Le feste cicliche
(Amedeo La Greca)

 

 

A) IL NATALE

E' ancora vissuta come festa della famiglia e del paese. Due sono i momenti che la caratterizzano: la preparazione di dolci e il fòcaro (o fòquara), falò.

E' questo il punto di riferimento della notte tra il 24 e il 25 dicembre in quanto rappresenta un momento di aggregazione molto sentito, anche allo stato sentimentale. Nei giorni precedenti i giovani trasportano dalle campagne numerosi ceppi che, per la loro mole, non è stato possibile utilizzare come legna da ardere nei camini; vengono accatastati al centro della piazza principale (che di solito è sempre attigua alla chiesa parrocchiale), disposti a cerchio e accesi dopo la messa di mezzanotte. Di recente in alcuni paesi il falò di Natale costituisce anche l'occasione per una grigliata. Esso però non è mai staccato dalla funzione religiosa che commemora la nascita del Salvatore, per cui ha inizio solo dopo la cerimonia religiosa e dopo che i suonatori di fruschariéddo o di zampogne hanno reso omaggio al Bambino deposto nel presepe.

Vi sono altre ricorrenze nelle quali si fanno i falò.

Alla vigilia dell'Assunta (notte tra il 14 e 15 agosto), in alcuni paesi del Cilento Antico (Serramezzana, San Mauro, ecc.), i contadini accendono le stoppie lasciate nei campi dopo la mietitura, ricordando così l'usanza antica di quando i pastori facevano altrettanto ai bordi del pianoro del monte della Stella ove sorge la cappella omonima. Sono i fuochi dell'Assunta e un tempo davano il segnale dell'inizio della festa che, fino agli anni tra le due guerre, culminava col pellegrinaggio al santuario della Madonna della Stella.

Altrettanto fanno ancora i pastori e i giovani di Capizzo la notte tra il 10 e l'11 di luglio che precede la festa di S. Mauro: le sommità dei monti che sovrastano il paese brulicano allora di mille fuochi fino all'alba, creando un'immagine molto suggestiva di quel selvaggio ambiente rupestre.

Anche durante la processione che apre la novena della Madonna del Soccorso a Cannicchio (29 agosto) si usa accendere dei fuochi lungo il percorso. Certamente i falò richiamano l'usanza di esporre delle lucerne accese alle finestre o sulle terrazze al passaggio delle processioni rurali. E' un rito collegato idealmente alle antiche mitologie (il fuoco che purifica), ma che nella religiosità popolare cristiana è stato gradualmente rivestito di una nuova sacralità: deve illuminare il cammino della Madonna o del santo protettore.

 

Per quanto concerne la ricca tradizione culinaria del Cilento, legata al Natale, ricordiamo solo la Stella di Natale di Laurino e le Pasticcelle di Pollica che tra tutte ci sembrano più originali.

A Laurino, la notte del 24 dicembre, ancora presso molte famiglie si usa osservare il digiuno rituale che consiste nell'astenersi dalle carni e nell'assaggiare dodici cibi ed una bevanda, il decotto di foglie di lauro (alloro). Il rito è detto Stella di Natale e i cibi sono: tagliulìni (linguine di farina di grano fatte in casa), zeppole, castagne, noci, pinoli, mandorle, fichi secchi, fagioli, ceci, lenticchie, lupini, struffoli (dolci a forma di confetti, fatti con farina e uova, fritti e poi ricoperti di miele).

Indubbiamente è rimasto in tutto ciò solo la gestualità di un rito, in quanto questi prodotti che un tempo costituivano la cucina povera, oggi possono costituire la base per un menu di gala. Non va dunque sottovalutata la simbologia del numero dodici (quanti i mesi dell'anno), la scelta delle pietanze, tutte che si ricollegano alla forma del seme (Natale, la festa della Vita che nasce) e della bevanda che ricorda l'origine del nome Laurino (bosco di lauro).

Nel comune di Pollica si preparano come dolce le pasticcèlle a forma di stella, la cui originalità è data dalla doppia sfoglia (ottenuta impastando farina con uova e vino bianco) che racchiude la crema, a base di mandorle abbrustolite, pere secche, pinoli, pane tostato; vengono poi fritte e ricoperte di miele.

