Storia di Pioppi
nel suo Millenario (994-1994)
A cura di Amedeo La Greca
Le colline che si dipartono dalle pendici del Monte della Stella, immerse in una
lussureggiante macchia mediterranea, volgendo a Mezzogiorno, fanno da corona, tra balze e
valloni, a minuscoli centri abitati dalla storia millenaria: tra questi, per la
sorprendente purezza degli ambienti architettonici antichi, si distinguono Pollica,
Cannicchio, Celso, Galdo; e, degradando verso il mare, accolgono le due splendide marine
di Acciaroli e Pioppi .
La posizione geografica e l'amenità del sito fanno di questo territorio un luogo di
particolare suggestione, sia per le bellezze naturali che per le tradizioni storiche e
popolari, che qui si sono conservate con particolare genuinità.
Esso fu abitato un tempo da una popolazione leggendaria, gli Enotri, i quali - stando a
quanto raccontano alcuni storici dell'antichità greca - qui giunsero dall'Oriente e
importarono la coltura della vite, insegnando alle popolazioni autoctone la produzione del
vino. La regione perciò venne detta Enotria , cioè "terra degli
Enotri, coltivatori della vite e produttori di vino".
Questa ed altre leggende, comuni a tutta la fascia costiera del Cilento, hanno segnato il
volto di questa terra, che solo in un passato ideale sembrava aver trovato il riscatto
della sua identità: se, comunità come quella di Pioppi, in tempi recenti, non avessero
aspirato ad un posto d'onore nella realtà moderna e non avessero in tal modo dato l'avvio
ad una nuova visione dell'Essere , memore dell'insegnamento del grande
Parmenide che nella vicina Elea-Velia, elevando alla massima dignità la Scuola eleatica
di filosofia e medicina, insegnò come il Pensiero deve essere messo a
servizio del cittadino e delle debolezze umane.
E non a caso questo accostamento ideale ha trovato una sua concretizzazione nei convegni
medici internazionali (v. ultimo capitolo) che negli anni Settanta fecero balzare il nome
di Pioppi sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo.
Qualcuno allora si chiese se fosse rinata la Scuola eleatica di medicina; se non bisognava
leggere in quegli avvenimenti i segni del riscatto dell'atavico isolamento che aveva
segnato la storia dell'intero Cilento negli ultimi secoli; se non fosse scoccata l'ora per
trovare anche per Pioppi una durevole collocazione tra le mete preferite dal turismo
internazionale.
Questa aspirazione ben presto si fece strada nelle menti di molti che seppero vedere nella
Pioppi moderna la naturale continuazione della grande Elea.
E l'accostamento non era azzardato.
Infatti il litorale di Pioppi era uno dei cosiddetti "porti velini", rientrando
esso nel territorio della "kora" di Velia, cioè della regione che aveva come
suo centro la polis elièa , cioè la città di Elea.
Stando a quanto narra Strabone (1), il territorio di Elea comprendeva la fascia costiera
dall'isola di Licosa fino al promontorio di Palinuro, mentre all'interno, per difendersi
dai bellicosi Lucani, i Velini avevano fortificato le alture di Castelluccio
(Pisciotta), Catona , Nobe (Novi Velia), Civitella
(Moio), Gioi, Monte della Stella e Carpinina
(Perdifumo).
Lungo la costa vi erano numerosi approdi naturali all'interno di profonde insenature e
alla foce dei fiumi, che consentivano l'ancoraggio a grosse barche e, durante i mesi
invernali quando non si navigava, permettevano lo scariu , cioè offrivano la
possibilità di tirarle in secco, al sicuro dai marosi.
Uno di questi "portus", come in epoca romana erano chiamati tali approdi, era
quello di Pioppi, che nel Medioevo venne detto del Fico e di S. Maria
dei Pioppi .
Esso era costituito dall'ampia insenatura a nord-est della Punta del Fico, alla foce del
torrente Mortelle che, nel suo corso alto porta ancora il nome di Vallone del Fico
.
Il fiume, oggi a carattere torrentizio, a giudicare dall'ampiezza del letto nel suo corso
terminale, doveva essere un tempo ricco di acqua in quanto convogliava quelle dei piccoli
ma numerosi affluenti che venivano giù dalle colline circostanti, e sulla foce aveva
creato un ampio arenile, oggi in gran parte occupato da coltivazioni, ma in epoca
medievale ricco di pioppi.
L'insenatura antistante era ben riparata dai venti di Ponente-Libeccio, Ponente-Maestro e
Tramontana-Maestro in quanto gli scogli che costituiscono il prolungamento naturale della
Punta del Fico, oggi solo affioranti, un tempo erano emersi e si stendevano quasi fino
alla cosiddetta "Secca del bue Marino", qualche centinaio di metri al largo.
E' nota, infatti, e ampiamente studiata, l'azione del bradisismo positivo
che, secondo gli studi fatti da geofisici, avrebbe interessato "tutte le coste
dell'Italia meridionale dall'epoca della colonizzazione greca fino al XVIII secolo... che
ha portato, con l'abbassarsi della tettonica della regione, il mare a penetrare più
profondamente nelle terre. Il fenomeno, poi a partire dallo stesso XVIII secolo, si
sarebbe tramutato nel processo inverso; questo però non avrebbe restituito al territorio,
ad oggi, né quei valori altimetrici rispetto al mare né l'estensione litoranea che esso
possedeva all'epoca della venuta dei greci " (2).
Sui declivi adiacenti, verosimilmente, fin dai tempi della colonizzazione di Velia,
dovette svilupparsi la primitiva vita di un villaggio di pescatori e artigiani la cui
attività era connessa con l'ancoraggio, lo scariu e la riparazione delle
imbarcazioni.
Da una testimonianza scritta della fine del secolo scorso (3) apprendiamo che al largo
della spiaggia di Pioppi vi fu rinvenuto un grosso anello inserito in una colonna di
piperno, come quelli usati per legarvi le gomene delle imbarcazioni all'attracco; mentre
testimonianze orali parlano di muri di contenimento realizzati con grossi blocchi lungo il
torrente Mortelle, riciclati poi per la costruzione del ponte e di recente come fondamenta
per qualche abitazione.
L'esistenza nella località di un porto di una certa importanza, la lasciano intendere
anche alcuni autori classici. Il brano più completo è di Appiano (4) il quale narra di
una brutta avventura accorsa ad Ottaviano, il quale nella primavera del 36 a.C., partito
da Pozzuoli alla vota della Sicilia, fu sorpreso da una tempesta e fece a tempo a
rifugiarsi in questo porto, salvando in parte la flotta. Ecco il testo:
"Cesare, all'inizio della tempesta, si era rifugiato nel golfo di Elea, che era
ben protetto, eccettuata una sola exere che andò perduta presso il promontorio. Un vento
di Libeccio essendo succeduto a Noto, il golfo fu investito dalle ondate essendo aperto
verso Occidente, e non era possibile uscir fuori contro il vento che soffiava contro il
golfo né remi né ancore potevano tener ferme le navi, ma esse venivano sbattute o l'una
contro l'altra o contro gli scogli. E per la sopraggiunta notte il disastro era ancora
più grave. Quando la tempesta cessò, Cesare seppelliva i morti, curava i feriti, faceva
rivestire quelli che erano sfuggiti a nuoto e li armava con altre armi e riparava l'intera
flotta con i mezzi disponibili. Gli erano state distrutte sei delle navi maggiori,
ventisei delle minori e ancor più delle liburniche. E per queste riparazioni egli dovette
impiegare trenta giorni (...). Riparava le navi con sollecitudine avendole tratte a terra
(...). Pompeo (...) mandò Menodoro, con le sette navi che aveva condotto, a spiare gli
arsenali di Cesare e a far contro di essi quello che poteva. (...) Precipitandosi, non
previsto, come un fulmine sulle navi che proteggevano le flotte di Cesare in costruzione e
ritirandosi, sparendo, si impadroniva di due e anche tre per volta delle navi guardiane, e
quelle da trasporto, che portavano frumento, ferme agli ormeggi o in mare, affondava o
catturava o dava alle fiamme. Ogni cosa era in piena confusione a causa di Menodoro,
mentre Cesare ed Agrippa erano ancora lontani: quest'ultimo era in movimento per
raccogliere legname. Una volta Menodoro, per sfida e per disprezzo del nemico, fece
volontariamente incagliare la nave in un banco di fango molle e simulava che fosse
trattenuta dalla sabbia, finché, mentre gli avversari si precipitavano giù dai monti
verso di lui come a una preda pronta, faceva retrocedere la nave e se ne andava fra le
risa, e scorno e stupore dominavano l'esercito di Cesare".
Da questo brano emergono gli elementi essenziali che illustrano come poteva essere
organizzato il porto del Fico in epoca greco-romana: attrezzato per l'ormeggio e la
riparazione delle navi, con molti nuclei umani che abitavano le colline circostanti,
capace di fornire assistenza a parte di un grosso esercito. E di certo esso rientrava in
quel sistema commerciale, creato dai Velini, che, come è noto, permetteva loro la
costruzione, la vendita e il noleggio di navi da trasporto. I navicularii
(armatori) di Velia furono attivi fino al VI secolo d.C. quando ancora erano in grado di
trasportare grano per conto dell'imperatore fino in Gallia (5).
