Pietro Ebner e Velia


di Carmine Troccoli



Dire chi è Pietro Ebner (1) non è cosa facile. Ci si perde nella sua vastissima produzione storica. Sappiamo però che il Cilento con la sua penna si è arricchito di tanta luce ed ha trovato la sua giusta collocazione nella storia del nostro travagliato, ma pur glorioso Meridione. La terra dei tristi, dei cafoni e degli assassini di Del Carretto è diventata la terra di gente laboriosa ed umile, rispettosa dell'autorità e attaccata alle sue tradizioni cristiane. Uno storico che ha dedicato un'intera vita alle vicende della nostra terra tanto da dare alle stampe volumi ponderosi come Storia di un Feudo del Mezzogiorno di oltre settecento pagine; Economia e Società nel Cilento Medievale in due volumi, che superano le mille pagine; Chiesa Baroni e Popolo nel Cilento , anche quest'opera, in due volumi, per un totale di oltre millecinquecento pagine e tanti saggi minori, ma ugualmente interessanti. C'è chi, come il prof. Cestaro, ha parlato dei volumi anzidetti come di una trilogia. Ed è vero. Il tema è unico. Lo scopo è sempre lo stesso.
Nella lettura di queste opere mi piace immaginare il nostro autore come uno scalatore che man mano che si avvicina alla cima spazia con il suo sguardo compiaciuto su nuovi orizzonti, osserva nuovi spazi, gode di nuovi panorami comunicando agli altri le sue gioie. Il campo nel quale spazia è vastissimo. Ed egli ci informa di tutto. Veniamo a sapere dei rapporti tra vescovi, baroni e la gente umile, spesso confluenti su interessi contrapposti.
Si desume la storia di una resistenza del popolo, e non solo del popolo, a tutta la canonistica tridentina. Si evince con evidenza l'abbandono in cui versavano le nostre popolazioni. L'autorità, fisicamente e spiritualmente lontana dai sudditi, non si curava della loro miseria e sofferenza; il potere è presente, e in maniera feroce, solo quando si trattava di stroncare iniziative tendenti a scrollarsi di dosso il peso di baroni crudeli, insolenti e ignoranti, che, qualche volta, però, finivano sul ceppo del macellaio.
Un mondo meraviglioso quello descritto da Ebner che ha attirato l'attenzione di storici di primo piano.
"Al Cilento - scriveva il prof. Gabriele De Rosa, allorchè era rettore dell'Università di Salerno - debbo l'approfondimento della mia ricerca meridionalista, la scoperta di una terra, di una storia, di una esperienza umana fatta di amicizie severe e scavate nell'amore del vero e del giusto". E tra questi amici, in prima fila, c'è lui, Pietro Ebner. L'interesse del prof. De Rosa per lo storico del Cilento risale al lontano 1970, quando l'allora rettore dell'Università di Salerno, che aveva sentito parlare di una prossima pubblicazione di Ebner, insieme all'editore Pietro Laveglia, che era intenzionato a pubblicare le migliaia di cartelle, gli fa visita a Ceraso. Uno sguardo, anche se fugace, al materiale e poi al Laveglia, che scorreva anche lui le cartelle con altrettanto interesse, quasi illuminandosi, dice: "No, caro Laveglia, questo lavoro lo pubblico io".
Iniziava così la collaborazione, mai interrotta, tra Ebner e il gruppo dei ricercatori dell'Università di Salerno, del quale fanno, ancora, parte gli amici proff. Antonio Cestaro, Francesco Volpe, Enrica Robertazzi, Luciano Osbat e Adriana Di Leo.
Ma com'è nata la passione per la storia in Pietro Ebner?
Egli stesso ce lo spiega in una intervista del 1983 concessa a un giornalista de "Il Mattino".
"Ogni medico - dice - ha bisogno di evadere dalla malattia, da quel senso della morte che dà un rivolo di angoscia all'esistenza.
Mi imposi un giorno, tanti anni fa, di costruirmi un hobby che mi aiutasse, pur nella conoscenza di inevitabili sofferenze umane.
Che mi rendesse meno infelice nella mia solitudine di uomo al capezzale della sofferenza. E allora scoprii una vecchia passione liceale per i libri di storia. La rispolverai nella mia mente e decisi di incamminarmi fra i sentieri di carte e manoscritti, vecchi libri parrocchiali ed antiche diete. Volevo, partendo dalle radici, conoscere di più la mia gente, quella che mi stava intorno. Per me - conclude Ebner - è stato come mangiare tante ciliege; più ne mangi e più ne vorresti mangiare." (2)