Cogliamo qui l'occasione per puntualizzare uno degli aspetti rituali propri delle pietanze che si preparano in occasione delle feste cicliche nel mondo contadino: non si concepisce prepararle fuori dal loro tempo e ciascuna è legata ad una ritualità che la rende parte integrale della ricorrenza. Non si tratta di "atmosfera" di una festa, come ad un osservatore moderno potrebbe sembrare, ma di veri e propri "riti" che, anche se a livello inconscio, spesso determinano il piacere di gustare e sentire certi sapori.

Durante il periodo delle feste di Natale, in molte famiglie si usa ancora l'uccisione del maiale, allevato in proprio, che un tempo era un vero e proprio rito, anche per certe formule o scongiuri che venivano pronunziati. Oggi si è imposta come unica alternativa alla sofisticazione delle carni, anche se sempre più spesso si sente dire che "non c'è più il sapore di una volta".

E' rimasta però una bella usanza: lu spitu (o lu rato) che consiste nel mettere da parte alcune porzioni di carne e darle poi ai vicini di casa o alle famiglie in lutto, come segno di compartecipazione a quell'abbondanza. Lo stesso gesto lo si usa anche dopo la panificazione domestica.

 

 

B) LA CANDELORA E LA QUARESIMA

La Cannelòra e la Quarajésema sono due ricorrenze legate specificamente all'anno liturgico cattolico, che nella cultura contadina sono state inserite nel ciclo dell'anno meteorologico.

La prima cade il ventunesimo giorno dopo l'inizio del Carnevale, cioè il 2 febbraio, mentre l'altra il giorno seguente il martedì grasso, quaranta giorni prima di Pasqua.

E' credenza popolare che se il giorno della Candelora è cattivo tempo, lo sarà anche per i quaranta giorni successivi, come viene cantato in queste strofette che divengono anche occasione per l'usuale ironia verso le vecchie e i preti:

Quanno è `a Cannelòra
O néveca o chiòve
Chiòve o ména viénto
Quaranta juorni re maletiémpo
Respónne `a vecchia into a lu furno
Rura fino a lu mese re giugno
Quann'è `a Cannelòra
Ogni prèvate se ròle
Cu nu muzzóne re cannéla
Tutta `a chiérica se péla.

La Quaresima, nella cultura popolare, viene personificata e, come maschera, fa parte del corteo carnescialesco. Essa è la vedova di Carnevale di cui piange la morte; è magrissima, acciaccata, vecchia, vestita di nero, regge con la destra il fuso e con la sinistra la cunócchia (rocca) in atto di filare della lana.

Essendo una maschera funebre, connessa alla morte dell'anno vecchio (Carnevale), potrebbe rappresentare il residuo del mito delle Parche della mitologia greca, delle quali conserva il filare, come simbolo dell'inesauribile crescere e scorrere della vita destinata alla morte, che segue sempre i capricci del Destino...

Resiste ancora in alcuni paesi la simpatica usanza di fa' la Quarajésema, cioè di costruire una bambola di stoffa dalle sembianze di vecchia ed appenderla ad una finestra, subito dopo che si è sciolto il corteo di Carnevale. Ha le stesse caratteristiche della maschera e in più le viene attaccata sul posteriore un'arancia, sulla quale sono infilzate sette penne di gallina scacàta, cioè che non fa più uova. Queste vengono poi tolte una per ogni venerdì e bruciate. Infine il Venerdì Santo viene bruciata la Quarajésema con l'ultima penna e l'arancia.

Tutti i riferimenti mitologici di questo rito sono connessi con i simboli della Morte che sembra aver preso momentaneamente il sopravvento sulla Vita. Lo stesso pupazzo della Quarajésema è una pupa re pèzza, cioè una bambola di stoffa, ma che ha i caratteri della non prolificità e della non-festa (è a lutto, è vecchia, reca le penne di una gallina che non fa uova); mentre la bambola è sempre nei giochi delle bambine il simbolo della maternità.