Fu certamente la guerra gotico-bizantina (535-553) e la successiva caduta di Velia ad
opera del longobardo Zottone (571-591) che determinarono anche il momentaneo abbandono di
quel porto. Infatti Velia, avendo perduto il suo vescovo che all'epoca era anche il
rappresentante civile dell'impero bizantino in Italia, veniva ad essere priva dell'unica
ed ultima autorità capace di organizzare la vita politica, sociale, civile, oltre che
religiosa, della regione.
La guerra, dunque, e l'arrivo del Longobardi provocarono la totale desolazione del
territorio, come è riferito in una nota lettera del papa Gregorio Magno indirizzata a
Felice vescovo di Paestum, ma residente ad Agropoli con la quale il Pontefice ordinava al
presule di visitare quelle terre il cui vescovo era stato ucciso, di riorganizzare le
comunità cristiane e di recuperare gli arredi sacri trafugati (6).
Ma bisognerà attendere il secolo successivo prima che cominciasse ad affiorare una prima
ripresa, con l'immigrazione di monaci greci, ai quali si deve la nascita di una nuova
civiltà. Protetti nelle zone interne dai duchi longobardi, che vedevano in essi l'unica
possibilità per il dissodamento e la coltivazione della terra, e protetti lungo la costa
dalla sempre vigile flotta bizantina, costoro riuscirono ad avviare la rinascita del
territorio. Dissodavano terreni, ricercavano fonti di acqua e accoglievano i profughi,
dando loro la possibilità di coltivare le terre che i duchi longobardi concedevano;
iniziarono anche un piccolo commercio servendosi dei vecchi approdi. Le loro attività e
le comunità che ad essi facevano capo, trovavano il punto di incontro nelle cosiddette edicole
, cioè piccoli luoghi di culto che costituivano anche il centro della vita sociale ed
economica, nelle quali essi veneravano un santo orientale e la Madonna sotto il titolo di Odighitrìa
, cioè "che guida il cammino", che li aveva guidati nel loro viaggio
dall'Oriente.
La crescita di questi nuclei prosperò fino alla metà del IX secolo quando a Licosa e ad
Agropoli si insediarono i Saraceni.
Furono quelli anni terribili per le popolazioni locali perché costoro saccheggiarono
quasi tutti i villaggi costieri tra il Solofrone e l'Alento per rifornirsi periodicamente
di vettovaglie: i sopravvissuti cercarono rifugio tra le balze dei monti più remote;
financo la fortezza di Lucania che sorgeva sul Monte Cilento (oggi Monte della Stella)
venne distrutta.
Alcuni documenti conservati presso la badia di Cava (7) descrivono questo stato di
abbandono, tanto che il vescovo di Paestum, Pandone, cui quelle terre appartenevano, alla
prima occasione, nel 977, le vendette a dei mercanti di Atrani che le presero per conto
del principe di Salerno Gisulfo I (8). Le mire degli atranesi non erano rivolte alle
terre, semiabbandonate ma ai porti: ve ne erano ben nove in quella breve fascia costiera,
e tra questi anche quello del Fico. Tutti rappresentavano il punto di sbocco dei cenobi
greci che sulle colline interne avevano avviato una florida attività agricola e
artigianale, per le quali ora si cercava uno sbocco di mercato. Sant'Arcangelo, S. Magno,
S. Zaccaria, S. Gregorio, S. Maria di Pattano erano quelli che erano stati adocchiati
dagli atranesi e coi quali volevano intrecciare rapporti commerciali.
Anzi uno di questi cenobi, quello di S. Magno (attuale San Mango Cilento), fu il primo
beneficiario della clementia dei principi longobardi di Salerno, Giovanni e
Guaimario, i quali lo concessero all'abate Andrea insieme alle chiese di S. Primo di
Cannicchio, di S. Fortunato, di S. Maria di Campo Rosso e di S. Maria dei Pioppi
. Tale concessione fu confermata nel mese di giugno dell'anno 994 (9) dagli stessi
principi i quali con tale atto ufficiale ribadivano i diritti e i privilegi del cenobio e
ne specificavano i confini delle pertinenze. Ecco la traduzione:
Noi Giovanni e Guaimario signori gloriosissimi, per elargizione della divina
clemenza principi della stirpe dei Longobardi, concedemmo a te Andrea venerabile abate il
monasterio detto di san Magno, che è costruito nella località Turano del distretto di
Lucania, pertinenza del nostro principato di Salerno, con abitazioni, celle, codici, panni
ed animali, tutto pertinente al predetto monastero, unitamente a vigne, terre incolte,
selve e castagneti, tutti appartenenti all'anzidetto monastero, e con le chiese ovviamente
ad esso soggette, San Primo di Cannicchio, san Fortunato, Santa Maria di Campo Rubo e Santa
Maria dei Pioppi , con questa confinazione: iniziando dalla parte d'oriente,
proprio dalla dorsale dalla stessa strada di Cilento, discende nel medesimo corso d'acqua
che corre già nei terreni di San Felice e, attraverso lo stesso corso d'acqua dove si
trovano propriamente i mulini, va nel fiume di Lustra e, piegando verso Settentrione e
risalendo per lo stesso fiume di Lustra, va nello stesso fiumicello che discende da San
Fabiano, fino ai confini di San Fabiano e, salendo per i medesimi confini di San Fabiano e
percorrendo lo stesso vallone, sale proprio sul ciglio del monte e va sulla strada stessa
che va a Cilento; discende poi nel territorio dei Vatollesi e prosegue lungo le pietre
stesse che segnano il confine di Vatolla e va proprio sulla via che viene da Vatolla;
piegando poi verso Occidente, proprio per il vallone presso la medesima via, discende
nello stesso fiumicello e, salendo nello stesso borgo fortificato di Vatolla, prosegue in
linea retta per il medesimo filo di cresta fino alla via che porta a Sant'Arcangelo e,
piegando per la stessa via fin proprio al vallone d'acqua corrente, volgendo a Mezzogiorno
e salendo sulla strada che porta a Cilento, in questo modo sale per la stessa strada fin
proprio alla sorgente; prosegue poi per la stessa via fino al medesimo pianoro del
castello Melilla e sale proprio per la via della stessa cresta fino alle medesime pietre
del primo confine e similmente concedemmo a te predetto abate Andrea i mulini che
appartengono allo stesso monastero e sono costruiti proprio nei corsi d'acqua, con le
entrate e le uscite degli stessi mulini. Queste cose infatti, tutte sopra elencante,
concedemmo a te abate Andrea perché in sicurezza e stabilmente tu le abbia, le domini, le
possieda e ne tragga il frutto assieme ai tuoi successori in ogni tempo, e dei frutti
facciate tutto ciò che volete, e quanto alle terre e alle selve appartenenti allo stesso
monastero... quanto alle vigne, abbiate fin d'ora facoltà di darle a lavorare ed a trarne
frutto alle persone per parte dello stesso monastero, naturalmente con questo criterio,
che non vi sia perdita per il medesimo monastero; non abbiate inoltre dai nostri giudici,
conti, gastaldi o ministeriali da ora in poi alcuna interferenza, ma per sempre con titolo
sicuro teniate, possediate, dominiate e mettiate a frutto quello con il predetto criterio,
al di fuori di tutte ingerenze dello Stato o di qualsivoglia persona.
Nell'undicesimo anno di principato del signore Giovanni, principe glorioso, e nel sesto
anno di principato del signore Guaimario suo figlio, principe glorioso, nel mese di giugno
della settima Indizione.
Si tratta di un documento di grande importanza per Pioppi: è infatti quello in
cui ne viene menzionato per la prima volta il nome , anche se il toponimo si
riferisce alla località e non propriamente ad un centro abitato.
Il toponimo odierno di Pioppi chiaramente fa riferimento agli alberi di tal nome che,
almeno nel Medioevo, coprivano rigogliosi le sponde della foce del torrente Mortelle, come
in parte ancora oggi. L'origine del toponimo è, dunque, dal medievale "pluppi"
(o "ploppi"), a sua volta per metatesi da "poplus", forma sincopata
dal latino "populus" (10); da una cattiva trascrizione in documenti del basso
Medioevo, troviamo "cloppi" e "chioppi", da cui poi il toponimo in
dialetto "Chiuppi".
