Del Cilento e del suo dialetto

Lettera di Federico Piantieri
ad Ernesto Palumbo officiale della Biblioteca Nazionale di Napoli (Bologna, Tipi Fava e Garagnani, 1870 - Estratto dal Periodico: Studi Filologici, Storici e Bibliografici IL PROPUGNATORE, vol. II).


NAPOLI, 20 NOVEMBRE 1869

Mio caro Palumbo,

A voi, che portate molto amore al culto della letteratura e specialmente della popolare, a voi, che mi deste il presente tema, voglio con tutto cuore indirigere questo mio, qualunque sia, scritterello intorno al dialetto del Cilento.

Il Cilento, come dimostra la sua etimologia, è un gruppo di paeselli finitimi alle sponde del fiume Alento in Salerno. Gli abitanti di quelle contrade sono discendenti dai Latini; non gia, come la pensano taluni, dagli Elleni. Egli è vero che costoro ne' tempi di Parmenide, di Zenone e di Pitagora vi si accasarono continuando la coltura morale e civile: ma non si dee loro tutto attribuire, poiché prima di essi i Bruzii, i Sanniti, i Latini corsero e ricorsero le vie cilentane. In somma il Cilento apparteneva alla Magna Grecia: la quale si disse così non perché i Greci lasciando una piccola Grecia ne vennero qui a fare una grande, ma perché il genio del Lazio, domando e vincendo tutto, superbo di se stesso gareggiava con l'Ellade ed, accrescendo le bellezze delle lettere, delle arti e delle scienze, volle oscurare il nome della Grecia col dir la sua patria magna. Anzi ardirei dire che, essendo i Greci e i Latini germani, non si può credere che gli uni abbiano dato nascimento agli altri: quindi estimo che il nome di Magna Grecia si fosse creato nel tempo istesso che in Atene fioriva la dottrina, più per gara che per altro. I pareri intorno alle antichità, mio ottimo amico, dovrebbero rettificarsi, acciò non si dia nel falso; ed uno de' mezzi per arrivare a buona meta è il pensare che la terra è stata sempre e gli uomini sono stati sempre per ogni luogo. Oh bella! se una pianta, ch'è creatura come ogni altra, nasceva con la terra e in ogni zona terrestre, perché l'uomo, pianta animale, non deve parimente ammettersi nato con la terra ed abitante per ogni regione? L'autottonismo è un momento razionale che bisogna porre nell'evoluzione etnografica. E poi, ragionando intorno al nostro paese, perché si deve ricorrere all'Asia per ispiegarne l'origine, mentre gli Osci e gli Etruschi sono abitanti indigeni, coevi ad ogni ramo della razza ariana? In tal guisa vuol esser studiato il Cilento quanto alla sua origine; della quale, avendone distesamente parlato nell'altro mio lavoro inedito: Scuole etrusca, eleatica e crotoniate, qui dico solamente che la debbe connettersi agli antichi Lucani, germani de' Messapi, de' Bruzii, degli Iapigii, de' Sanniti e di tutti gli altri antichi abitanti il mezzogiorno d'Italia. Con questo criterio studiata la storia delle nazioni, si avrebbe un'idea più esatta de' popoli e de' paesi.

Da codesti concetti storici deriva che il linguaggio italico è linguaggio primitivo, il quale, come ogni altro, ha subìto modificazioni. E poi le lingue de' popoli hanno le radici omogenee, non altrimenti che gli elementi delle varie secrezioni del corpo umano, che nel sangue sono indistinti ma pigliano poi speciali qualità passando per gli organi secretori ove si elaborano caratteristicamente. Per la qual ragione bisogna riflettere che la filologia popolare è l'unica da coltivarsi con quel logico criterio che mentre conserva la natia freschezza e la giovanile soavità del popolo non trascura d'esser d'accordo col buon senso. Quante parole, francamente parlando, non sono ignote per fino ai filologi, sol perché la costoro aristocrazia non ha voluto fondersi con esso? E si sarebbero ottenuti due vantaggi: l'educazion del popolo e la dovizia della lingua. Ogni dialetto è crusca greggia ed invagliata, che sennatamente è da divenir poscia crusca fina, ove si brami una lingua ricca e progressiva.