Ecco come la Quaresima è cantata in queste strofe, nelle quali emergono i caratteri che la fantasia popolare attribuisce alla maschera:

Quarajésema cuossi-stòrta
Ja girànno pe into l'òrta
Se jettào pe nu muro
E se ruppètte l'uósso ru culo
Quarajésema cuossi-stòrta
Ja arrubbànno menèstra a l'òrta
La `nguntrào Carnulevàro
E `a pigliào cu nu palo
Quarajésema cuossi-stòrta
A lu spitàle se ne jètte
E ncapo re quaranta juórni
Accussì dda' fernètte.

 

C) PASQUA

Nel linguaggio popolare questo termine è attribuito a tre ricorrenze religiose, ciascuna ben distinta dall'altra:

Pasca Bufanìa (Pasqua Epifania) corrisponde all'Epifania, 6 gennaio;

Pasca re l'Ova (Pasqua delle uova) è la Pasqua di Resurrezione, cade la prima domenica dopo il primo plenilunio di primavera;

Pasca ri Juri (Pasqua dei fiori) corrisponde alla Pentecoste, che cade cinquanta giorni dopo la Pasqua di Resurrezione.

 

La prima, che nella tradizione cristiana celebra la manifestazione della divinità di Cristo ai Magi (nel consumismo moderno la Befana che porta i doni ai bambini), nella cultura contadina del Cilento è il giorno nel quale le anime dei morti lasciano definitivamente la terra. Un vecchio proverbio recita: Tutte li Pasche jéssero e benéssero, ma Pasca Bufanìa nu' benésse mai!

La seconda è detta re l'Ova per l'uso antico di regalare alla persona amata e ai bambini `u viccio cu l'uovo, cioè una treccia di pane bianco che contiene un uovo, preparata durante l'ultima panificazione prima della festa. I simboli dell'uovo (=vita primordiale) e il rito del dono sono antichissimi e li troviamo presso molte culture. L'aspetto che si dà al viccio è molto originale e costituisce oggi una delle pochissime "forme" che esprimono in maniera diretta il significato di un rito arcaico. Ogni paese ha elaborato una sua "forma"; la pasta del pane può essere modellata a tòrtano, cioè rotonda con una piccola cavità al centro nella quale è posto l'uovo; oppure a viccio, cioè intrecciata a creare l'aspetto di un neonato in fasce e l'uovo è collocato nella parte superiore (testa) o più spesso in quella inferiore (ombelico). Il viccio, un tempo, per le bambine che lo ricevevano in dono, costituiva l'occasione del gioco della "mamma": fasciato, diveniva nella loro fantasia, il figlioletto da cullare.

Tutti questi elementi vanno letti simbolicamente (riferimento all'uovo cosmico, all'ombelico della terra come centro della vita e del mondo, ecc.) e collegati alle mitologie antiche delle "forme" primordiali della vita-che-nasce; le quali nella festa cristiana della Pasqua hanno trovato una loro collocazione come elementi della nuova vita dell'anima che si rigenera, libera dal peccato, dopo la morte, in virtù della resurrezione di Cristo.

Per la Pasqua re l'Ova si usano preparare delle pietanze particolari, per lo più delle pizze, cioè una specie di focacce; il loro nome è dato dall'ingrediente principale (pizza re maccarùni, re grano, re riso). Gustosissima tra tutte è quella detta pizza chiéna, cioè "ripiena" con formaggio di capra fresco, uova sode e molte fette di supressàta (tipico salame di carne di maiale lavorata artigianalmente in casa); il tutto amalgamato da uova sbattute e formaggio grattugiato, sistemato tra due sfoglie in un ruoto; la cottura ideale è nel forno a legna.

Parte importantissima dei riti pasquali sono le congrèe (confraternite), alle quali abbiamo dedicato un capitolo a parte (v. oltre).

Va anche ricordato l'uso cosiddetto della bottiglia, che ormai va scomparendo. I bambini, in attesa che arrivino le confraternite dei paesi vicini, preparano in una bottiglia un intruglio di liquirizia e zucchero sciolti in acqua, che agitano con forza fino ad ottenere un liquido nero e schiumoso, che poi bevono mentre ascoltano i canti delle confraternite, sorbendo da una cannuccia inserita nel tappo di sughero.