Ma ci piace cedere alla tentazione di rendere "classica" l'etimologia di tale
toponimo rifacendoci ad una "grecità ideale" sulle orme di Gerhard Rohlfs che
con coraggiosa convinzione, sostenne la sopravvivenza del greco classico nel dialetto del
Cilento (11). Se consideriamo che il litorale di Pioppi era un porto ove, come abbiamo
visto, si fermò Ottaviano per riparare le navi danneggiate, necessari erano i lavori
connessi con l'ancoraggio, lo scariu e la riparazione delle imbarcazioni, e
ciò potrebbe trovare conferma nella principale attività della vicina polis di
Elea-Velia, i cui navicularii (armatori) ressero il mercato della costruzione
di navi almeno fino la VI secolo d. C. In taluni documenti medievali troviamo il nostro
toponimo trascritto anche in "pluporum" e "pluppulorum" (12) che
potrebbe essere la traslitterazione e fusione di due termini greci, "plous", che
vuol dire "navigazione", e "oplon", "attrezzo navale";
quindi il toponimo potrebbe essere spiegato così: là dove si costruiscono attrezzi
navali.
Se forzata e fantasiosa può sembrare questa etimologia (non ha certo valore scientifico),
certo essa corrisponde alla tradizione antica del luogo, ben inquadrata nell'ambito dei
"porti velini", ove l'industria dei navicularii costituì la
fortuna economica di Velia.
Ma riprendiamo il nostro "racconto": dicevamo sopra che il toponimo di
"Pioppi" citato per la prima volta nel 994, si riferisce alla località e non ad
un centro abitato.
Essendo nel detto documento specificamente menzionata una chiesa individuata appunto col
nome, o meglio con la caratteristica, della località, va osservato che il termine
"chiesa" nell'alto Medioevo indicava una struttura socio-economica, con terreni
annessi coltivati da contadini (servi della gleba) che facevano capo ad un luogo di culto;
tale territorio era delimitato giuridicamente da confini precisi ed era detto
"tenimento".
Nel suddetto documento non è indicato il luogo preciso dove era eretto il luogo di culto,
né se fosse un vero e proprio edificio: essendo ciò irrilevante ai fini della donazione,
per la quale contava la consistenza e la rendita dei terreni annessi. Ma riferendoci ai
toponimi antichi sopravvissuti nella toponomastica catastale, esso probabilmente sorgeva
sul corso terminale del torrente Mortelle, a monte della riva destra, lungo la vecchia
"Via pubblica" che viene da Pollica, ove ancora è conservato il toponimo di Santa
Maria ; doveva essere alquanto lontano dal mare per sfuggire ad eventuali assalti
di pirati, ma non tanto da impedire un agevole accesso all'approdo sottostante, che
restava sotto il controllo degli atranesi, in pratica apparteneva al principe di Salerno.
Era facile da qui accedere al cenobio di S. Magno risalendo il torrente Mortelle e il
Vallone del Fico, costeggiando poi le pendici est del Monte della Stella; e di lì
trasportare i prodotti artigianali della terracotta o quelli dell'agricoltura, specie il
vino e le castagne, o le pelli di capra conciate: tutti destinati al mercato di Salerno,
servendosi dell'approdo alle foci del torrente che col passare degli anni divenne sempre
più trafficato.
Che questo porto fosse di vitale importanza, ci è confermato da un documento del 1047
(13), col quale il principe di Salerno Guaimario V, nella divisione dei beni patrimoniali
della Corona (parte di quelli acquistati tramite gli atranesi nel 977) con i suoi due
fratelli Guido e Pandolfo, lo faceva includere nella quota a lui spettante dal suo fido
rappresentante Romualdo. In quell'atto i confini vennero indicati con precisione: la parte
che toccò al principe iniziava dal fiume dei Pioppi (cioè l'attuale
torrente Mortelle) e comprendeva le terre costiere fino a Duoflumina (attuale
Marina di Casalvelino), all'interno raggiungevano a nord una linea quasi retta tra il
Vallone del Càfaro e la chiesa di S. Michele (Acquavella).
Ricadeva quindi nelle proprietà patrimoniali del principe non solo il porto propriamente
detto del Fico o di S. Maria dei Pioppi , ma anche l'altro
equalmente importante detto "ad Duoflumina", attiguo al quale - è detto con
chiarezza nel documento - esisteva un piccolo lago.
In pratica il principe si assicurava il controllo di due porti importanti attraverso i
quali venivano commercializzati i prodotti dei cenobi greci dell'entroterra.
La caduta dei principi longobardi di Salerno (seconda metà dell'XI secolo) segnò anche
la fine della loro fortuna. I nuovi padroni, i Normanni, artefici di un'abilissima e
decisa diplomazia con la chiesa di Roma, predilessero i benedettini e la cultura latina a
danno di quella greca. Per cui la loro benevolenza si rivolse alla badia di Cava (fondata
nel 1012), la quale ben presto estese il suo dominio sui cenobi greci.
Quello di S. Magno, con tutte le sue pertinenze, compresa la chiesa di S. Maria dei
Pioppi, divenne benedettino nel 1067: ma non l'approdo sottostante che, come sopra detto,
era un bene patrimoniale della Corona e perciò passò di diritto ai nuovi padroni di
Salerno.
Di lì a qualche anno l'ultimo conte longobardo di Magliano, Guiselgardo, nel vestire
l'abito monastico nella badia di Cava, su richiesta dell'abate Leone I, faceva voto di
dotare la chiesa di S. Maria dei Pioppi di tutto il necessario per l'esercizio del culto e
per una migliore condizione delle terre annesse (14): sarebbe stata questa la sua
"dote" per accedere alla vita monastica, come allora era in uso. Guiselgardo era
ancora vivo nel 1074 benché avanti negli anni e in possesso del suo feudo quale unico
erede senza prole (15); non si conosce l'anno preciso della sua vestizione né quello
della morte.
Forse fu proprio questo avvenimento che determinò la formazione e l'incentivazione di un
villaggio vero e proprio nei pressi del vecchio luogo di culto, ma nettamente da questo
staccato, secondo l'uso del tempo e come appare chiaramente nella struttura dei paesi
coevi o più antichi (es. Galdo, Celso, San Mauro, ecc.).
Di questo villaggio, detto ad Pluppis , si ha una prima notizia nell'anno
1110 (16), quando la badia di Cava lo acquistò per 1800 soldi d'oro da Guglielmo II,
conte del Salernitano Principato.
Nel 1113 l'atto di acquisto fu confermato da Torgisio Sanseverino, nuovo feudatario e
barone di Cilento, con un istrumento rogato a San Mauro (17).
Alcuni anni dopo, nel 1121, a causa dei numerosi abusi che i feudatari normanni usavano
perpetrare ai danni dei beni ecclesiastici, la badia si vide costretta a richiedere la
conferma del possesso del villaggio e della chiesa di S. Maria da li Pluppi (18).
Nel giudizio convocato alla presenza dei relativi rappresentanti dei contendenti, fu
ascoltato come testimone un certo Pardo Caccabello il quale affermò sotto giuramento che
quella chiesa "integram" (cioè con i terreni annessi) apparteneva alla badia.
Per tale testimonianza, Pardo ricevette "pro beneditione" un compenso di 40
tarì salernitani. Nel documento sono inoltre indicati i diritti di guadia ,
cioè la garanzia che i terreni sarebbero stati migliorati.
Nel 1123, in seguito alla fondazione del castello dell'abate (oggi Castellabate), tutti i
possessi della badia di Cava nel Cilento, vennero messi sotto il diretto controllo di
questo. Anche la chiesa di S. Maria e il villaggio di Li Cloppi , insieme ad
altri tredici nuclei abitati, passarono alle dipendenze del Castello, abilmente gestito e
difeso dai monaci benedettini, che all'occorrenza non disdegnavano di imbracciare la spada
o l'aratro. Arrise, allora, a queste terre una se pur breve notevole floridezza.
Gli abitanti consegnavano annualmente le rendite tramite un notaio, il quale le rimetteva
direttamente nelle mani dell'abate. Nel 1261, come apprendiamo dai registri dell'abate
Tommaso, la somma consegnata per conto della chiesa e del villaggio di Li Cloppi era di
tre once d'oro.
Tutto questo benessere fu bruscamente interrotto di lì a qualche anno: la guerra del
Vespro (1282-1302), che si abbatté su tutto il meridione d'Italia portando ovunque morte
e distruzioni, non risparmiò Pioppi. Nel 1290 fu interamente distrutto (19) ad opera
degli Almugaveri, truppe mercenarie al soldo degli Aragonesi che l'anno precedente avevano
preso il Castello dell'Abate, dal quale con improvvise sortite si procuravano le
vettovaglie mettendo a ferro e fuoco le terre appartenenti alla chiesa o ad enti
ecclesiastici.
Quando nel 1302 la pace di Caltabellotta metteva fine alla guerra, dei circa 5000 abitanti
delle terre di Castellabate, appena un migliaio ne erano sopravvissuti. Oltre a Pioppi,
erano stati interamente distrutti: Perdifumo, S. Mango, S. Lucia, Acquavella, Casalicchio
(oggi Casalvelino), S. Mauro, Serramezzana, Tresino, S. Giorgio, S. Primo, Casacastro, e
la stessa fortezza di Cilento, sull'omonimo monte (oggi M. della Stella): questi ultimi
cinque non risorsero mai più.