Ecco, mio egregio amico, alcune riflessioni cominciate ad agitarsi nelle menti di molti pensatori italiani. Chi sa che andandosi di questo passo e su questa via non si ottenga l'unità della lingua? Sarebbe un gran fatto, utile alle arti ed alla storia; la quale darebbe a' tempi avvenire schiarimenti che non si trovano ne' passati. E la cagione n'è in parte la mancanza dello studio dei dialetti, con cui si ha qualche nozione della vita morale e civile d'un paese. La varietà de' dialetti dee trovar sua unità solamente in un vocabolario formolato dopo lo studio di essi. Se tutti gli amatori della lingua italiana si dessero pensiero di frequentare un po' la scuola del popolo, avrebbero il bel vantaggio di apprendere molte parole e molte frasi le quali potrebbero arricchire il patrimonio della lingua nazionale.

Nei linguaggi succedono infinite variazioni sillabiche; e, che sia vero, e' basta osservar l'italiano. Ad esempio, fazzoletto: quel fazzo sta invece di faccio; in altri termini faccioletto, quasi pannolino per la faccia. Oggi ancora dicesi faccioletto in molti paesi della Sicilia dal volgo e dai letterati; in molti altri paesi dell'Italia meridionale fazzoletto. Similmente, per malo udito e per difettosa pronunzia mutansi le lettere: per esempio, in iddo (quello) de' Cilentani si convertono l'll in dd; chero de' medesimi è derivato da quae res, onde tutto chero (tutto ciò), e poi si disse chero e chera per quello e quella. In conseguenza deve tenersi ben mente alle alterazioni della pronunzia, acciò i letterati non piglino granchi e sognino di trovar tutto nelle lingue orientali, poiché l'occidente è sempre esistito, fin da che il mondo è mondo, popolato d'uomini e di cose.

Nelle seguenti illustrazioni filologiche non faccio altro che riferir pochissime voci del nostro popolo cilentano. Esse son parte d'un altro mio lavoro inedito intitolato: Voci italiane da criticarsi e da illustrarsi, e però non mi distendo molto rifacendo il fatto.

Agresta (da agro, acre) nel nostro paese si dice per uva acerba. I vocabolarii hanno agresto: ma pare che sia più bello il vocabolo agresta che agresto sostantivo, anche per non confonderlo con l'addiettivo agresto.

Appisolare. Questo vocabolo, pronunziato in Reggio di Modena, in Massa di Carrara, in Firenze, in Milano, in Venezia e particolarmente nel contado di Pisa, è stato argomento d'un lungo articolo a Prospero Viani, profondo filologo. Presso tutti questi paesi e' suona dormicchiare; nel Cilento significa arrampicarsi e si dice propriamente di certi animali che specificamente salgono un'altura: onde i modi di dire appisolarsi come un sorcio o come una lucerta, che valgono salir presto e leggiero come i detti animali. Quindi la parola appisolarsi potrebbe notarsi in vocabolario con questo duplice senso di dormicchiare e di arrampicarsi. V'ha pure pisolo pisolo ossia leggiero leggiero; onde nel volgo pigliar un oggetto pisolo pisolo significa pigliarlo colla massima rapidità e leggerezza. L'etimologia poi di queste voci non mi par che venga da Pisa, perché i Pisani sian dormiglioni, né da appislêrs o appislars, ma da una parola latina, che mentre favorisce il senso del dialetto cilentano spiega anco quello del pisano, vale a dire da pisulum, pisello. Imperocché questa pianta essendo leggerissima ed attorcigliandosi co' suoi filamenti alle altezze vicine con la massima agevolezza, n'è venuto l'appisolarsi, quasi per troppa leggerezza salir rapidamente. Del pari appisolarsi per fare un leggiero e piccolo sonno accenna alla leggerezza e picciolezza dei filamenti del pisello, pisum o pisulum.

Avvitare. Così dice il nostro popolo quando applica una vite (quell'istrumento meccanico che anche si dice chiocciola). E il vocabolario non nota questa parola, mentre poi segna avvitire, piantar viti!

