Le feste patronali del Cilento
(Amedeo La Greca)

 

Gustare un dolce di Natale, ascoltare i canti delle confraternite, partecipare ad una processione o ad un pellegrinaggio, per chi guarda dall'esterno o per chi non ha coscienza della cultura locale, potrebbero sembrare atti e gesti anacronistici, sopravvissuti non si sa come e destinati a scomparire nel volgere di qualche anno. Spesso costituiscono il pretesto per sfuggire dallo stress della città e l'occasione per deprecare la lenta agonia dei paesi. Il ritorno alle origini non è un salto indietro nel tempo, fuori da ogni logica reale, ma può rappresentare l'occasione per riflettere su quei valori autentici che il chiasso dei mass-media copre e che solo il silenzio dell'ambiente paesano può far vivere.

Nella cultura popolare del Cilento e in quella contadina in genere, l'anno solare è scandito da particolari tempi, ai quali si ricollega tutta l'attività lavorativa e la vita quotidiana. In essi si susseguono periodicamente delle ricorrenze, universalmente rispettate anche nelle altre aree culturali, ma che nel nostro microcosmo acquistano una loro peculiarità.

Oltre al giorno della festa patronale, nel mondo rurale cilentano sono particolarmente sentite le feste cicliche, quelle cioè che ricorrono secondo scadenze legate al volgere dell'anno cosmico e dell'anno liturgico della chiesa cattolica. Queste feste oggi sono ampiamente inserite nel ciclo consumistico-lavorativo della società moderna; tuttavia hanno conservato qualcosa di autentico che ancora, spesso a livello inconscio, continua a coinvolgere sentimentalmente e gestualmente anche coloro che per ragioni di lavoro sono costretti a vivere lontano. Sono le occasioni per le quali si ritorna al paese natìo, si rivivono gli antichi riti e si gusta la vecchia cucina; solo allora sembra che i minuscoli centri abitati si ridestino da quel profondo letargo che li sta portando alla fine.

Il nostro breve "viaggio" attraverso la gestualità e i riti legati a queste occasioni di incontro, servirà a ricordarne nel tempo lo stato attuale, come testimonianza di una parte della nostra storia che deve anch'essa necessariamente passare, travolta dalla sua stessa inesorabile legge del divenire. Ma se ci resterà dentro il significato etico di un'epoca che comunque ha segnato la nostra vita e sapremo trasmetterlo ai nostri figli, forse il Tempo non avrà invano consumato i suoi giorni.

 

Feste patronali

Alle origini di una festa o della fondazione di un santuario o di una chiesa, vi sono sempre delle leggende o dei fatti ritenuti miracolosi che si possono ricondurre a due filoni di manifestazione del sacro: le ierofanìe vere e proprie e l'espressa volontà di un santo di dimorare in un determinato luogo.

Una "ierofanìa" è la manifestazione della divinità, che consacra il luogo, il quale da spazio profano qual'era prima, è promosso a spazio sacro. Esso diventa così il centro della religiosità popolare di una vasta area culturale; è lo spazio sacro cui essa fa naturalmente riferimento.

Un luogo sacro, staccato dal centro abitato e posto di solito su un'altura, lo troviamo praticamente in ogni comunità. I devoti vi si recano in genere una volta all'anno, nel giorno della festa. In altre occasioni sembra che l'andarvi sia come dissacrare il rito originale, come dare un tono di scampagnata all'ascesa. Nell'animo del popolo è essenziale il legame tra tempo e luogo, in quanto l'uno santifica l'altro.

La montagna e in genere il luogo impervio e appartato, lontano dal mare, ha sempre avuto nel Cilento un ruolo fondamentale: fu il riparo delle popolazioni durante gli assalti dei pirati ed espresse la nascita di una nuova civiltà, quella dei monaci italo-greci; fu il nascondiglio dei briganti, ma fu anche il luogo dove si manifestò il sacro, fu anche sede, nei mesi estivi, del pastore, chiuso nel suo isolamento, scontroso, rude, naturale antagonista del contadino.

Ma ai monti il contadino e il marinaio dovettero far riferimento nel cercare le radici dei loro culti, per scoprirne l'origine.

Tra le ierofanie più comuni va annoverata la manifestazione onirica, ove il santo o la Madonna appare ad un dormiente: una tradizione che trova il suo archetipo nell'episodio del Vangelo di Luca (vv. 8-13) quando i pastori sono avvertiti in sogno della nascita di Gesù.