Un episodio accaduto nel 1312 ci dice con chiarezza in quali condizioni era il territorio
di Pioppi. All'epoca il suffeudatario del luogo era Sighenolfo Capograsso di Salerno che,
sul piccolo promontorio ad est dell'attuale centro abitato, aveva costruito un'abitazione
fortificata. Costui aveva poi fittato il fondo ad un certo Domenico di Giacomo, di
Castellabate, il quale, appena ne ebbe preso possesso, rendendosi conto dello stato di
abbandono delle terre ormai incolte e praticamente deserte di contadini, subito vi
rinunciò ritenendo di essere stato ingannato (20).
Negli anni successivi si ripetettero i tentativi di fittare quelle terre, ormai
abbandonate anche dal vassallo Capograssi.
Nel 1338 la badia tentò di allettare altri possibili fittuari mettendo a disposizione un
bellissimo fondo ove un tempo fioriva un grande vigneto, aggiungendo anche altre terre per
il prezzo complessivo di due grani d'oro e quindici di rame (basso per quei tempi) da
pagarsi una volta all'anno. Risposero quattro "homines" (cioè persone non
vincolate da legami di servitù) uniti da un patto di cooperazione (detto soccia
o socia ): Giovanni Pignataro, Enrico di Gentile, Nicola di San Mango e
Angelo Villampa. Anche costoro, dopo il primo sopralluogo, protestarono vivamente per lo
stato di abbandono in cui avevano trovato quelle terre, ottenendo poi l'anno successivo
fondi anche nei tenimenti delle chiese di S. Matteo ad Duoflumina (Marina di
Casalvelino) e di S. Giorgio, nonché nei villaggi di Acquavella, Casalicchio e Massanova
(21). Sottoscrissero così un canone annuo di trentadue once d'oro e altrettante libre di
cera; il contratto sarebbe stato rinnovabile ogni cinque anni (22).
Ma quei fondi, per quanto vasti, erano destinati a restare ancora a lungo improduttivi.
Nel 1352 la socia di quei quattro coloni vi rinunciò. Infatti in quegli anni
una serie ininterrotta di sventure si abbatté sul territorio e sull'intera regione.
Si era aggravato il fenomeno delle bande armate che scorazzavano per i fondi depredando i
raccolti, scoraggiando perciò i pochi contadini ad abitarvi stabilmente. Costante era
altresì il pericolo di assalti pirateschi dal mare e gravosa era la pressione fiscale
tramite le cosiddette "regie collette", cioè periodiche raccolte di denaro
ordinate dalla Regia Corte di Napoli.
A tutto ciò nel 1343 si aggiunse una tremenda carestia che ridusse alla fame i pochi
contadini rimasti e nel 1347 un maremoto sconvolse tutte le coste del Tirreno, provocando
l'inizio dell'insabbiamento dei porti e favorendo in tutta la piana di Duoflumina
il dilagare della palude, ormai non più contenuta dalla forza di lavoro. Sulle pendici
delle colline circostanti si diffuse l'infezione causata dalla malaria, una malattia fino
ad allora sconosciuta trasmessa probabilmente dalle frequenti truppe di passaggio. Il
contagio durò per tutto il 1348, come in altre zone d'Italia, e quando sembrava che
stesse per terminare, l'anno successivo un terremoto sconvolse le misere abitazioni dei
villaggi collinari, ormai semideserti (23).
Lo stato di disperazione delle scarne popolazioni locali, lo si desume anche da un
episodio capitato sul litorale nel 1352. Al largo naufragò una nave veneziana: gli
abitanti del luogo si precipitarono sulla spiaggia e depredarono con ferocia tutto ciò
che fu possibile (24).
Sembra che la zona abbia avuta una leggera ripresa a partire dal 1358. Da quest'anno,
infatti, come risulta dai registri dell'abate di Cava, Maynerio, vengono annotate piccole
rendite dai fondi di Li Pluppi .
Ma ben presto altre calamità ne impedirono il decisivo decollo. Le bande di malviventi
ripresero a scorazzare; il pericolo dei pirati, soprattutto quelli catalani, era in
recrudescenza e nel 1383 la popolazione fu dimezzata da una nuova pestilenza, che si
ripeté poi nel 1401, aggravata anche da un altro terremoto (25). E' probabile che sia
stata proprio quest'ultima calamità che costrinse i sopravvissuti ad abbandonare
definitivamente la località "S. Maria", ormai interessata da una frana di vaste
proporzioni, cosa che perdura ancora oggi.
E' probabile che essi riedificassero le loro casupole a nord-est della foce del torrente
Mortelle, su una piccola altura, impreziosita da un'abbondante sorgente d'acqua, che
poteva essere difesa facilmente non solo per la natura del luogo, ma anche avvalendosi
della vecchia torre dei Capograssi; una serie di sentieri permetteva un agevole accesso al
litorale sottostante.
Ci induce ad avanzare questa ipotesi il fatto che il luogo nella toponomastica popolare è
detto ancora oggi Borgherello , cioè piccolo centro abitato fortificato (il
termine deriva dal latino tardo-medioevale "burgus" che vuol dire appunto
"abitato fortificato"). D'altra parte questa ipotesi è avvalorata anche dalla
tradizione orale antica, riportata da un erudito scrittore di Pollica, D. Giuseppe Volpe,
in un suo pregevole scritto del 1888 (26). Quindi Borgherello poteva essere
il piccolo centro abitato fortificato, mentre Li Pluppi era il nome antico
della zona di sua pertinenza.
Nel 1412 tutte le terre possedute dalla badia di Cava nel Cilento furono cedute dal Papa
al re Ladislao per estinguere un debito di guerra: anche Li Pluppi passò
alla Corona, alla cui diretta dipendenza restò fino al 1484, quando venne concesso come
feudo da re Ferrante a Giovanni di Cunto.
La zona, ormai denominata nei documenti semplicemente Chiuppo (27), proprio
in quest'epoca sembra aver ripreso la sua vita prevalentemente agricola. Nel 1488-89
rendeva alla Corona come tassa annuale circa sei ducati in danaro e quattordici tomola di
grano (28).
Ma evidentemente il di Cunto non ne ricavava abbastanza perché di lì a qualche anno
vendette l'intero feudo (che comprendeva anche Casalicchio, Acquavella e Massanova) ai
Curiali (Correle), nuovi baroni di Casalvelino, i quali ne conservarono la titolarità
fino al 1591 (29).
Dal punto di vista giuridico il Borgherello e le terre annesse non avevano
ancora acquisito la dignità di "casale", cioè di un nucleo abitato autonomo di
una certa consistenza i cui abitanti potevano coltivare le terre limitrofe e facevano capo
ad una chiesa per l'assistenza religiosa. Perciò nel primo censimento di cui abbiamo
notizia relativamente al Cilento, avvenuto nel 1489, di Chiuppo non si parla
e i pochi abitanti del Borgherello e delle terre annesse furono censiti
unitamente a quelli di Casalicchio, ma nessuna indicazione accanto ai nomi ci permette di
distinguerli (30). Così nessuna notizia diretta si ha del contagio (vaiolo) del 1508 che
ridusse di circa la metà la popolazione del Cilento (31). Possiamo solo intuire che anche
il Borgherello abbia subito la stessa sorte e forse, come altri villaggi, non
si riprese mai più, privando così dell'unica difesa anche il litorale e le terre
circostanti.
Intanto un'altra calamità si abbatteva sulle coste del Tirreno, impedendovi ancora per
circa cinquant'anni lo stanziamento di famiglie, anzi allontanandone quelle poche che
osavano avventurarvisi: a partire dal 1515 i pirati Barbareschi, partendo dai loro covi
del litorale africano, periodicamente piombavano su quello cilentano saccheggiando e
traendo come schiavi gli uomini validi e le donne di bello aspetto.
Per combattere questa calamità, nel 1537 il viceré di Napoli, Toledo, ordinò di
riattivare tutte le vecchie torri di difesa e fece progettare la costruzione di nuove.
Abbiamo accennato sopra che agli inizi del XIV secolo Sighenolfo Capograssi di Salerno,
all'epoca in cui era suffeudatario de Li Pluppi per conto della badia di
Cava, vi aveva edificato una sua abitazione fortificata ad est dell'approdo. Il modo come
era denominata questa costruzione, cioè "torre dei Capograssi", era
sopravvissuto nei secoli, tanto che quando il viceré nel 1537 ordinò di organizzare la
difesa del litorale, essa venne inclusa tra quelle che potevano essere subito riattivate e
col nome di torre dei Capograssi o torre dei Pioppi , fu poi
interamente ristrutturata nel 1567, quindi messa alle dipendenze dell'Universitas
di Casalicchio, cioè del governo civico costituito dai rappresentanti dei cittadini
abbienti. L'appalto per la costruzione fu preso da un certo Angelo di Stasio, di Cava de'
Tirreni, con i "soci" e "mastri di pietra" Fabio e Pietro di Baldo,
Federico di Sio e Lorenzo de' Marinis. I lavori, benché definiti di massima urgenza,
furono ultimati solo dopo più di vent'anni e come primo "torriere" fu designato
Martino di Martino. Altri torrieri negli anni successivi furono Fasano dello Scacco
(1605), Paolo Cammarota (1664-68), Gioacchino di Novella (1718), Giovan Carlo de lo
Schiavo (1727) (32).