Ciminera, camino, cappa del focolare. Questo vocabolo è logico e adattato a tale significazione, poiché esprime quel segno visibile che fa il fumo annerendo la cima degli embrici. Quindi potrebbe dirsi in pretta foggia italiana ciminera o cimanera.

Golìo (da gola), brama che stimasi riseder nella gola e poi qualunque forte desiderio: onde aver golìo, desiderare. Il popolo sa meglio d'ogni letterato far de' vocaboli. Se v'è golosità, golosìa, perché non registrare anche golìo?

Ingarrare per indovinare, fare o dir bene una cosa. Il vocabolario ha sgarro, sgarrone per errore, sgarrare, sgarrire per errare e poi non ammette l'ingarrare di molti dialetti meridionali!

Mantesino, grembiale. Lo si può far venire da ante e sino, quasi antesino, e voltarlo in italiano per avanseno, anteseno; ovvero da manto e sino, quasi manto che covre ed orna il seno, ed allora si direbbe mantoseno.

Pagliaro, pagliara. I vocabolarii hanno pagliaio, grande massa di paglia in forma di cono; il Gherardini ha pagliereccio, capanna, abitazione costruita con paglia. Il nostro popolo forse dice meglio, sebbene le su citate voci pagliaro e pagliara possano indicare anche quel luogo ove si serba la paglia. E allora, a tor via questa confusione, si potrebbe adattare la voce pagliaio per luogo dove si conserva la paglia e pagliara per capanna di paglia.

Peculare, pecolare, quando si va a coglier frutta, quasi rubarle all'albero che le ha prodotte; da peculatum dei Romani (furto di danaro pubblico).

Spettorone, percossa in petto. Bella parola perché significativa e intelligibile.

Stutare, spegnere. Ariosto adopera figuratamente questo vocabolo per uccidere, come viene usato anco dal nostro volgo; ed i vocabolarii non lo battezzano!

Susare, levarsi, rizzarsi. Bella voce italianissima, quasi duplicata di su.

Tata (padre) l'è una voce popolare che ha il suo riscontro in una parola slava che significa padre ed in un'altra ebraica che val generatore. E i nostri popolani non l'hanno certamente pigliata né dagli Slavi né dagli Ebrei, perché è voce primitiva de' bimbi, i quali o cominciano a snodar la lingua col monosillabo pa, onde papà, o ma, onde mamma, o ta, onde tata. E' la natura della gorga umana che simile in tutti gli uomini forma parole simili in tutt'i popoli del mondo.

Tozzolare, bussare alla porta. Pare una parola meglio di bussare, perché esprime il suono del to to del battente.

Vasata (sostantivo), moltitudine di baci. Simpatica parola, la quale, ripulita in baciata, meriterebbe veramente un bacio e un posticino nel vocabolario.

Zippo, segno di misura nello staio: donde uscir di zippo o fuori zippo, cioè andar oltre misura.

Vorrei, signor Ernesto, parlarvi più a lungo di queste voci popolari vive nel mio paese; ma, bisognandomi tempo, che per ora mi manca, fo fine raccomandando a tutti gli amatori dell'idioma italiano di mettere in pubblica mostra i tesori dei tanti vernacoli, i quali alla lor volta dànno materia per illustrare ed ampliare il dizionario patrio. Lo studio della lingua si agevola con lo studio de' dialetti; lo studio della lingua è necessario a chi ama la scienza, l'arte e la patria. Oh! quell'anima insigne del Leopardi quanto l'aveva capita: la lingua, egli scriveva, e l'uomo e le nazioni per poco non sono la stessa cosa. Ma, per darvi un saggio del mio dialetto, traduco in cilentano marittimo, per poco differente da quello montanaro, un dialogo cavato dalla Raccolta di dialetti italiani con illustrazioni etnologiche di Attilio Zuccagni-Orlandini, Firenze, 1864. Io con un tal saggio non intendo far altro che confortare gli altri a far lo stesso sopra i proprii dialetti. Amore e non scienza mi fa scrivere.

Tanti sinceri saluti del vostro amicissimo
FEDERICO PIANTIERI


PARLATA TRA NU PATRONE E NU SERVITORE SUO

Patrone. Neh, Battì, ài fatto tutto chero che t'aggio comannato?