La passione, dunque, per la storia in Pietro Ebner non nasce improvvisamente nel 1973 con la pubblicazione di Storia di un Feudo del Mezzogiorno: la baronia di Novi come qualcuno potrebbe pensare. Nasce, come egli stesso dice, "tanti anni fa", molto tempo prima del 1973 (3). Egli, infatti, ancor prima di far parte del Circolo dell'Università di Salerno aveva conosciuto altri amici, anch'essi cultori insigni di storia, ed aveva partecipato a tanti Congressi, anche internazionali, dove aveva portato il risultato delle sue ricerche sul mondo della Magna Graecia . Era stato in rapporto stretto con Leopoldo Cassese, Giovanni Pugliese Carratelli e Nicola Acocella. Era stato amico di archeologi come Amedeo Maiuri, Mario Napoli e Werner Johannowsky.
Aveva conosciuto numismatici famosi, come il gesuita Garrucci. Era conosciuto e apprezzato non solo nell'Università di Salerno, ma anche in altre Università italiane. La sua opera era cresciuta nel tempo, a cominciare dagli anni Quaranta, a cerchi concentrici. Sono sempre le stesse zone che egli studia, ma man mano che va avanti nel suo lavoro, una nuova luce si irradia sul Cilento.
E' un ricercatore dotto, esperto di paleogeografia, diplomatica, archeologia, archivistica, glottologia, epigrafia. E poi conosce il greco e il latino, la filosofia, la medicina. E' un architetto-ingegnere, che oltre ai disegni, fa i calcoli per le sue costruzioni. E' lui che interpreta e legge i documenti. Non ha bisogno del paleografo e del diplomatista.
E i suoi volumi sono interessanti perchè non sono ex libris , ma ex documentis . E' stato di casa all'Archivio dell'Abbazia di Cava dei Tirreni, all'Archivio Segreto Vaticano, all'Archivio di Stato di Salerno, agli Archivi diocesani di Teggiano e di Policastro. Non parliamo poi del nostro Archivio Diocesano, che assieme al gruppo del prof. De Rosa ha studiato e riordinato. La fiducia che gli hanno accordato i vescovi gli ha permesso di scavare notizie che forse sarebbero rimaste eternamente sepolte nella polvere.
Era tale la stima che nutriva per lui Mons. Umberto Altomare, vescovo di Teggiano, di veneranda memoria, che gli faceva arrivare a casa i documenti. Per lui l'Archivio Diocesano di Policastro, dove, qualche volta, lo accompagnavo, è stato aperto anche nel pomeriggio.
All'Abbazia di Cava aveva la sua stanza, aveva il suo posto a refettorio. Egli ha avuto libertà di movimento e di accesso a tutte le fonti. E' la gratitudine di quei buoni Padri verso chi ha illustrato l'opera altamente meritoria dei Padri Benedettini nel Cilento; verso chi ha scritto così bene della Riforma Benedettina voluta e attuata da Pietro da Salerno a Perdifumo.
Dopo lo scavo in Archivio ogni notizia viene controllata in loco.
Visita, più volte, le zone che gradatamente prendono corpo nella sua opera. Rivisita paesi, chiese, torri, altari. Non posso mai dimenticare una visita fatta insieme al Santuario del Montestella in una giornata di dicembre del 1981. Tanta nebbia. Tanta acqua. Ma bisognava andare. Egli doveva controllare alcuni particolari dell'altare in pietra dedicato all'Annunciazione. Ogni notizia per lui è una tessera che deve trovare posto nel grande mosaico che costruisce, giorno dopo giorno.
Si rende conto che il tragitto storico che egli compie è lungo ed è accidentato. Uno spazio di tempo talmente vasto che qualsiasi altro storico ci si sarebbe perduto. Infatti se è vero che è il secondo millennio che viene esaminato, è altrettanto vero che non mancano squarci di luce intensa sul primo millennio e sulla Velia pre-cristiana. Con la meticolosità del vero storico, dunque, non trascrive la notizia se prima non la verifica.
Ma qual è il tragitto storico che Ebner percorre? "La ricerca di Ebner - scrive De Rosa - inizia da lontano: incomincia da quando il silenzio, realtà incommensurabile della storia scende sull'antica Velia, coperta dal limo delle alluvioni... Il lungo silenzio eleatico passa attraverso l'occupazione longobarda, l'impoverimento della costa e il rifugio delle popolazioni sull'acropoli e sulle vicine alture. Ebner - continua De Rosa - riempie tutto questo silenzio fatto di echi leggendari, con ipotesi e congetture verosimili sino a quando in queste terre si attestano uomini colonizzatori, non più Focei, ma ugualmente greci: sono i monaci italo-greci che provengono, via mare, dai Balcani o dall'Oriente per sfuggire alla furia iconoclastica prima e all'invasione araba dopo." (4)
E mi sia consentito, a questo punto, accennare alla venerazione che Ebner dimostra per questi monaci. Egli è affascinato dal loro aspetto ieratico: la lunga barba, il bastone con l'immancabile fiaschetta di zucca, un rozzo saio ornato di croci, una cordicella per cintura, scalzi e a capo scoperto, essi non portano né borsa, né bisaccia. Si nutrono di erbe e non mangiano carne.