Verso la fine del Cinquecento venne anche edificata la torre "guardiola" della
Punta, detta anche "di Cannetiello", sita a circa metà strada tra Pioppi e
Acciaroli. Di questa appena affiorano pochi ruderi tra i rovi; doveva servire il principe
di Pollica, ma era anche in grado di mettere in comunicazione le torri di difesa dei due
litorali. Conosciamo anche il nome di due torrieri che vi abitarono con le loro famiglie
nel 1614, cioè Pietro e Domenico Sernicola (33).
In effetti le due torri avrebbero dovuto costituire la difesa del porto del Fico, che da
quest'epoca è detto nei documenti semplicemente dei Pioppi , che andava
riprendendosi lentamente. La relativa sicurezza che esse offrivano, permisero ad alcuni di
vivere sul litorale.
Le prime famiglie (siamo agli inizi del Seicento) furono quelle dei torrieri e del tavernaro
, cioè una specie di doganiere che per conto del barone di Casalicchio, gestiva una
locanda sita in una caupona (rudimentale casa fortificata). Questa fungeva
anche da magazzino con monopolio di raccolta e vendita dei prodotti della terra consegnati
dai contadini che vivevano nei casolari sparsi sui fondi coltivati a colonìa secondo
l'uso antico.
E' difficile dire quale fosse questo primo edificio. Potrebbe essere oggi identificato in
quello di fronte all'attuale cappella del Carmine che la tradizione orale indica come la
casa più antica di Pioppi, ai margini est della piazzetta. Questo conserva ancora il
torrino di difesa cilindrico, tipico dell'architettura rurale seicentesca, ed è
vicinissimo alla torre di Capograssi.
E' possibile che nella prima metà dei Seicento sia stata edificata anche la cappella
proprio sul lido del mare, vicinissima alla torre dei Capograssi e attigua alla caupona
, se questa è da identificarsi nell'edificio sopra menzionato. Ma il nome fu diverso da
quello dell'antica chiesa: anche nella memoria, oltre che nell'azione ecclesiastica, il
culto greco della Vergine Odighitrìa era stato cancellato. Essa venne intitolata alla
Madonna del Carmine perché l'intero territorio circostante (da Casalicchio a San Mauro
Cilento) era stato oggetto di cure spirituali da parte dei Carmelitani.
Il culto della Madonna del Carmine (meglio, del Monte Carmelo), trae origine dalla visione
del profeta Elia che "contemplò la Vergine sopra la figura di una piccola nube che
saliva dalla terra verso il M. Carmelo" (34). Nell'anno 93 d.C., gli eremiti che
vivevano presso la Fontana di Elia, in Palestina, edificarono sul M. Carmelo un luogo di
culto e un romitorio, che divenne centro del nuovo ordine detto appunto "dei
Carmelitani" con regola approvata dal papa Onorio III nel 1226. Nel 1252, scacciati
dai Turchi quei monaci ripararono in Occidente sotto la guida di S. Simone Stock al quale
la Madonna, apparsa su una nube in atto di salvare le anime del Purgatorio e tenendo fra
le mani lo scapolare, aveva detto: "Ecco il privilegio che dono a te e a tutti i
figli del Carmelo: chiunque sarà rivestito di quest'abitino sarà salvo" (35).
I Carmelitani, a partire da allora, insieme ai due Ordini Mendicanti (Francescani e
Domenicani), furono attivissimi nel propagandare la fede cattolica; combatterono le
eresie, fondarono numerose confraternite e conventi ove si dedicavano all'assistenza degli
infermi e dei pellegrini; lì dove ciò non era possibile, essi si recavano fin nei luoghi
più impervi e abbandonati per predicare "missioni" ai pastori, ai contadini, ai
tagliaboschi che per il loro lavoro erano costretti a restare a lungo lontano dai centri
abitati.
Nel Cilento la loro prima comparsa sembra essere avvenuta alla fine del XVI secolo con la
fondazione di alcuni conventi o con l'acquisto di quelli abbandonati dai Francescani.
Vicinissimi al litorale di Pioppi ne sorgevano quattro: nella piana di Casalicchio (poco
distante dall'attuale chiesa nuova lungo strada che porta al Bivio di Acquavella), vi era
quello intitolato all'Annunziata, di modeste proporzioni; mentre un convento-ospizio di
maggiore consistenza era quello di S. Maria del Carmine di San Mauro Cilento, fondato nel
1594 dal carmelitano fra Cirillo di Maria, nativo del luogo. Nello stesso anno il vescovo
di Capaccio gli donava quello dell'Annunziata di Acciaroli, abbandonato dai Francescani, e
nel 1610 anche quello di S. Maria dei Martiri di Mercato Cilento. Ambedue questi ultimi
divennero dipendenze di quello di San Mauro, che nel giro di pochi anni si arricchì
notevolmente tramite lasciti e censi (36).
Lo spirito missionario proprio dell'Ordine carmelitano spingeva quei frati, come già
avevano fatto coi pastori sui monti (es. a Laurito), a ricercare anche nei luoghi più
isolati lì dove fossero anche poche persone che mancassero di assistenza religiosa. Così
quelli di San Mauro rivelarono e incentivarono la vecchia chiesa di Agnone trasformando il
vecchio titolo di "S. Maria ad Herchia" in S. Maria del Carmine, che conserva
ancora oggi; essa sorgeva attigua all'approdo di San Nicola a Mare usato comunemente dagli
abitanti di San Mauro fino a tutto il Settecento.
Così con ogni probabilità fecero quelli dell'Annunziata di Casalicchio che si spinsero
nella parte più abbandonata del feudo, sul lido dei Pioppi , fondandovi la
cappella in onore della Madonna del Carmine per l'assistenza spirituale e materiale dei
contadini e pescatori che abitavano nelle campagne circostanti.
Ciò dovette avvenire tra il 1610, anno in cui comincia la floridezza economica dei
Carmelitani di San Mauro, Acciaroli e Casalicchio, e il 1652 quando questi tre conventi
vennero soppressi per ordine del papa Innocenzo X e trasformati, quelli di San Mauro e
Casalicchio in solo ospizio e quello di Acciaroli in semplice chiesa dipendente dalla
parrocchia di Cannicchio.
La cappella dei Pioppi divenne ben presto meta di pellegrini per un quadro
della Madonna che ivi si venerava, ritenuto miracoloso e che il vescovo Jacuzio nel 1903
definirà "opus stupendam" (37).
L'afflusso di pellegrini determinò il sorgere di una piccola fiera in concomitanza con la
festa annuale che, come già era in uso altrove, si celebrava il 16 luglio.
Attorno alla cappella non sembra siano sorte altre abitazioni prima della seconda metà
del Seicento. Infatti i continui assalti di pirati turchi (i quali avevano assalito il
convento di Acciaroli nel 1620, Agropoli nel 1629 e Pisciotta nel 1640) non permettevano
la sicurezza di fisse dimore sul litorale, nonostante che le torri avrebbero potuto
difenderlo: compito che esse non assolsero mai a pieno in quanto non furono mai in
perfetta efficienza, date le continue controversie tra la regia Corte e l'Universitas di
Casalicchio per le competenze e le spese da sostenere.
Abbiamo accennato sopra che i Correale tennero queste terre fino al 1591, anno in cui le
vendettero ai Caraffa, duchi di Laurino. Nel 1613, per debiti contratti dai titolari, il
feudo fu messo all'asta e aggiudicato ai Caracciolo della Gioiosa. Da loro passò poi nel
1620 ai Damiano e nel 1634 ai Blandizio. Questi lo rivendettero ai Correale i quali dopo
solo alcuni anni, nel 1640, furono costretti a cederlo al sanguinario Giovan Battista
Bonito.
Le cronache dell'epoca riferiscono di come la folla nel 1647, esasperata per le troppe
tasse, approfittando dei fatti di Napoli che videro Masaniello a capo della città,
assalì il palazzo baronale e, catturato il feroce signore, "tagliaron crudelmente a
membro a membro su una panca da macellaio" (38).
La famiglia allora vendette il feudo allo spagnolo Michele Giovanni Gomez, presidente
della Regia Camera.
Costui era amante della magnificenza e, secondo il costume allora invalso, favorì le
famiglie spagnole che si erano stabilite nel Viceregno. Così, fra l'altro, diede in
concessione le terre dei Pioppi al capitano della guarnigione spagnola di
Pollica, Don Pedro Ripolo, incoraggiandolo ad edificarvi una dimora fortificata sul lido
del mare.
I Ripolo erano una famiglia catalana di mercanti, originaria di Ripoll (cittadina della
catalogna del nord, regione della Gerona) che si erano stabiliti a Pollica prima del 1489,
all'epoca del dominio degli Aragonesi sul regno di Napoli, loro alleati. In questo anno,
infatti, un certo Ferrante de Ripolo risulta fra gli abitanti di questo casale, unitamente
alla sua famiglia (madre, moglie e tre figli) (39).