Servitore. Signò, vi pozzo azzertà r'esse stato esatto chiù ch'aggio potuto. Stammatina a le ssei e nu quarto m'era già abbiato; a le ssette e mezza avia fatto mezza via, e a l'otto e tre quarti trasia into a la cettà; ma po' à chiovuto tanto!

Patr. A lo soleto si stato a ffà lo polotrone into a na cantina p'aspettà che scampasse! E pecché non t'ài pigliato l'ombrello?

Serv. Pe non portà chiro mpiccio; e po' iersera quanno mi ietti a corcà non chioveva chiù o, se chioveva, chioveva picca picca: stammatina quanno mi so susato era ario chiaro, e sulo a ssuta ri sole s'è annuvolato. Chiù a nnotte è ssuto nu viento forte, ma 'nvece re caccià le nnuvole à fatto vené na grannenata ch'à durata mezz'ora, e po' acqua a ccielo apierto.

Patr. Accossì me vuo' fa capì ri non avé fatto quasi niente ri tutto chero che t'avia comannato; non è lo vero?

Serv. Vui che diciti! crero che sariti contento quanno sapiti lo giro ch'aggio fatto pe la cettà in doie ora.

Patr. Sentimo le guapperie toie.

Serv. Quanno chioveva trasietti into la potega ri lo cusotore, e aggio visto co st'uocchi miei proprii accomorato lo soprabito vuosto co lo cuoddo e mborra nova; la giacchetta nova e i cauzuni co le staffe erano furnuti, e l'abito ri sotto lo stia taglianno.

Patr. Tanto meglio. Ma tenivi puro picca lontano lo cappeddaro e lo scarparo, e a cchisti non ài addomannato niente?

Serv. Gnorsì: lo cappeddaro annettava lo cappieddo vuosto viecchio, e avia sulo ra mette la trena a lo nuovo. Lo scarparo po' avia furnuti li stivali, le scarpe grosse pe caccia e le scarpedde pe ballo.

Patr. Ma a casa ri patremo quanno ci si ghiuto, ca chesto era lo necessario?

Serv. Ninca scampao; ma non ci aggio trovato né lo patre vuosto né la mamma vostra né lo ziano vuosto, pecché ieterza iettero 'n campagna e ci stettero tutta la nottata.

Patr. Fratemo o la mogliera soa ammeno stia a casa?

Serv. Gnernò, pecché aviano fatta na cavarcata e s'aviano portato lo guaglione e le picciotte.

Patr. Ma li servituri erano tutti fori casa?

Serv. Lo cuoco era iuto 'n campagna co lo patre vuosto, a cammerera e dui guarzuni erano co a cognata vostra, e lo carrozziere, avenno avuto lo comanno r'attaccà li cavaddi pe li mmove, se n'era iuto fori a cettà.

Patr. 'Nsomma non c'era nisciuno 'n casa?

Serv. Non ci aggio trovato che schitto lo muzzo ri stadda, e a iddo aggio consegnato tutte le lettere, pe le portà a cchi iano.

Patr. Manco male. E a provista pe crai?

Serv. L'aggio fatta: pe menestra aggio pigliato pasta e aggio accattato puro lo formaggio e lo butirro. P'accresce lo bollito ri vitieddo aggio pigliato no piezzo ri crastato. Lo fritto lo fazzo ri cervieddo, ri fecato e ri carcioffola. Pe ragù aggio accattato puorco, e n'anatra che si farà co lo cavolo. E non avenno trovato né mali-vizzi né starne né arcere, remerie-raggio co no adderinio a lo furno.

Patr. E pesce non n'ài accattato?

Serv. Anzi n'aggio comprato assai, pecché ia a nniente. Aggio accattato scrummo, treglie, rasce, nasiddi e ragoste.

Patr. Accossì va buono. Ma u parrucchiere non l'ài visto?

Serv. Che diciti! com'a potega soa è vicina a cchera ri lo speziale addove aggio fatto provista ri zuccaro, spiezio, arofali, cannedda e cioccolata, cossì aggio parlato puro a iddo.