A Lentiscosa si narra che la popolazione era in grave pericolo per l'incalzare della peste. S. Rosalia comparve allora in sogno ad una vedova di nome Marta e per due volte la sollecitò a recarsi sulla riva del mare per prelevare la sua icona e portarla in paese. La poveretta, in balia a forte emozione, raccontò tutto al cognato, il quale subito si recò sul luogo indicato e vi trovò l'icona della santa su un arbusto di lentisco, con delle candele accese davanti. La portò in paese e il contagio cessò. Il popolo volle allora erigere a S. Rosalia un tempio, che ben presto divenne un santuario, meta di pellegrinaggi anche dai paesi vicini.

L'esame critico di questa leggenda ci porterebbe ad affermare che la tradizione popolare di Lentiscosa abbia voluto attribuire alla sua santa un miracolo che, in moltissimi altri paesi del Cilento, è ricordato come intervento di S. Rocco, al quale furono dedicate numerose cappelle dopo i due gravi contagi di peste che devastarono il territorio nel 1508 e nel 1656.

Altrove la volontà del santo o della Vergine di voler dimorare in un determinato luogo, si manifesta diversamente.

Si racconta che la cappella della Stella sorge sulla cima della montagna omonima per volontà della Madonna, mentre i contadini la stavano edificando più a valle, nel luogo dove un pastore aveva trovato un'icòna. Il lavoro realizzato di giorno, veniva misteriosamente disfatto di notte, finché una mattina gli ormai avviliti devoti trovarono una scritta su una delle pietre, che così diceva: "Chi Maria vuole pregare / su quel monte deve salire". La stessa leggenda, con qualche variante, ricorre anche circa la fondazione di quasi tutti i santuari o chiese che sono centro di un particolare afflusso di fedeli.

Ierofanie possono considerarsi anche quelle leggende nelle quali la statua del Santo giunge da lontano e con un miracolo esprime la propria volontà di dimorare in un paese anzicché in un altro. Ricordiamo ad esempio l'origine della festa della Madonna del Rosario a Perdifumo (martedì dopo Pentecoste).

La tradizione popolare narra che verso la fine del XVI secolo (qualcuno cita anche la data 1580), una nave che trasportava la statua ed un grande crocefisso destinati in Calabria, giunta al largo di Castellabate, si arrestò: quando i marinai casualmente pronunziarono il nome di Perdifumo, essa diresse la prua verso la costa, da dove solo gli abitanti di questo villaggio riuscirono a trasportare i due simulacri nella loro chiesa, mentre erano diventati pesantissimi per gli altri devoti accorsi sul posto. In seguito il crocefisso venne donato al convento dei Francescani, ove è ancora oggi custodito e rappresenta la meta finale della processione di mezzogiorno, durante la quale la statua della Madonna è portata su una barca.

A tale proposito ricordiamo che la base del baldacchino usato per portare le statue dei santi in processione, è detta di solito navetta, cioè piccola nave, anche se assume forme diverse, a seconda della tradizione locale.

Va notato anche che questo tipo di leggende ricorre in quasi tutti i paesi collinari prospicienti il mare, ma che non hanno tradizioni marinare. In esse, da una parte si può ravvisare un aspetto del campanilismo - che è una componente inscindibile della cultura dei singoli villaggi - dall'altra esprimono i termini essenziali della rivalità della cultura agricola con quella marinara, più recente, ma certamente più forte economicamente. Al contadino delle colline non resta che rivendicare la sua preminenza appellandosi al sacro, come un'ancora sicura che gli garantisce la dignità di essere custode di culti voluti direttamente dai santi protettori che hanno scelto la collina e non il mare.

In fondo è sempre alle alture che occorre far riferimento per trovare le origini dei culti: è la montagna che avvicina a Dio, che è la dimora del sacro: è lo stesso concetto che troveremo circa la fondazione dei santuari.