E' possibile che essi siano approdati nel Cilento nel secolo precedente con gli altri
catalani che si stabilirono a Laurito, all'epoca in cui il regno di Catalogna, acquisita
l'autonomia, era divenuta una forza politica e commerciale di prim'ordine in tutto il
Mediterraneo occidentale (40).
Cresciuti in ricchezza, i Ripolo cozzarono negli interessi di predominio su Pollica con
un'altra famiglia spagnola, i della Cortiglia , qui stabilitasi nella seconda
metà del Cinquecento. Ambedue avevano già costrette nell'ombra le due più ricche
famiglie autoctone, i Volpe e i Farina, ed una terza, i Cantarella, immigrata dalle
Puglie. Erano poi venute a rivalità fra loro.
In questi tempi erano consueti tali fatti (si pensi all'Innominato e Don Rodrigo dei
"Promessi Sposi"!), che spesso condizionavano il potere del titolare del feudo,
nel nostro caso il principe Capano.
Della rivalità fra le famiglie di Pollica, parla anche una nota leggenda popolare che
narra di come vendette e numerosi omicidi flagellarono il paese per vari anni (41).
L'accorta decisione del Gomez otteneva così il doppio beneficio di avere una nuova difesa
sul litorale del suo feudo e di scongiurare in Pollica il pericolo di ulteriori attriti
tra due famiglie spagnole.
Ma la fortuna del Gomez tramontò ben presto. Assalito dai creditori, per ordine del
Viceré nel 1663, fu costretto a mettere all'asta il suo feudo di Casalicchio. La
tradizione orale narra che anche i Ripolo dovettero cedere i fondi e la nuova dimora dei
Pioppi per pagare debiti di gioco contratti in una sola notte! Evidentemente il
destino di questa famiglia seguì quello del suo protettore e il racconto popolare
puntualmente ne accomuna le motivazioni e la sorte.
Il castello - così è ancora oggi chiamato dal popolo dell'edificio - con le
terre annesse divenne allora di diritto patrimonio feudale dei principi Capano di Pollica
in quanto il loro feudo era una "regia concessione", quindi godeva fra l'altro
del diritto di prelazione sui beni dei sudditi; invece il resto del feudo dei Gomez venne
riacquistato dai Bonito.
I Capano, come già avevano fatto per Acciaroli, incentivarono l'approdo del Fico
(facilmente raggiungibile da Pollica), la taverna e la fiera, favorendo la costruzione di
nuovi edifici sul litorale dei Pioppi . Tra le prime famiglie di Pollica che
vi stabilirono furono gli Scarano e i Notaro, nella convinzione che la torre e soprattutto
il "castello" avrebbero potuto tenere lontano gli assalti dei pirati, non certo
per la loro consistenza (i cannoni di quest'ultimo sono fittili e la torre non fu mai bene
armata), bensì almeno per il loro spetto imponente. Ma non fu così.
La sera del 17 giugno 1734 avvenne un ennesimo assalto di pirati. Il notaio Gaiola,
governatore di Celso, così lo annota nella sua cronaca di famiglia: "In questo
anno li Turchi si son fatti fortemente sentire in questo mare Mediterraneo. Il giorno 17
giugno ascero la sera con una galeotta nella marina dei Pioppi dalla quale furono
bravamente scacciati da Domenico Scarano ed altri, che trovavasi a difesa e a guardia di
una sua piroga, e si spararono molte schioppettate, e spingendo da una parte e l'altra
parte e dato fuoco al cannone della barca, la galeotta si ritirò: quale scompiglio fu
causa di essa notte di far sonare ad arme per tutte queste tre terre, Pollica, Cannicchio
e Celso " (42).
Anche la cappella era passata nella giurisdizione ecclesiastica della parrocchia di
Pollica. Dai verbali della visita pastorale del 14 novembre 1728 fatta dall'abate Romano
per conto del vescovo di Capaccio, Odoardi, apprendiamo che il prelato, dopo aver
pernottato a Pollica, si recò ai Pioppi per visitare "la Cappella di S.
Maria del Monte Carmelo centro di grande devozione sita sul lido del mare vicino alla
taverna" (43). Costui riscontrò delle irregolarità nella gestione dei culto e il dolium
, cioè il contenitore del vino per la celebrazione della messa era vuoto. La cappella,
difatti, restava sempre aperta per permettere ai passanti di fermarsi a venerare il quadro
della Madonna; ma spesso viaggiatori vi trascorrevano la notte. L'abate ordinò che la
porta restasse sempre chiusa e che la cappella fosse usata solo per le preghiere e i riti
religiosi.
Nel corso del Settecento, Pioppi (come ormai era definita la località nei
documenti), si sviluppò lentamente. La fiera annuale del Carmine si incrementò grazie
anche all'approdo attiguo che cominciava ad essere frequentato da grosse barche da carico
(tartàne ) che prelevavano vino e olio prodotto nelle ubertose campagne
circostanti e lo trasportavano a Salerno, a Napoli e financo in Sicilia, da dove poi
importavano zolfo e sale. Anche la pesca, soprattutto quella delle sarde e delle alici,
che venivano messe in gran parte sotto sale e vendute nei paesi dell'interno, era
abbondante.
Ma nuove calamità erano in agguato. Dal libro di famiglia del già citato notaio Gaiola
di Celso, apprendiamo che nel 1753 una barca da carico proveniente dalla Sicilia aveva
portato il contagio di "febbri con flussioni catarrali " che già
in quell'isola aveva mietuto molte vittime. Le autorità di Pollica cercarono di arginarlo
predisponendo un cordone sanitario con vigilanza armata lungo la costa. Fu affidato
l'incarico a D. Nicola Grimaldi il quale giunse sulla zona il 17 giugno. Subito mise in
atto misure di sicurezza molto severe: dislocò i soldati lungo la costa, al comando del
capitano Luigi Grasso che pose residenza ad Acciaroli; l'ordine era di non far attraccare
nessuna barca che provenisse dalla Sicilia e che si provvedesse a controllare, da parte
dell'Universitas vicine, quanti uscivano fuori per motivi di commercio. Pur tuttavia il
contagio penetrò e ne furono accusati gli "eletti" dell'Universitas di Celso,
Francesco Ripolo, Romano Mottola e Giuseppe Uzzo, che il capitano fece arrestare e poi
rilasciare dietro il pagamento della cauzione di 18 carlini. I soldati rimasero sul posto
fino al marzo dell'anno successivo, quando furono richiamati per essere impiegati a Napoli
"sotto qualche sospetto di invasione ". Costoro, durante quell'anno
che avevano stazionato lungo la costa, avevano estorto ogni genere di prima necessità
alle popolazioni; "detti soldati hanno fatto delle estorsioni grandissime
- continua il notaio Gaiola - hanno travagliato continuamente le povere Università,
estorquendone danaro, farina, regali ed ogni bisognevole " (44).
Non meno grave fu la carestia del 1764 che imperversò per tutto il Cilento. Nella cronaca
di famiglia di Fabio Donnabella, di Valle Cilento, leggiamo che da Pioppi dovevano
transitare delle "retine", cioè barche da pesca di media grandezza, provenienti
dalla Basilicata ove si erano recate a prendere il grano. La gente attese pazientemente il
loro arrivo e quando le videro in lontananza "andarono loro incontro fuori li
Pioppi, ed oh, che dolore si provò da tutti quando si viddero venire vacue e dovevano
mangiare il pane a cartelle " (45), cioè distribuito razionato dalle
autorità.
Ma cessata questa ennesima calamità, Pioppi si riprese con rapidità. Già nel 1783 vi
approdavano "tartàne" genovesi, dalle quali si servivano i De Marsilio,
commercianti e conciatori di Vallo, per importare cuoi e, nel viaggio di ritorno, le
utilizzavano per esportare olio e seta (46).
A differenza delle piccole imbarcazioni che si servivano come approdo della spiaggia
antistante la cappella - come ancora oggi - le "tartàne" usavano il vecchio
porto del Fico, cioè il lido alle foci del torrente Mortelle, come ci testimonia Filippo
Rizzi, di Ascea, in un suo pregevole scritto, descrivendo il suddetto porto. Ecco il
testo: "Viene naturalmente riparato da una punta. Ha buon fondo, e dà un
sicuro asilo ai bastimenti: con venti di ponente-libeccio, ponente-maestro,
tramontana-maestro. Può contenere molti bastimenti da guerra ed è di somma importanza.
Difatti non solo nel litorale del Cilento, ma in tutto quello della Calabria non vi è
alcun porto, dove si possa restar sicuro coi nomati venti. Solamente questo offre simili
incalcolabili vantaggi. E' lontano da Palinuro diciotto miglia. L'uno è nella prospettiva
dell'altro. Quando nel porto di Palinuro è traversìa, in quello del Fico si rinviene la
massima sicurezza " (47).