Patr. E che nove t'à date?

Serv. M'à ditto ca l'Opera 'mmusica à fatto chiasso, ma lo ballo fui fischiato; ca chiro giovine signore amico vuosto perdette l'auta sera a lo iuoco tutte le scommesse e ca mo spettava ri partì co a delegenza. M'à ditto puro ca donna Lucietta à lecenziato lo 'nnammorato e à ghiurato ri no lo volé cchiù.

Patr. Gelusie... chesto mo me face rerere; ma pensamo mo a nnui.

Serv. Se vui siti contento, me mangio no picca ri pane e me vevo no bicchiere ri vino, e torno subeto a piglià l'urdini vuostri.

Patr. Come vao ri pressa e aggio da iere fori casa, statti a ssente prima che te rico, e po' mangi e ripuosi quanto te piace.

Serv. Comannate puro.

Padr. Pe la tavola c'avimo ra fà, para tutto into la sala bona. Piglia a tovaglia e li meglio salvietti; tra li piatti piglia chiri ri porcellana, e non fa mancà né zuppiere né piattini. Accomora a credenza co frutta, uva, noci, amennole, rolci, confetture e bottiglie.

Serv. E quale posate metteraggio a ttavola?

Patr. Piglia li cucchiari r'argiento, le ffurcine e li cortieddi co lo maneco r'avorio, e tien' a mmente che le bottiglie, i bicchieri e i bicchierini ànno ra esse chiri ri cristallo arrotato. Agghiusta po' attuorno a la tavola le meglio segge.

Serv. Sariti servito come riciti vui.

Patr. Arricordati ca mosera vene vavama. Tu sai quant'è seccante chera vecchia! Prepara la cammera bona, fa enghie lo saccone e scote le materazza. Mitti a lo lietto le lenzola e facce ri cuscina chiù fine, e commoglialo pe li tavani. Inghi u mosciatrieddo r'acqua e 'ncoppa lo vacile appienni na tovaglia ordinaria e n'auta fina. Famme tutto a rregola, e non te mancarà lo regalo.

Serv. Veramente m'avite comannato troppo cose, ma fazzo tutto.


DIALOGO TRA UN PADRONE ED UN SUO SERVITORE

Padrone. Ebbene, Batista, hai tu eseguite tutte le commissioni che ti ho date?

Servitore. Signore, io posso assicurarla di essere stato puntuale più che ho potuto. Questa mattina alle sei e un quarto ero già in cammino; alle sette e mezzo ero a metà di strada, ed alle otto e tre quarti entravo in città; ma poi è piovuto tanto!

Padr. Che al solito sei stato a fare il poltrone in un'osteria per aspettare che spiovesse! E perché non hai preso l'ombrello?

Serv. Per non portar quell'impiccio; e poi ieri sera quando andai a letto non pioveva più o, se pioveva, pioveva pochissimo: stamani quando mi sono alzato era tutto sereno, e solamente a levata di sole si è rannuvolato. Più tardi si è alzato un gran vento, ma invece di spazzare le nuvole ha portato una grandine che ha durato mezz'ora, e poi acqua a ciel rotto.

Padr. Così vuoi farmi intendere di non aver fatto quasi niente di ciò che ti avevo ordinato; non è vero?

Serv. Anzi spero che ella sarà contento quando saprà il giro che ho fatto per città in due ore.

Padr. Sentiamo le tue prodezze.

Serv. Nel tempo che pioveva mi sono fermato in bottega del sarto, ed ho visto con questi miei occhi raccomodato il suo soprabito con bavero e fodere nuove; la sua giubba nuova e i pantaloni colle staffe erano finiti e la sottoveste stava tagliandola.

Padr. Tanto meglio. Ma avevi pure a pochi passi il cappellaio e il calzolaio, e di questi non ne hai cercato?

Serv. Sì signore: il cappellaio ripuliva il suo cappello vecchio, e non gli mancava che orlare il nuovo. Il calzolaio poi aveva terminati gli stivali, le scarpe grosse da caccia e gli scarpini da ballo.

Padr. Ma in casa di mio padre quando sei andato, che questo era l'essenziale?