Collegata alla Pasqua è anche la processione delle Palme, alla quale tutti i bambini del paese partecipano con la palma fatta di ramoscelli di ulivo ornati di dolciumi e caramelle e un tempo di molti fichi secchi, non disponendo di altro. Consumate poi avidamente queste leccornie dopo il rito in chiesa, le palme benedette ormai spoglie saranno portate nei campi e attaccate su un paletto della vigna come propiziazione di un buon raccolto di uva.

Il periodo pasquale acquista in alcuni paesi anche il sapore della festa patronale. A Prignano, il Lunedì in Albis si recita l'Opera ri Turchi, la sacra rappresentazione che chiude la processione in onore di S. Nicola; a San Mauro Cilento inizia, con la processione di mezzogiorno, la settimana dedicata all'Addolorata, durante la quale la statua è esposta alla venerazione dei fedeli nella chiesa madre; si concluderà con la fiera del sabato e la festa grande la domenica successiva.

La terza Pasqua è detta ri Juri in quanto durante la messa solenne, il celebrante cosparge di petali i fedeli, simboleggiando così la discesa dello Spirito Santo.

Questa festa dei fiori, versione cristiana dei riti della primavera del mondo antico, è collegata ad altre due feste nelle quali pure i fiori sono "protagonisti", per così dire: l'Ascensione e il Corpus Domini.

Durante la scampagnata del Lunedì in Albis (Pasquetta) o nei giorni immediatamente successivi, si raccoglie un ciuffo di erba che cresce nelle crepe dei muri di campagna, detta l'erva r'Ascensióne. Posta a capo del letto, essa fiorirà dopo trenta o quaranta giorni, in prossimità appunto della festa dell'Ascensione. Un tempo, dal modo di svilupparsi dei rami o dal cadere dei fiori, le ragazze nubili traevano auspici per il loro matrimonio; segno di disgrazia imminente era se l'erba non fioriva affatto.

I fiori sono protagonisti anche nei riti del giorno del Corpus Domini, quando il paese appare trasformato: le vie ne vengono cosparse - domina il giallo della ginestra - a formare mille disegni o scritte; dalle finestre e dai balconi pendono le coperte più belle del corredo. L'addobbo deve accogliere degnamente la processione del Sacramento che viene portato in pompa magna dal celebrante sotto l'ombrello liturgico e il palio. Ai crocicchi delle vie vengono preparati i cappellóni, cioè degli altari improvvisati abbelliti con piante, drappi e coreografie di carta; servono come sosta per le benedizioni ai fedeli durante la processione, alla quale partecipano anche i bambini che hanno fatto la prima comunione con l'abito di quell'occasione, e la confraternita in divisa. Certamente spettacolare e imponente è la processione della Chiòva (Socia) alla quale prendono parte le confraternite di tre paesi della parrocchia (Ortodonico, Fornelli e Cosentini).

 

 

D) IL PRIMO MAGGIO E LA CUCCìA

In alcuni paesi del basso Cilento e specie a Casaletto Spartano, la sera del primo maggio si tiene una singolare sagra, una di quelle feste popolari originalissime che corrispondono a pieno all'antica tradizione.

Gruppi di giovani si recano di casa in casa per chiedere vari tipi di legumi, che cucineranno poi separatamente in grosse pentole sistemate ai crocicchi delle vie. A sera i legumi raccolti saranno messi tutti assieme in una caldaia, preparata nella piazza principale, ove avranno l'ultima cottura. Conditi con olio e sale, vengono poi distribuiti agli astanti che fanno corona al fuoco, tenuto acceso per tutta la durata della "sagra".

E' da ravvisare in questa festa popolare qualche traccia dei riti antichi della fertilità: il seme simbolicamente racchiude in sé il mistero della rigenerazione che avviene incessantemente; in esso la vita che muore ritorna a nascere sotto nuova forma e ciascuna vita (ogni chicco di legume) ha in sé le capacità totali della vita; il banchetto collettivo rappresenta la capacità della massima concentrazione dell'energia vitale che sembra perdere la propria individualità inizialmente, ma che la conserva integra, pur nella fusione e nel palpitìo di mille forme di vita...


Tratto da:
AMEDEO LA GRECA, Guida del Cilento 2, Il Folklore, Centro di Promozione Culturale per il Cilento, Acciaroli, 1990, pp. 87-94.



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