Nel 1795, estintosi il ramo diretto dei Capano, dopo alcuni anni di controversie per
ragioni ereditarie, il feudo di Pollica passò ai De Liguoro (1801), ai quali restò fino
all'eversione della feudalità decretata dai francesi del Buonaparte, nuovi signori
dell'Italia meridionale. Tra l'altro in base alle nuove leggi, le Universitas divennero
"comuni".
L'8 agosto del 1806 Pioppi fu aggregata al comune di Pollica. Il "castello",
come ex bene feudale, fu incamerato dal Decurionato (come era detto allora il Consiglio
comunale) e divenne sede della dogana, che nel nuovo ordinamento si chiamò sottoricevitoria
dei dazi indiretti .
Essa continuò a controllare il piccolo commercio interno, gestiva i monopoli di stato
(sale, tabacco e seta) e riscuoteva le tasse di importazione sulla merce che giungeva via
mare. Ma le guardie doganali e i "deputati sanitari" (addetti al controllo della
qualità dei generi alimentari), erano in genere un vero flagello per la loro disonestà,
anzi un vero "ostacolo" allo sviluppo del commercio. Così scriveva un
funzionario dell'epoca, Vincenzo Gatti, di Laureana: "Non essendo nelle attuali
circostanze sicura la navigazione, in ogni sera le barche devono approdare, e quivi sono
spoliate dai guardiacoste e dai deputati di sanità. Quest'ultimi non hanno dal Governo
una tassa fissa per i diritti che pretendono. La percezione dei medesimi è in ragione
della moralità dell'impiegati " (48).
La vecchia fiera del Carmine si continuava a tenere regolarmente il 16 luglio in
concomitanza col pellegrinaggio tradizionale cui partecipavano fedeli da tutti i paesi
vicini. Fra le altre merci (vino, olio, stoffe) che godevano di franchigia, si vendevano
soprattutto utensili di terracotta provenienti da Camerota e Vietri (49).
In effetti Pioppi allora viveva prevalentemente in funzione di questa fiera e del piccolo
movimento di barche che approdavano in prevalenza sul lido antistante la cappella in
quanto il porto del Fico era stato all'improvviso abbandonato a causa dell'insabbiamento
della foce del Mortelle: da allora non è stato più utilizzato.
Fin dal 1814, il già citato Vincenzo Gatti, così scriveva: "Mi si era
descritto come suscettibile di ancoraggio per grosse barche la marina detta Porto del Fico
nel territorio di Pollica; ma avendola osservata da vicino, appena ho potuto approdarvi
con un piccolo legno " (50).
Nel minuscolo centro abitato all'epoca vi vivevano pochissime persone. Ancora nel 1829
erano solo 44, quasi tutti contadini che si dedicavano anche alla pesca ed erano originari
di Pollica o Casalvelino (51). Ecco come l'ambiente viene descritto da un viaggiatore
inglese nel 1838:
A Pioppi non ci fu facile procurarci cibo e alloggio. Però finalmente ci riuscimmo
e avemmo il piacere di vedere arrivare la nostra cena consistente in un piatto di
maccheroni ed un quarto di agnello allo spiedo (un lusso insperato) preparato dal vinaio
con la collaborazione del figlio. Se desideravamo occupare utilmente il tempo mentre
l'agnello veniva cotto al punto giusto - disse - egli ci avrebbe fatto accompagnare alla
Cappella, non lontana, dove alcune preghiere rivolte ad un'immagine di Maria Santissima,
famosa per i suoi miracoli, non avrebbe mancato di assicurarci un felice e prospero
viaggio. La stanchezza ed i maccheroni che già bollivano nella pentola agirono in senso
contrario alla proposta. Rimandammo perciò le orazioni al mattino seguente (52).
Anche il "castello" era in stato di semiabbandono e vi dimorava solo un
"vinaio" col figlio. Lo stesso viaggiatore citato sopra vi pernottò il 16
maggio del 1838 e così lo descrisse non senza un pizzico di ironia per le imponenti fa
fittizie fortificazioni che mai lo difesero, neanche dai ladruncoli locali: Dopo la
cena, il padrone di casa ci accompagnò alla nostra stanza. Questa era una specie di
palazzo, una volta di proprietà di un'antica e nobile famiglia ora caduta quasi in
povertà. Passammo attraverso una successione di stanze veramente belle prima di arrivare
ad un salone che un tempo doveva essere magnifico, ma ora è privo di ogni splendore. Una
difesa simulata, costituita da formidabili schieramenti di cannoni di ceramica collocati
lungo il frontone di un gran balcone che guarda verso il mare, si è mostrata di nessuna
utilità per prevenire gli audaci attacchi dei corsari. Per ben otto volte questo
sfortunato Palazzo è stato saccheggiato dai ladri del mare (come dice il nostro padron di
casa), forse a causa della sua posizione isolata e senza protezione. L'ultima volta, a
quanto pare, accadde proprio prima che Algeri fosse presa dai francesi (1830), quando
(come se avessero avuto presentimento che non avrebbero potuto più ripetere le loro
visite) i corsari portarono via assolutamente tutto perfino le lucide maniglie di ottone
delle porte e le serrature. Un'ostile fatalità sembra legata a questo luogo: quindici
giorni fa, un sacco di farina e due camicie furono rubati da qualche... corsaro dilettante
di passaggio. Mi auguro che questa notte nessuna impresa del genere disturbi il riposo di
cui ho veramente bisogno (53).
Ma di lì a qualche anno sembra che lo stato economico del luogo sia migliorato
rapidamente. Nel 1843, infatti, il Sindaco di Pollica, nel chiedere l'istituzione di un
mercato settimanale nel Comune, scriveva all'Intendente di Salerno che sul lido di Pioppi
(ed anche ad Acciaroli, Agnone e Casalvelino) affluivano abbondanti merci "tramite
molti legni forestieri " (54).
Perciò nel 1848, nel piano di riorganizzazione delle fiere nell'ambito territoriale
dell'Intendenza di Salerno, per quella del Carmine fu decretata l'apertura dal 9 al 16
luglio di ogni anno; vi si vendevano i tradizionali utensili di terracotta provenienti da
Camerota e Vietri, oltre che ad olio, vino e stoffe (55).
Il giro di affari, soprattutto per quanto riguarda queste ultime, doveva essere notevole,
se i venditori venivano taglieggiati dai fratelli Bardassino, di Celso, famigerati
componenti della "crosca" Amoresano, che per più di un decennio, praticamente
indisturbati e nella totale omertà, riscossero il "pizzo" (56).
Nel 1861, anche per le note vicende risorgimentali, la fiera aveva in parte ridotto il suo
giro di affari e si teneva solo dal 13 al 16 luglio e continuava a distinguersi
soprattutto per il commercio degli utensili di terracotta (57), tanto che ancora oggi è
rimasto il detto "jamo a li Chiuppi a 'ccattà a mmòmmula ", cioè
andiamo alla fiera di Pioppi per comprare utensili di terracotta ( la
"mmòmmula" è un recipiente con la bocca stretta, prodotto a Camerota, usato da
sempre per mantenere l'acqua fresca durante l'estate e portarla sul posto di lavoro).
Primo sindaco del Comune di Pollica dopo l'unità d'Italia, fu Giuseppe Sodano, il quale
molto si adoperò per tenere in auge la fiera del Carmine (58), nonostante che i briganti
approfittavano di quel movimento per perpetrare latrocini e ricatti ai danni di
commercianti e compratori.
Noto è rimasto il sequestro di Gennaro Petillo, di Cannicchio, il 16 luglio 1870. Ecco le
parti salienti della relazione dei carabinieri di Vallo:
"All'Illustrissimo Signor Prefetto della Provincia di Salerno,
Nei giorni 15 e 16 del corrente mese, si celebrano festività e pubbliche fiere in vari
comuni di questo Circondario, ed in questa circostanza sogliono profittare i malfattori
per aggredire i viandanti; tal che non si era mancato di mettere le apposite disposizioni
allo scopo di prevenire simili tentativi...
Ma non si raggiungeva compiutamente nel mandamento di Pollica, ove nelle ore pomeridiane
del giorno 16 veniva sequestrato il denominato Gennaro Petillo, fu Francesco, da
Cannicchio.
Il medesimo in compagnia con la propria moglie e due altre donne di Cannicchio, si
ritiravano dalla marina dei Pioppi, ove eransi recati per la festività e fiera detta del
Carmine, quando giunti al fiume di Pollica tre malfattori senz'armi apparenti, usciti da
un terreno adiacente ove erano nascosti fra piante di grano, chiamavano il detto Petillo
che avvicinatosi ad essi rimaneva sequestrato. La di lui moglie non volendo abbandonare il
marito, ne seguiva la sorte.
In tal modo mi fu riferito il fatto dal Pretore di Pollica e sono tuttavia in ansietà di
conoscere meglio i particolari e quanto si sarà potuto sapere dalle persone ch'erano in
compagnia del Petillo, se pure s'indurranno a parlare e dire la verità.