Dovunque arrivano impiantano intorno all'abazia l'azienda agricola. Insegnano la coltivazione del gelso, della vite, dell'ulivo.
Nasce, grazie a questi monaci, un periodo di benessere. Nel nostro Cilento essi riattarono strade, bonificarono zone allagate dalle acque di torrenti senza alvei, costruirono villaggi agricoli destinati a svilupparsi in importanti centri urbani. Ebner ne studia le abazie, le grance, le platee. Primo, fra tutti, scopre nel nostro Cilento la fase della civiltà basiliana. E si mostra attaccatissimo a tutto ciò che si riferisce a quel mondo. Quando, negli anni Settanta, si accorge che un'abbazia basiliana, quella di Pattano, stava per essere cancellata definitivamente, egli protesta, si ribella.
"Non può la ruspa - egli grida - entrare in queste abbazie di cui resta ancora qualche angolo intatto e cancellare ogni cosa per l'ingordigia di qualcuno."
E prima ancora che l'autorità giudiziaria intervenga, egli imprime su meravigliose diapositive tutti gli affreschi della cappella di San Filadelfo. Una copia di tutte le diapositive viene poi spedita alla Sovrintendenza per i beni artistici e storici. A lui non interessa lo scoop , interessa conservare le tracce dell'abbazia di Pattano. Che anche altri sappiano che cosa esisteva nella contrada di Buon Riparo è una cosa che lo ripaga di ogni fatica.
Il vero storico non è mai geloso. Nel suo lavoro di storico egli è alla ricerca non solo di documenti, ma anche di dati epigrafici e reperti archeologici. E scopre, anche presso privati, lapidi provenienti da zone archeologiche. Quelle pietre devono essere da lui interrogate. Non sono oggetti di ornamento, ma sono libri del passato. Trova a Casalvelino una stele di marmo sul frontespizio del caminetto del palazzo del Barone Gagliardi. Si adopera perchè venga rimossa. Nella chiesa di Moio della Civitella nota un'altra lastra di marmo di cui parla nel 1965 in Rassegna Storica Salernitana . Dinanzi a queste pietre egli prova la stessa gioia che gli Umanisti del Quattro-Cinquecento provavano dinanzi alla scoperta di codici antichi. E' un pezzo di civiltà che viene recuperato. Si interessa perchè tutto venga consegnato alla direzione degli Scavi di Velia. Interpone i suoi buoni uffici quando sa che da privati è stata rinvenuta una stele di marmo nei pressi della Fiumarella di Santa Barbara, così pure quando viene a conoscenza che è stata trovata, sempre da privati, una magnifica lastra di marmo circolare con lettere alte cinque centimetri, in scrittura capitale elegante, presso il rilevato ferroviario, a qualche centinaio di metri dal porto a oriente di Velia. E l'elenco potrebbe continuare. La passione per la storia cresce in Ebner proprio dalla profonda sensibilità per tutto ciò che apparteneva al passato.
Diventa archeologo e segue le varie fasi degli scavi di Velia. Studia con passione le statue, gli edifici e le monete man mano che vengono dissepolti. E così Velia viene ad occupare un posto importante nella sua vita. Da grande conoscitore del mondo antico tutto per lui diventa libro aperto. Ricostruisce avvenimenti, istituzioni, rapporti tra mondo greco e mondo velino. Tanti tasselli della storia di Velia trovano il loro posto e tutto diventa più chiaro allorchè egli legge le sue comunicazioni nei vari congressi nazionali e internazionali.
"Cominciai - dice Ebner - studiando la monetazione di Paestum e di Velia."
Con antiche monete tra le mani e la frequenza assidua a Velia durante gli scavi del periodo Maiuri e del periodo Napoli egli ha la possibilità di leggere la millenaria storia di quella città.
I suoi primi studi su Velia risalgono agli anni '50. Comunica le sue scoperte su Riviste specializzate e di grande prestigio come Parola del Passato, Giornale di Metafisica, Rassegna Storica Salernitana, Apollo, Il Veltro, Rivista dei Musei Provinciali di Salerno e sulla rivista inglese The Illustrated London News. In questi studi egli non solo parla con la competenza dell'esperto, ma formula le sue prime ipotesi sulla vita, la cultura e l'attività di Velia. Dallo studio delle monete riesce a rilevare i rapporti culturali e commerciali tra le città della Grecia, in particolar modo, Atene e Velia. Viene subito annoverato tra i maggiori numismatici italiani. E arrivano i primi riconoscimenti. Su designazione di Amedeo Maiuri viene nominato ispettore onorario degli scavi di Velia. E in occasione di visite agli scavi di personaggi illustri, come la visita del re-archeologo Gustavo di Svezia, viene designato dalla Soprintendenza a fare gli onori di casa.
