche della pittura pompeiana, che pure il Cortazzo avrà visto, di un anonimo originale ellenistico: "in un carcere tenebroso Pero offre pietosamente il seno al padre esangue Cimone, condannato a morire di fame e di sete in quel luogo angusto, mentre da una grata un custode guarda verso l'interno"[10].

Secondo una tradizione accreditata presso numerosi autori, una giovane donna avrebbe salvato il proprio padre imprigionato e condannato a morire di inedia, nutrendolo col latte del suo seno. Alla notizia di così straordinaria prova d'amore filiale i magistrati, commossi, concessero la libertà al vecchio e sul luogo dell'episodio, nel foro Olitorio, sarebbe stato eretto nel 181 a.C. il tempio dedicato alla "Pietas". L'episodio è più volte rappresentato durante il Rinascimento, ma soprattutto nel Seicento con il titolo comunemente adottato di Carità Romana. Era già raffigurato nella casa di Valerio Frontone a Pompei con sotto graffiti i nomi di Pero e Micon[11].

Non è nemmeno da escludere che il Cortazzo vedendo a Napoli Le sette opere della Misericordia di Caravaggio, che pure fa riferimento all'episodio di Cimone e Pero nel rappresentare i momenti di "visitare i carcerati" e "dar da mangiare agli affamati"[12], si sia appassionato a questo preciso tema per poi rappresentarlo in un'unica scena.

CARAVAGGIO, Le sette opere della Misericordia

La rappresentazione dell'episodio di Cimone e Pero, stravolge anche l'interpretazione iconologica tradizionale che intende la "carità" impersonata da una mamma che allatta il proprio figlio[13], come atto di amore materno e quindi di amore puro e incondizionato, ma è comunque un atto spontaneo e naturale.

In questo caso è la figlia, in una situazione contro natura, a infondere al padre la speranza della sopravvivenza e della salvezza, accentuando il concetto religioso della Carità cristiana. In quest'opera non solo l'impostazione schematica e l'ordine spaziale ci riportano a David, ma anche la stesura brillante e compatta del colore e gli accostamenti eccitati, come il bianco e il rosso utilizzati, come nelle opere di David, in relazioni di reciprocità, perché creano da soli tensione drammatica, suggerendo l'intensità emotiva narrata[14].

Certo il risultato pittorico di Cortazzo non è equivalente a quello di David, ma è sicuramente apprezzabile e lodevole, secondo me, stilisticamente.

Concludendo il discorso su Michele si può avanzare l'ipotesi che si sia sposato a Roma, dove si era definitivamente trasferito, e questo è testimoniato anche dal fatto che molti anni fa, i discendenti più prossimi furono chiamati a Roma per ereditarne i beni artistici e anche un immobile, ma questi, per negligenza o per pigrizia, hanno sempre rimandato la questione fino a farne decadere i diritti di proprietà. Purtroppo non ci sono più documenti che attestano questa faccenda, ma solo ricordi vaghi.

Come si ricorda anche dell'esistenza di una foto di Michele a Parigi e di una cartolina spedita dal figlio Oreste sempre da Parigi, non più ritrovabili.

Comunque a Roma nel 1836 nasce il figlio Oreste.


NOTE

1. E. Buonomo (a cura di), La Siepe e la Quercia. Poeti, storici ed artisti di Ceraso nel tempo, Edizioni del Centro di Promozione Culturale per il Cilento, Acciaroli, 1994.

2. La Pittura in Italia, L'Ottocento, tomo II, Electa, Milano, 1990, pag. 469.

3. A. Scirocco, Gioacchino Murat, De Rosa, Napoli, 1994, pag. 60-63.

4. La Pittura in Italia, op. cit., pag. 474-475.

5. A. Arcasenza, Delle pittura ad olio esposte nel Real Museo Borbonico il mese di giugno MDCCCXXXIII, Napoli, 1833, pag. 6-7.

6. P. Ebner, Storia di un Feudo del Mezzogiorno. La Baronia di Novi, Roma, 1973, pag. 27.

7. Ceraso, 12 agosto 1994, Presentazione del saggio La Pittura di Michele e Oreste Cortazzo.

8. La Pittura in Italia, op. cit., pag. 475.

9. La Pittura in Italia, op. cit., pag. 730.

10. Enciclopedia Universale dell'Arte, vol. IV, voce Ellenistico, De Agostini, Novara, 1981, pag. 719.

11. V. Pacelli, Caravaggio. Le Sette Opere della Misericordia, ed. 10/17, Salerno, 1984, pag. 55.

12. M. Calvesi, Caravaggio, Art Dossier, Giunti, Firenze, 1986, pag. 53.

13. C. Ripa, Iconologia, TEA Arte, Milano, 1992, pag. 48-49.

14. O. Rossi Pinelli, David e l'arte della rivoluzione francese, Art Dossier, Giunti, Firenze, 1989, pag. 22.



Tratto da:
Clara Schiavone, "La pittura di Michele Cortazzo", in Annali Cilentani, n. 10, 1994, pp. 110-122.



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