 

Riportiamo qui una di queste leggende che narra la fondazione della chiesa della Madonna delle Grazie ad Ortodonico, nella quale compaiono numerosi elementi comuni un po' a tutti i racconti del genere; essa mi è stata trascritta diligentemente da uno studente di seconda media, Maffia Paolo, nel 1987, avendola ascoltata dal nonno Biagio, di 72 anni:

 

"In quel tempo il paese più importante del nostro circondario era il mio: Ortodonico, perché era il più popoloso e poi perché aveva il porto alla marina (oggi Agnone) e le poche persone che vi lavoravano erano e si consideravano di Ortodonico. Era il mese di maggio, ma il mare era in grande tempesta. Una nave a vela spuntò al largo della Licosa per cercare di scampare nel porticciolo del Fico nei pressi di Acciaroli. I marinai furono soccorsi dalla gente del luogo; ma dovendo proseguire il viaggio al più presto e per alleggerire la nave e per ringraziare i soccorritori, regalarono a costoro una statua molto grande della Madonna. Calmatosi il mare, il veliero partì e la gente prese la statua per portarla in una chiesetta lì vicino, ma dopo pochi passi i portatori erano già stanchi; altri cercarono di aiutarli, ma senza risultato; così vennero mandati dei messaggeri per cercare altri portatori nei paesi delle colline. Coloro che fossero riusciti a portarla, l'avrebbero donata alla chiesa del proprio paese, essendone divenuti proprietari. Tutti provarono, ma tutti fallirono.

Infine provarono quattro persone di Ortodonico i quali tra lo stupore generale e senza apparente sforzo riuscirono a portarla senza mai fermarsi fino al paese. Correva voce che quella Madonna era destinata alla Calabria, che aveva voluto venire ad Ortodonico per risvegliare la fede in queste zone ove la gente si era imbarbarita. Così in paese si decise di costruire una nuova chiesa perché quella che già c'era non poteva più contenere tutta la gente che accorreva da ogni luogo. Gli uomini spaccavano le pietre e le donne le trasportavano; ma al mattino seguente il mucchio non c'era più, qualcuno aveva trasportato le pietre in un altro luogo distante qualche centinaio di metri. Si pensò ad uno scherzo dei paesi vicini e riportarono le pietre lì dove le avevano lasciate il giorno precedente; ne portarono ancora delle altre e andarono a dormire tranquilli, sicuri che ormai non avrebbero subito alcuna beffa. All'alba con loro grande meraviglia si accorsero che le pietre erano state ancora spostate. Allora raddoppiarono gli sforzi e riportarono le pietre lì dove intendevano costruire la chiesa e misero qualcuno di guardia. Quasi all'alba una donna che andava in campagna vide che le pietre rotolavano e si ammassavano da sole nel luogo dove erano state trovate per ben due volte, mentre una figura di donna indicava loro con la mano la via. Corse subito in paese, svegliò tutti e corsero a vedere gli uomini che avevano lasciato di guardia e li trovarono che dormivano. Andarono poi dal mucchio di pietre e non trovarono nessuna figura di donna che comandava alle pietre. Essi però capirono che era inutile lottare con essa perché certamente doveva essere la Madonna che in quel modo aveva voluto indicare il luogo dove edificare la nuova chiesa. Così ancora oggi sull'antica via che dal mare porta ad Ortodonico, allo sbocco del paese, si trova la chiesa della Madonna delle Grazie".

 

La lettura attenta di questi racconti, vale spesso a ricondurci sulle tracce dei grandi avvenimenti storici che hanno interessato la nostra regione.

Ecco ora un'altra leggenda, quella che narra la fondazione della badia di Santa Maria di Grottaferrata a Rofrano. Gli elementi simbolici sono tanti e andrebbero indagati singolarmente. L'interpretazione che propongo nelle note, è strettamente soggettiva; ma le concordanze coi fatti realmente accaduti sono tali da non poter essere presi in scarsa considerazione dagli storici, spesso diffidenti verso la tradizione orale che va indagata, anche se con metodi diversi, come documento.

 