Serv. Appena spiovuto; ma non vi ho trovato né suo padre né sua madre né suo zio, perché ieri l'altro andarono in villa e vi hanno pernottato.

Padr. Mio fratello però o sua moglie almeno sarà stata in casa?

Serv. No signore, perché avevano fatta una trottata ed avevano condotto il bambino e le bambine.

Padr. Ma la servitù era tutta fuori di casa?

Serv. Il cuoco era andato in campagna col suo signor padre, la cameriera e due servitori erano con sua cognata, e il cocchiere, avendo avuto l'ordine di attaccare i cavalli per muoverli, se n'era andato colla carrozza fuori di città.

Padr. Dunque la casa era vuota?

Serv. Non vi ho trovato che il garzone di stalla, ed a lui ho consegnate tutte le lettere, perché le portasse a chi doveva averle.

Padr. Meno male. E la provvista per domani?

Serv. L'ho fatta: per minestra ho preso della pasta, e intanto ho comprato del formaggio e del burro. Per accrescere il lesso di vitella ho preso un pezzo di castrato. Il fritto lo farò di cervello, di fegato e di carciofi. Per umido ho comprato del maiale, ed un'anatra da farsi col cavolo. E siccome non ho trovato né tordi né starne né beccacce, rimedierò con un tacchino da cuocersi in forno.

Padr. E del pesce non ne hai comprato?

Serv. Anzi ne ho preso in quantità, perché costava pochissimo. Ho comprato sogliole e triglie, razza, nasello e aliuste.

Padr. Così va benissimo. Ma il parrucchiere non avrai potuto vederlo?

Serv. Anzi, siccome ha la bottega accanto a quella del droghiere dove ho fatto provvista di zucchero, pepe, garofani, cannella e cioccolata, così ho parlato anche a lui.

Padr. E che nuove ti ha date?

Serv. Mi ha detto che l'Opera in musica ha fatto furore, ma che il ballo è stato fischiato; che quel giovine signore suo amico perdé l'altra sera al giuoco tutte le scommesse, e che ora aspettava di partire con la diligenza. Mi ha detto pure che la signora Lucietta ha congedato il promesso sposo e ha fatto giuramento di non volerlo più.

Padr. Gelosie... questa sì che mi fa ridere; ma pensiamo ora a noi.

Serv. Se ella si contenta, mangio un poco di pane e bevo un bicchier di vino, e torno subito a ricevere i suoi comandi.

Padr. Siccome ho fretta e devo andare fuori di casa, ascolta prima cosa ti ordino, e poi mangerai e ti riposerai quanto ti piacerà.

Serv. Comandi pure.

Padr. Per il pranzo che dobbiamo fare, prepara tutto nel salotto buono. Prendi la tovaglia e i tovaglioli migliori; tra i piatti scegli quelli di porcellana, e procura che non manchino né scodelle ne vassoi. Accomoda la credenza con frutta, uva, noci, mandorle, dolci, confetture e bottiglie.

Serv. E quali posate metterò in tavola?

Padr. Prendi i cucchiai d'argento, le forchette e i coltelli col manico d'avorio, e ricordati che le bocce, i bicchieri e i bicchierini siano quelli di cristallo arrotato. Accomoda poi intorno alla tavola le seggiole migliori.

Serv. Ella sarà servita puntualmente.

Padr. Ricordati che questa sera viene mia nonna. Tu sai quanto è stucchevole quella vecchia! Metti in ordine la camera buona, fa riempire il saccone e ribattere le materasse. Accomoda il letto con lenzuola e federe le più fini, e cuoprilo col zanzariere. Empi la brocca di acqua, e sulla catinella distendi un asciugamano ordinario ed uno fine. Fa tutto in regola, e la mancia non mancherà.

Serv. Per verità ella mi ha ordinato molte cose, ma farò tutto.



Tratto da:
FERNANDO LA GRECA, Il dialetto del Cilento nelle Fiabe Cilentane raccolte dalla tradizione orale. Con in appendice il testo di Federico Piantieri "Del Cilento e del suo dialetto" (1869), Centro di Promozione Culturale per il Cilento, Acciaroli, 1994, pp. 94-101.



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