Nessuno meglio di lui conosce quelle pietre che ha visto venire alla luce l'una dopo l'altra. Di Velia egli studia la topografia e le varie insulae dove individua templi ed edifici pubblici.
Condivide gli studi topografici di Byvanck e di Schleuning. Parla con convinzione di un secondo porto a Velia posto a settentrione del promontorio che separava le due insenature. Un terzo porto lo colloca alla confluenza dei fiumi Alento e Palistro. Parla di antiche vie che portavano nel Vallo di Diano attraverso il passo "Alfa" e il passo "Beta" del Gelbison. Individua la Via del Sale che da Velia, attraverso il territorio di Ceraso, San Biase, Valle di Montescuro (passo Beta), raggiungeva il Girone di Rofrano e di lì il Vallo di Diano. Sono gli stessi dèi - dice - che hanno scelto Velia nel 540 a.C. Anche la Pizia era intervenuta per la colonizzazione di questa città dal clima meraviglioso, in tutto simile a quello della Grecia. Il gruppo dei Focei si fonde, in maniera pacifica col gruppo italiota preesistente in quella meravigliosa rada. Velia diventa la continuazione di Focea. Vegliano su Velia gli stessi dèi della madrepatria che sono stati imbarcati sulle grosse Pentecòntori unitamente alle loro masserizie.
Dallo studio appassionato delle monete osserva che l'officina monetaria di Velia sembra ispirarsi a quella di Atene. Compaiono, infatti, gli stessi simboli: l'ulivo, la civetta, il leone, il cervo, l'elmo di Athena. Lo stesso culto di Athena a Velia gli appare evidente dalle monete. Ne riceve conferma durante gli scavi del 1963/64 quando, con Amedeo Maiuri, individua l'Athenaion. E non esita ad affermare, in quella occasione, col prof. Iohannosky, che il culto di Athena a Velia era tra i più importanti.
Si domanda da cristiano, devoto alla Madonna, se il culto della Vergine a Velia, non sia una sovrapposizione al culto di questa divinità pagana molto radicato nella popolazione. Ebner lo lascia presupporre. Del resto non è una novità se si pensa al culto della Madonna del Granato sovrappostosi al culto di Hera Argiva che si praticava nell'Heraion di Foce Sele. E questo perchè a Velia il culto della Madonna è antichissimo. Si parla addirittura dei tempi di Traiano. Una memoria popolare vuole, infatti, che durante la persecuzione di Traiano due mercanti greci, Ermete e Sofia, abbiano portato sul Gelbison la statua di Maria per risparmiarla alla furia dei persecutori. La stessa presenza dei monaci italo-greci a Velia è una conferma del culto alla Vergine.
Sappiamo tutti che quei monaci erano devotissimi della Theotòcos che consideravano la loro Odegitria. Ed essi nelle loro peregrinazioni si stabilivano volentieri là dove riscontravano il culto della Madonna. L'approfondimento dello studio delle monete e della storia della Magna Graecia lo portano a scoprire episodi salienti della vita di Velia e del mondo antico.
"Il volto fidiaco di Athena sul didramma ricorda certamente - afferma Ebner - il viaggio trionfale degli Eleàti ad Atene. Come il grifone è a ricordo dell'arrivo degli Ioni a Velia" (5).
Questo uccello, infatti, era il simbolo della Ionia. Così pure nel V secolo, per il ripetersi di lotte fratricide tra fazioni nelle diverse pòleis italiote, nei didrammi appare il leone rappresentato nell'attimo che precede il balzo fatale sulla preda. "Lo indica - dice Ebner - la bocca semiaperta, l'erta criniera, gli arti posteriori semiflessi e gli anteriori rigidamente tesi" (6).
Verso la fine del V secolo per rendere grazie alla dea Athena protettrice della città per il ritorno della democrazia, sui didrammi compare una corona di rami d'ulivo sulla testa della dea e sul retro della moneta la testa di Apollo. Rileva il culto della Ninfa Velia, personificazione delle acque termali di Velia, anche dalle monete dove la Ninfa appare coronata di canne palustri. E questo, secondo Ebner, sta ad indicare i buoni rapporti esistenti tra Focesi e Italioti. Ormai formavano una sola comunità.