Quinta secula re e novi juorni, na famiglia ri Pulicastro arrivào cca (1); chiri ca truvàro sta Marònna erano ri Pulicastro.
Nu patri ri famiglia pigliào li figli e li crapi e jìano pi sti muntagne ca vulìano truvàre, ca dda èrano venùta âta gente (2), nu fundu ca nci vulìano fa' na casèdda. E jìano truvànno acqua (3), ca vicino a la marina dda stìano into l'acqua (4).
E chisto cca arrivào a la via ri Laurito (5) e saglièro a la via ri lu Monte (6) cchiù ngoppa, ca dda nce avìano fatta na cappella l'antìchi (7), na cappelluccia ca nci tenìano còcche capriciéddo e se nci ricìano lu Rusario (8). Jèro dda, truvàro na funtanèdda e recèro:
- Cca stamo buoni nuje!
La funtanèdda a lu mese r'aùsto assiccào e si ne fujèro n'ata vôta. E si ni jèro camminànno-camminànno.
Cca a la via nostra nci chiamano Lu Fèu: arrivào dda ca nc'è na fistula r'acqua (9) ca menàva, e recèro:
- Cca stamo buoni!
Nci stèro nu paro r'anni, ma jessèro li furmìcule, réce ca tanta ri furmìcule c'assèro (10), chi loro nu' nci putèro stari, se n'avèra jé.
Nu paru re giuvanòtti, créo ca putìano esse cume a buje trìa (11), ra Lu Fèu virìano ca ccà nc'era na luce (12). La prima vôta nu' nci abbaràro, la siconda vôta lu ricèro a li patri:
- Uardàti, ca nuje a la tali parte, hamo vista nu luma ca ni vène pi nnanti! - cume s'avìssero ritto: - Jàte a bìri, ca nuje nu' stamo buoni cca, ca nci stano li furmìcule!
E chiri giuvanòtti s'accustavano, la luma scese accustànno-accustànno (13) e nci ficcàro tre juorni e tre sere, e rrivàro cca.
Quanno arrivàro cca, la luma nnanti e loro appriésso, ma camminavano cu la stessa luce ca purtàva la Marònna (14); arrivàro cca e se ficcàro into a lu supàlo e truvàro sta statuèdda cu na luma mmano.
Quanno arrivàro ccare, nc'era na statuèdda inta, accussì l'aviano chiusa ri prète (15) (la vecchietta disegna un cerchio a terra), ma cchiù ca putìano èsse l'ati antichi ca tinìano l'animàli (16), l'avìano fatto nu circhièddo ri prète e Jédda stìa come avésse stato ccà mmiézzo (la vecchietta si pone al centro del cerchio appena disegnato).
Si ni jèro po' n'ata vôta a ddu li patri, réce:
- Vulìti sapé, prima hamo truvàto dda luma, l'avìmo truvàta inta a nu fào, inta a nu serràcchio!
Li patri mo', ca nuje simo sempe nu picca visitatéboli, vulìmo sapé li cose: - Addùve siti? Addùve jati? - jèro pure loro e truvaro sta statuèdda; cu n'accètta pulizzàro tutta quanta sta zona.
Quanno l'avèro pulizzàta po', si mittèro cu na zappa a scavari li puramènta: ma lu juorno li cavàvano e la notte si jenghìano n'ata vôta.
Nu vicchiariéddo - mara nuje! - judda la Marònna:
- Marònna mia, nu' ne fa' perde la fatìa, ricinnìlo tu, rici quanto la vuoi sta cappèdda!
Quanno fûro a li quìnnici r'aùsto la Marònna, chi t'ha dda fà? Ha dda jì la notte a ha dda fà nivicàri! Fici nivicàri la Marònna e fici nivicàri quanta la vulìa la cappédda.
Quanta vulìa la cappèdda, c'avìa nivicàto, tanto po' facèro la capèdda e ne facèro po' lu paése attuorno (17).
Nci venèro li muonaci po' (18) e cca è la cappèdda e lu cummènto.
Quanno po' nci fùro li briànti (19), nci scavàro, avìano fatto la grotta ra into la chiesa e scinnìa abbàscio fino a lu jùme, sotta lu paése.
Poi la vulèro cchiù grandi e io m'arricordo ca è stata fatta doie vôte sta chiesa. La prima vôta ca me ricordo io, ca nci fatiài ra lu Quattuórdici a lu Riciòtto (20); e lu Riciannòve po' nci purtàro la Marònna, ca ni tinìano roje: una assettàta e cca è la Marònna nostra.