Ma per Velia Ebner, nel 1965, fa uno scoop archeologico. Partendo da alcuni indizi, formula l'ipotesi dell'esistenza di una Scuola di Medicina nella città di Parmenide dalla quale poi sarebbe derivata la Scuola Medica Salernitana. Tutto ciò iniziò durante la campagna di scavi del 1958/60. Egli notò, nella parte meridionale della città, e precisamente nei pressi di Porta Marina un enorme edificio o meglio un complesso di edifici con circa centosettanta vani. Tra i ruderi di questo edificio tanto materiale prezioso: colonne, nicchie, volte, mosaici, statue acefale e monche. Una statua, in particolare attira la sua attenzione: rappresenta un personaggio avvolto in una toga, un anello al dito, un'iscrizione dedicatoria alla base: "uelìtes iatros ".
C'è poi nella iscrizione un'altra parola con un significato preciso. E' il termine phòlarcos . Una parola questa che compare unitamente al termine oùlis anche su altre statue acefale. Approfondisce il significato della parola phòlarcos che risulta composta da phòleos e arcòs . Traduce subito. Vuol dire caposcuola. Cerca poi di capire l'altra parola oùlis , che accosta agli aggettivi oùlios , ouliàdes , che si attribuivano ad Apollo quando si voleva parlare di lui come un dio guaritore.
Una scuola di medicina? Quel complesso era la sede?
La sua, al momento è un'intuizione. C'è bisogno di altri indizi.
E quando riesce a dimostrare l'esistenza di una eterìa pitagorica a Velia (di cui aveva già parlato nel 1951), cioè un circolo di medici esistente a Velia ai tempi di Parmenide le tenebre si dileguano ulteriormente. Gli scavi continuano e la sua ipotesi è suffragata da nuove prove. Nella stessa zona, infatti, cioè la seconda insula, nel 1962, fu trovata una statua cultuale di Asclepio, frammenti di un altare sull'ampia scalinata di accesso al complesso e un pozzo che, per le sue caratteristiche, non era certamente una comune cisterna. Viene pure alla luce una statua di Parmenide. Nella scritta dedicatoria di questa statua appare il termine physicòs . Per lui non ci sono più dubbi.
Quel complesso era la sede di una Scuola di Medicina. La notizia rimbalza in Italia dall'Inghilterra. Ebner, infatti, aveva scritto un articolo in Illustrated London News . E quando legge le sue comunicazioni al Congresso internazionale di Siena sulla Storia della Medicina, tenutosi dal 22 al 28 settembre 1968, la sua ipotesi è applaudita.
Ebner si mostra certo dell'esistenza della Scuola di Medicina a Velia con annesso Collegio già dal IV secolo a.C. Indaga nella letteratura latina e nota che personaggi famosi furono a Velia dove si praticava la idroterapia fredda. Scopre che Cicerone nel De Officiis , nel De Divinatione , nelle Tusculanae Disputationes e nella VII lettera accenna alla medicina e ai medici di Velia.
Che poi i medici di Velia si siano trasferiti a Salerno è più che probabile. Egli si mostra convinto che la Schola Salerni potrebbe essere stata la continuazione-derivazione della Scuola di Velia, forse, distrutta da un improvviso e pauroso cataclisma abbattutosi sulla città. Studia con attenzione un'epigrafe rinvenuta nella necropoli romana di Salerno nella quale si parla di un medico, un certo Diogene, di origine greca. In un Codice del XII secolo, rinvenuto da Sergio Musitelli nel 1968, Ebner nota che si parla a lungo di Velia e degli Eleati.
"Che i medici di Velia - dice Ebner - si siano trasferiti a Salerno e a Napoli non meraviglia. Esodi nel primo secolo d.C. furono favoriti da Stertinio Senofonte, il quale con il fratello Cleonimo aveva realizzato non pochi guadagni con speculazioni edilizie" (7).
Inoltre, studioso attento di numismatica, vede nel pentagono stellato lo stemma dell'eterìa pitagorica di Velia. "E' da presumere - scrive nel 1951 - che il simbolo fosse stato voluto da Gisulfo su quel follaro, proprio per ricordare l'ultima Scuola di Medicina a Salerno, che nelle tenebre del Medioevo costituì il più luminoso centro di cultura europea.
Certo è che Telesio chiama la Scuola di Medicina di Salerno erede della Scuola di Pitagora" (8).
Il riferimento è all'eterìa pitagorica di Velia. A questo punto, mi domando, che significato ha l'intitolazione di un via a Velia a poca distanza dalle sede della Scuola Medica Salernitana? Sarebbe interessante conoscere le motivazioni che spinsero gli amministratori del tempo a dedicare una via a Velia nella città di Salerno.
Pietro Ebner, dunque, non è solo lo storico del Cilento che abbiamo apprezzato dallo studio dei suoi tanti volumi, ma è anche un profondo conoscitore del mondo antico. Peccato che questi suoi studi, tutti originali, non siano sufficientemente conosciuti, perchè pubblicati su Riviste specializzate che si trovano nelle mani di pochi. Interessante sarebbe la pubblicazione, oggi, di tutti questi articoli in un volume unico.