Note al testo

1) Profughi di Policastro, distrutta dai Saraceni nel 915.
2) Insediamento precedente di monaci italo-greci.
3) Condizione indispensabile per le abitazioni era la presenza di una sorgente perenne.
4) Riferimento agli acquitrini che all'epoca stavano invadendo l'immediato entroterra delle foci del Bussento.
5) Seguono la via percorsa dai primi monaci italo-greci, risalendo il Mingardo, verso l'antica Via delle Laure (= celle in luoghi appartati; ricordiamo che i monaci greci si spostavano con le loro famiglie e masserizie).
6) Pendici orientali del M. Gelbison, detto per antonomasia "Il Monte (Sacro)".
7) Sul M. Gelbison vi era già una cappella dedicata alla Madonna risalente all'VIII secolo, costruita dai monaci fuggiti dall'Oriente al tempo della persecuzione iconoclasta.
8) Evidente riferimento al tipo di organizzazione dei monaci italo-greci che usavano le loro capanne (laure) come abitazione per le loro famiglie e per il poco bestiame, nonché come luogo di culto.
9) Fistola = tubo usato dai Romani per la conduttura delle acque; probabile riferimento ad un'antica opera di incanalamento che forniva acqua potabile a Policastro.
10) Le formiche distruttrici di centri abitati, è un luogo comune nelle leggende cilentane: sta ad indicare l'invasione di un popolo nemico molto numeroso.
11) La vecchietta si riferisce direttamente agli ascoltatori, con riferimenti precisi agli astanti, mentre racconta. Anche in altre occasioni la realtà della narrazione non esce mai dalla realtà vissuta: anzi vi è, anche se a livello inconscio, una fusione tra la realtà storica e la realtà presente: è questo il "Ricordo", tanto più vivo quanto più il passato viene attualizzato e nello stesso tempo il presente viene storicizzato.
12-13-14) E' chiaro il riferimento alla Vergine Hodighitria (= che guida il cammino) venerata dai monaci orientali: la luce che guida i due giovani è il simbolo di questo culto.
15) Il cerchio di pietre fin dai tempi della preistoria rappresenta la delimitazione dello spazio sacro; al centro l'oggetto del culto, in questo caso la statuetta della Madonna.
16) Riferimento ad un altro popolo, "gli altri antichi", che possono identificarsi con i Lucani, il popolo pastore che usava custodire il bestiame in un recinto-fortezza, di solito circolare: ne è rimasta traccia nel toponimo di Cuccaro, dal greco "chiuclon" che vuol dire appunto "recinto fortificato".
17) E' l'origine della maggior parte dei paesi del Cilento: una cappella e una "laura" attorno alle quali si stringono le prime case.
18) I monaci Benedettini ingrandirono antichi cenobi e li resero ricchi e potenti.
19) Riferimento al brigantaggio post-unitario, che in queste zone trovava ottime basi per le scorrerie ai paesi vicini; nelle grotte, ancora oggi visibili, i briganti si nascondevano; numerose sono le leggende di gallerie sotterranee che conducono a favolosi tesori.
20) La conclusione del racconto è molto significativa: con il personale riferimento ai lavori di restauro, la narratrice diventa protagonista della storia e si inserisce nelle vicende dell'abbazia.

Altre ierofanie sono quelle che possiamo definire del soccorso nelle quali il santo protettore soccorre il paese o un suo devoto e lo salva.

Ad Eredita S. Giovanni accorre per far sbagliare la strada ai saraceni che stavano per assalire il villaggio. A Montecorice S. Biagio sbarra la strada ai saraceni con una nuvola di polvere accompagnata dal rullo di tamburi, come un esercito all'assalto: l'evento è ancora oggi ricordato nel giorno della festa (3 febbraio), quando i tamburi scandiscono i momenti principali della giornata, e in particolare rullano alla consacrazione durante la messa solenne. A Cannicchio la Madonna, detta del Soccorso, accorre in aiuto di una giovinetta insidiata dal diavolo. In questo caso il nuovo culto si impone su quello dei vecchi santi protettori legato a reminiscenze di riti agrari. La festa dell'8 settembre, infatti, acquista, verso la metà dell'Ottocento, il primato su quella antica di S. Martino legata alla leggenda della fondazione della chiesa. Non è da escludere che il prevalere del nuovo culto sia stato l'espressione di una nuova classe sociale emergente, i galantuomini, il cui prestigio si espresse anche con la fondazione della confraternita omonima.

In questo ambito, molte sono le feste la cui origine è spiccatamente rurale, legata ad un miracolo col quale il santo protettore fa piovere, salvando così il raccolto. Sarebbe interessante a questo proposito studiare le connessioni tra religiosità popolare e fenomeni atmosferici o cicli epidemici documentati. Ricordiamo, ad esempio, come nei secoli XVII e XVIII erano diffusissime le processioni ad impetrandam pluviam (per impetrare la pioggia) o l'esposizione del SS. Sacramento o della statua del santo protettore.