NOTE

1. Pietro Ebner nasce a Ceraso il 13 febbraio 1904; si laurea alla Università di Napoli, con pieno merito; esercita la professione medica, prima nell'Italia del Nord, poi a Casalvelino, ed infine dal 1938 per circa 40 anni a Ceraso ove nel 1939 sposa Ada Iannicelli. Muore a Ceraso l'11 giugno del 1988.

2. Da Il Mattino , 10 luglio 1983.

3. "La sua passione era la ricerca storica, lo studio del passato, cui cominciò a dedicarsi, con intelligenza ed amore, sin dagli anni giovanili e che l'accompagnò per tutta la vita, anche se relegato in un piccolo paese lontano dai grandi centri culturali, ricollegandosi ad una antica tradizione tipicamente meridionale, abbastanza fiorente nel Sette-Ottocento, dei medici umanisti e cultori di varia umanità. Per più di quaranta anni, senza muoversi dalla sua biblioteca, arricchita di testi antichi e moderni nonché di una pregevole e rara raccolta numismatica, di pergamene e documenti ricercati, con certosina pazienza, in tutta la regione cilentana, Ebner custodiva in silenzio e quasi con gelosa riservatezza, questa sua segreta passione per gli studi storici, alimentando, con tenace impegno, una insaziabile sete di conoscenza di tutto quanto riguardava la sua terra, il suo Cilento e la sua civiltà, così poco conosciuto nelle sue più genuine componenti storiche, archeologiche, sociali e religiose" (cfr. A. Cestaro, Ricordo di Pietro Ebner , Ceraso, 1988).

4. G. De Rosa, Discorso di presentazione di Chiesa, Baroni e Popolo nel Cilento , Ceraso, 1984.

5. P. Ebner, Velia e la civiltà della Magna Graecia , in "Il Veltro", XI (1967), II.

6. Ibidem .

7. P. Ebner, A Velia anche una scuola di medicina? , in "Rassegna Storica Salernitana", XXII (1961).

8. P. Ebner, Dei follari di Gisulfo I e della Schola Salerni , in "Bollettino del Circolo Numismatico Napoletano", XLVII (1962).



(Tratto da EMILIO BUONOMO (a cura di), La siepe e la quercia. Poeti, storici ed artisti di Ceraso nel tempo, Centro di Promozione Culturale per il Cilento, Acciaroli, 1994)



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