Ad Orria, si racconta, vi fu un tempo nel quale la gente non rispettava il riposo festivo, affaccendata a rendere acora più pingue il già abbondante raccolto che ogni anno ricavava dalla coltivazione a grano di un ampio falsopiano nei pressi del paese. Solo un povero contadino, che possedeva una piccola vigna, non aveva mai trasgredito il comandamento del Signore e perciò lo chiamavano "Guarda-festa". Un giorno (si avvicinava ormai la festa di S. Felice), una grande tempesta, che venne dal mare, si abbatté sul rigoglioso falsopiano; era appena stata ultimata la mietitura e i covoni giacevano ancora sparsi per i campi. Tutto fu distrutto e anche la fertile terra spazzata via: solo la vigna di Guarda-festa fu risparmiata. Tutti compresero e in segno di penitenza, coi loro risparmi, dedicarono un anello di diamanti a S. Felice. Ma il raccolto era andato perduto e la gente soffriva la fame. Due giorni prima della festa, un forestiero si presentò in piazza e a tutti distribuiva grano a seconda delle necessità delle famiglie: ma non prendeva denaro. Qualcuno osò domandare chi avesse pagato quel grano e quello rispose che glielo aveva commissionato un uomo di nome Felice, pagandolo con un anello di diamanti.

In questo racconto riaffiora la stessa tematica che troviamo nella ballata di S. Nicola e li Turchi, ove il santo protettore interviene per salvare il paese dalla fame, rivolgendosi a forestieri (i Turchi).

Certamente singolare è anche il racconto dei Santucci di Ogliastro. In seguito alla soppressione del convento di S. Leonardo nel 1652, fu disposto che gli arredi venissero trasportati in quello di S. Francesco di Lustra, comprese dodici piccole statue di santi che il popolo chiamava appunto "Santucci". Ma al momento del trasloco, quattro di essi divennero così pesanti che fu impossibile rimuoverli: furono lasciati perciò nella chiesa del convento. Essi da allora si fecero portare in processione solo quando i fedeli li imploravano in caso di siccità o di troppo frequenti piogge, ma solo lungo un tragitto preciso, cioè dal convento alla chiesa madre di S. Croce e viceversa.

Più recente è l'istituzione della festa dell'Addolorata a San Mauro Cilento, legata anch'essa ad un miracolo meteorologico. Durante la carestia del 1764 i fedeli vollero portare in processione la statua dell'Addolorata, come avevano fatto in altre simili occasioni, dalla vecchia cappella lungo i campi rinsecchiti. Era il lunedì in Albis. Giunti nei pressi della chiesa parrocchiale, venne la pioggia. I portatori, i walàni (bifolchi) che avevano preso l'iniziativa, per non fare bagnare il prezioso manto della Madonna, ripararono nella chiesa, ove la statua restò esposta alla venerazione dei fedeli per l'intera settimana, tanto quanto durò la provvidenziale pioggia. La domenica in Albis, tornato il sereno, la statua venne riportata nella sua cappella. Il rito ancora si rinnova ogni anno con grande concorso di popolo anche dai paesi vicini.

 

Il fulcro del giorno della festa è costituito dalla processione e, in molti paesi, dalla sacra rappresentazione.

E' interessante osservare come l'ordine processionale sia stigmatizzato e come certi riti ad esso connessi rechino una gestualità inconscia, tramandatasi da secoli.

Di solito la statua è ornata di doni votivi in oro o argento e su lunghi nastri vengono attaccati biglietti di cartamoneta; rito effettuato in genere solo dalle donne che attendono davanti alla porta di casa il passaggio del Santo, quasi a puntualizzare il loro ruolo nella società patriarcale.

Singolare il rito - potremmo definirlo "sociale" - che si svolge a Lentiscosa, durante la processione di S. Rosalia (4 settembre): gli emigrati si fanno fotografare accanto alla statua che all'uopo sosta nella piazza principale; costoro porteranno poi la foto nei luoghi di lavoro e la conserveranno come una specie di talismano e come unico legame col paese natìo.

I canti tradizionali, con vocalità e tonalità interessantissime, sono quelli appresi dai padri; il loro sapore di antico andrebbe gustato a solo, ma spesso sono sopraffatti dal suono degli strumenti musicali della banda che li copre con "marcette" più o meno intonate.

Certamente gli elementi più vistosi della processione sono la confraternita e le cénte votive, che di solito aprono sempre il corteo. Queste sono portate in testa da donne, che spesso percorrono il tragitto scalze, dopo che la mattina le hanno presentate in chiesa per la benedizione davanti all'altare, al cospetto della statua del patrono. Il tutto si svolge sotto il vigile sguardo del comitato che nel giorno della festa rappresenta in paese una sorta di autorità indiscussa.

Mentre il corteo processionale attraversa le vie del paese, non è raro vedere delle mamme - o più sovente delle nonne - coi piccoli in braccio, che additano loro la statua al suo passaggio. E' un'esperienza di apprendimento fondamentale, che non verrà più dimenticata, in quanto in quella immagine si ravviserà sempre il simbolo unitario della comunità, che solo in occasione della processione è chiamata a sfilare tutta per le vie del paese, e a seguire certi itinerari segnati almeno da due secoli (fino al XVIII secolo le processioni si svolgevano solo attorno alla chiesa) e che lo sviluppo urbano del nostro tempo raramente modifica; essi restano spesso gli unici testimoni dell'antico nucleo abitato.

In taluni paesi si usa abbellire le vie con frasche e fiori, in altri accendere, al passaggio della statua, dei fuochi, o esporre delle lucerne sui terrazzi (Cannicchio), che vi resteranno fino al consumarsi dell'olio. Sono, questi, con ogni probabilità, i segni sopravvissuti delle antiche processioni rurali.

Suggestiva è la processione per mare che si tiene ad Acciaroli la sera della seconda domenica di agosto; anche questa ha reminiscenze propiziatorie, in quanto la statua dell'Annunziata, caricata su una grossa barca, è portata a levante e a ponente della scogliera sui luoghi antichi di pesca, sempre in vista della cappella del Monte della Stella. Seguono numerose piccole imbarcazioni, mentre fedeli e curiosi assistono dalla banchina del porto.

Altre processioni per mare si tengono a Palinuro, la sera del 13 giugno (S. Antonio), ad Agropoli il 24 luglio (Madonna di Costantinopoli) ed in altre località costiere nelle quali questa bella tradizione viene ripresa anche a scopi turistici, facendo così scomparire l'originaria gestualità e sacralità.

Alcune processioni sono anche dei veri e propri pellegrinaggi.

Nei paesi dell'interno, ad aprire il corteo è lo stennàrdo (stendardo sacro), un'antenna altissima che regge un drappo triangolare, coi colori e simboli del santo protettore.

Nel giorno della festa è antica abitudine invitare un forestiero a pranzo. E' l'occasione in cui si gustano i piatti tradizionali, si scambiano notizie su fatti accaduti durante l'anno, si rivive la memoria di feste memorabili, si ricordano coloro che negli anni precedenti avevano arricchito la famiglia e il paese con la loro opera e che ora non sono più...

Ciò che fra l'altro va osservato in un pranzo di festa, soprattutto nei paesi dell'interno, è la ritualità: l'ordine della disposizione dei posti a tavola e del succedersi delle pietanze; gli intervalli tra l'una e l'altra e chi le serve.

La cucina segue ricette e usi antichi. A Cicerale, ad esempio, si potrà gustare il capretto al sugo cotto nel forno a legna; a Cannicchio i "cannulòtti", tipici dolci dalla ricetta particolare; a San Mauro molti ancora usano, come parte del pranzo, il sanguinaccio, conservato per l'occasione nella vescica di maiale, a ricordo del fatto che quel giorno (il Lunedì in Albis) un tempo non era festivo, ma un giorno di penitenza per ringraziare la Madonna del miracolo della pioggia.

 


LE SACRE RAPPRESENTAZIONI

Spesso, legata alla festa patronale, è la sacra rappresentazione, una reminiscenza del Medioevo, che oggi, dopo un periodo di morte apparente, sta vivendo in alcuni paesi un momento di particolare fortuna, in quanto concentra l'attenzione dei fedeli alla fine della processione di mezzogiorno. Le più note sono quelle di Rutino, di Perdifumo (8 maggio), di Vatolla (15 agosto) ove si rappresenta la lotta tra l'Angelo e il Diavolo, il primo sempre impersonato da un bambino, sospeso ad un cavo d'acciaio, che vince dopo un duello verbale, sul Diavolo, che recita la sua parte su un piccolo palco e indossa un'armatura o un costume rosso e nero. Interessanti sono i versi che i due protagonisti recitano, altisonanti e di stile barocco.

In altri paesi la sacra lotta si esprime con sfumature diverse. Nell'Opera ri Turchi di Prignano (6 dicembre, ripetuta poi il Lunedì in Albis), l'Angelo è mandato da S. Nicola, invocato da un bambino, di nome Teodato, fatto schiavo dai Turchi. Tutta la piazza antistante la chiesa parrocchiale diventa un palcoscenico, con quattro punti di recita dislocati lontani tra di loro.

Da dietro la chiesa i personaggi vengono accompagnati sulla piazza con marcette da alcuni componenti della banda musicale, in tre gruppi separati: il Turco e la sua corte, Teodato e un soldato, infine S. Nicola con due assistenti; i quattro "palcoscenici" sono la taverna, la cucina, la dispensa (su un alto baldacchino) e la prigione. L'azione scenica si svolge lentissima, anche per gli spazi che gli attori devono percorrere; pochissime ed elementari le battute, scandite tra intervalli di silenzi e di attesa, per cui la sacra rappresentazione dura circa un'ora.

Sul palcoscenico principale, il capo dei Turchi e alcuni commensali pranzano (il cibo è veramente cucinato al momento, per cui la scena è lunghissima); viene a servire Teodato che, ai ripetuti inviti del Turco affinché mangi anche lui, risponde che non può perché angustiato dal fatto che egli è lontano dal suo paese dove si celebra la festa di S. Nicola. Al che il blasfemo signore lo deride, invitandolo a chiedere aiuto al Santo affinché lo liberi. Compare allora un angelo, impersonato da un bambino e sospeso ad un cavo d'acciaio, che attraversa tutta la piazza partendo dal campanile. Liberato il bambino, si presenta allora S. Nicola in persona - indossa piviale e mitria - e si reca in cucina come un semplice cliente ad ordinare il pranzo e chiede di vedere la dispensa. Qui vede in un tinello le membra di tre bambini trucidati, pronti per essere serviti in tavola, ed opera il noto miracolo, resuscitandoli. Il malvagio oste viene cacciato in prigione e lì bruciato vivo: i fuochi d'artificio simboleggiano la pena inflitta a costui e il trionfo del Santo.

Non meno interessante è il cosiddetto Volo dell'Angelo, impersonato da un bambino sospeso ad un cavo d'acciaio che dall'alto di un balcone di una casa, vola sulla folla, fino al cospetto della statua del Santo protettore, cantando le sue lodi e chiedendo la sua protezione sul paese. Lo troviamo a Camella il giorno di S. Nazario (domenica successiva al 28 luglio), ad Eredita il 24 giugno, con replica a fine agosto, a Pisciotta l'8 settembre.

 

Nell'ambito delle sacre rappresentazioni, va inclusa anche la processione del Sabato Santo di Roccagloriosa che rievoca la passione di Cristo.

Due cortei con la confraternita in saio bianco partono da Rocca con le statue dell'Addolorata e del Gesù morto: raggiungono la chiesa di Rocchetta ove porgono il cordoglio (=visita al sepolcro). Uno stuolo di ragazzi li precede suonando i carrozzùni e le taràcciole, strumenti che emettono rumore continuo, ottenuto dal battere di alette di legno, il primo, e dallo strofinio di linguette egualmente di legno su un piccola ruota dentata, il secondo. I fedeli di Rocchetta formano poi un terzo corteo: tutti, percorrendo vie diverse che non li portano mai ad incontrarsi, giungono al luogo detto "Calvario" ove il rumore aumenta a dismisura per rievocare la partecipazione della natura alla morte di Gesù descritta nei Vangeli.

Forse questo è l'unico esempio di sacra rappresentazione che conserva ancora traccia di una teatralità popolare antica e che coinvolge tutto l'abitato, ove le vie sono il palcoscenico. Vedremo come anche il rituale delle confraternite nei paesi del Cilento Antico ha qualcosa di simile.

La ritualità delle sacre rappresentazioni cilentane è tipica della tradizione dei singoli paesi, ove da tempo immemorabile esse sono ripetute, spesso legate a chi ha impersonato per anni lo stesso personaggio e alla particolare occasione della festa. E' questa che crea l'ambiente e coinvolge l'animo di quanti vi assistono e partecipano. Fuori da questo contesto, non coinvolgono; per cui esse si propongono come uno degli elementi tipici del campanilismo cilentano. Il loro valore oggettivo va ricercato nel fatto che costituiscono una bellissima testimonianza dell'animo religioso e poetico del popolo.

 


Tratto da:
AMEDEO LA GRECA, Guida del Cilento 2, Il Folklore, Centro di Promozione Culturale per il Cilento, Acciaroli, 1990, pp. 73-87.



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