Frattanto ho rimarcato con dispiacere che quel Sindaco non mi abbia ancora riferito al
riguardo e sibbene fin da ieri sera sia a mia conoscenza che l'Arma dei carabinieri delle
diverse stazioni sia in attivo movimento in traccia dei malfattori, neppure da parte di
questa ho ricevuto dettagli sul fatto. Lo stesso Pretore che me ne ha fatto rapporto
afferma non averlo saputo che nelle ore pomeridiane del giorno 17 andante.
Sibbene si dicano ignoti malfattori, vi è fondato motivo di credere che siano il Notaro e
gli altri due suoi compagni, avendo il primo in Pollica molte relazioni e protezioni in
quegli abitanti... " (59).
Il Sindaco Sodano era rimasto in carica fino al 1871 e, allo scadere del suo mandato,
acquistò dallo Stato il "castello" di Pioppi; ne era ancora in possesso nel
1888 (60). In seguito la famiglia lo cedette ai Vinciprova di Omignano, un esponente dei
quali, Leone, era stato uno dei Mille che avevano seguito Garibaldi nella famosa
spedizione. Alcuni anni orsono, con la morte degli ultimi eredi, è divenuto proprietà
del Comune di Pollica; è in atto il restauro ed è ormai noto come "castello
Vinciprova".
La popolazione stabile di Pioppi, che nel 1857 era ancora di sole 56 unità (61), nel 1881
era salita a 123 (62). Ecco come un prete di Pollica, D. Giuseppe Volpe, descrive Pioppi
nel 1888:
"E' decorata di eleganti casini, tra i quali uno di bellissimo disegno
appartiene al signor Giuseppe Sodano, dell'amicizia del quale altamente mi pregio e onoro,
ed un altro, di recente costruzione, con fonte ricca di acqua purissima e perenne, al
Sacerdote Michelangelo Volpe. I limitrofi terreni, rivestiti al pié e su pei dorsi di
vigneti, d'olive, di fichi e d'ogni ragione di piante, in mezzo alle quali spesseggiano le
case coloniche, vagamente specchiandosi nell'eleatico mare, offrono la più bella e
pittoresca figura agli occhi di chi vi affissa lo sguardo. L'aria vi è ottima, e ottima
parimenti n'è l'indole dei pochi abitanti " (63).
Solo agli inizi del nostro secolo venne costruita la strada rotabile lungo la costa e
negli anni Trenta fu realizzata quella che collega Pioppi con Pollica.
La cappella, ancora dipendente dalla parrocchia di Pollica, tra il 1880 e il 1883 fu
abbellita con un altare di marmo, alla sommità del quale fu collocato l'antico quadro;
come unico patrimonio di valore, era dotata di un ostensorio d'argento. In una nicchia
laterale era stata collocata la nuova statua lignea della Madonna del Carmine, davanti
alla quale ardevano perennemente due lampade votive (64), mantenute accese dalla pietà
dei fedeli (fino al 1909 Pioppi mancò di un sacerdote fisso) e dei pellegrini, con le
offerte dei quali di lì a qualche anno venne acquistata anche la statua dell'Addolorata,
fu costruito il soffitto di legno decorato e comprato un organo che fu collocato sulla
"orchestra" a sommità della porta d'entrata, sulla quale in un'apertura vi era
la campanella (65).
Pioppi divenne parrocchia autonoma nel 1921 e per l'occasione la cappella fu interamente
ristrutturata. Il soffitto di legno venne sostituito con solaio sul quale fu realizzato da
Nicola Di Mattia, di Vallo, una pittura murale che raffigura la Vergine che porge lo
scapolare a S. Simone Stok.
Nel 1955, come si leggeva su una piccola lapide collocata a sommo della porta d'ingresso,
"La guida del parroco e dei pescatori tutti abbellirono questa facciata
". La campanella fu collocata in piccolo campanile eretto sulla cuspide del timpano;
lì dove era l'apertura (già murata in precedenza), fu messa una bellissima immagine
della Madonna del Carmine su maioliche.
Una curiosità: la scritta recita: "Maria SS. del Carmine detta della Bruna
", che invece avrebbe dovuto essere "della Bruca". Evidentemente gli
artigiani, di cultura napoletana (le maioliche furono realizzate a Vietri, confr. il culto
di S. Maria La Bruna nell'omonimo centro abitato e dintorni), travisarono il testo loro
fornito dal solerte e colto parroco, D. Salvatore Bergantino, che rievocando un antico
toponimo con cui era nota la Madonna Odighitria di Velia, detta anche della Bruca
, intendeva collegarsi spiritualmente e idealmente a quel territorio che i Romani
chiamarono "Brycia" (oggi "Bruca"), il cui centro più importante fu
appunto Velia. La cappella venne chiusa in seguito al terremoto del 1980 e, dopo i lavori
di restauro, è stata riaperta al culto il 20 febbraio di quest'anno.
Ci si aspettava una solenne cerimonia, per l'occasione: ma tutto è passato in sordina e,
come è ormai usuale nei nostri paesi, non sono mancate le polemiche per alcuni
interventi: la rimozione della piccola lapide della facciata, il restauro del dipinto del
soffitto nel quale è scomparsa la firma dell'autore e compare solo quella del
restauratore (M. Modica), la collocazione di un'enorme lapide dietro la porta che ricorda
in maniera chiassosa i nomi dell'architetto e del parroco pro-tempore.
Certamente più dignitoso sarebbe stato inserire la riapertura al culto della cappella
nell'ambito delle celebrazioni per il Millenario: ma crediamo che per tale ricorrenza sia
mancata la sensibilità culturale delle autorità religiose e civili... come sempre.
Almeno il bel quadro della Madonna del Carmine, ormai dato per disperso dai più, è
tornato al suo posto, restaurato in maniera decorosa, ma senza la cornice originaria. E
bisognerebbe riprendere l'antica usanza di lasciare sempre la porta della cappella aperta
per permettere ai passanti di entrare a "visitare la Madonna", come pure
mantenere accese le due lampade votive davanti al quadro: come facevano i pellegrini del
secolo scorso e gli avi, la cui fede certamente insegna qualcosa di più delle polemiche e
del rifiuto della cultura cui oggi siamo avvezzi.
Ma la storia attuale di Pioppi certamente ha trovato la sua dignità in altre cose, per
intervento di chi ha amato questo paese in maniera "diversa": Pioppi, infatti,
si propone come esempio di scelte turistico-culturali di prim'ordine, diverse dai soliti
luoghi comuni, grazie soprattutto alla presenza di personalità a livello internazionale
che l'hanno eletta a loro domicilio periodico.
Nel settembre del 1970, nel palazzo Vinciprova, si tenne il Secondo Congresso
Internazionale di Cardiologia presieduto dal prof. Ancel Keys dell'Università di
Minneapolis, nel Minnesota, sul tema: Epidemiologia e prevenzioni delle malattie
cardiovascolari . Il prof. Keys, fisiologo di chiara fama, soprattutto sull'alimentazione
umana e sui rapporti tra questa e la salute, ribadì in quell'occasione che il mangiare
del Cilento è quanto di meglio si possa escogitare contro i mali più micidiali . Vi
parteciparono rappresentanti di 27 nazioni.
A distanza di un anno, sempre con sede lo stesso vetusto palazzo, seguì il Primo
Symposium Internazionale di Vitaminologia , presieduto dal prof. Alberto Fidanza,
direttore della cattedra di Fisiologia Generale presso la facoltà di Medicina
dell'Università di Roma; e nel 1972 seguì il Secondo Symposium sul tema "Fisiologia
della nutrizione" promosso dal Prof. Flaminio Fidanza, dell'Università di Perugia,
con la collaborazione del Prof. Cioffi dell'Istituto di Fisiologia del 1 Policlinico di
Napoli. In questa occasione fu messa in risalto l'importanza nutrizionale del pesce
azzurro che rivoluzionò la mentalità corrente che lo riteneva un pesce
"grasso"; viceversa fu sostenuto che esso contiene la liceìna, una sostanza che
elimina i grassi.
E dopo una lunga pausa, finalmente nel 1987, questo tipo di incontri è stato ripreso.
Organizzato dal CNR, è stato tenuto tra il 28 novembre e il 9 dicembre, il Primo
Seminario Italiano di Epidemiologia e prevenzione Cardiovascolare nell'ambito di un
progetto finalizzato Medicina preventiva e riabilitativa , direttore prof. Giorgio Ricci:
fra gli intervenuti Ancel Keys, Stamler e Karvonen.
Dell'antico porto del Fico, invece, si sarebbe persa anche la memoria, se non fosse stata
riesumata per trarne utili vantaggi a favore di contrastanti tesi sulla presunta
necessità di dover realizzare a Pioppi un moderno porto turistico-peschereccio, che ne
assicurasse un maggiore benessere e una maggiore incentivazione turistica.
Da più parti si reclama che il vecchio approdo del Fico venga ripreso e fornito di
strutture adeguate alle esigenze moderne. Le foci del torrente Mortella, si dice, per loro
caratteristiche fisiche, si presterebbero magnificamente a tutto ciò e permetterebbero di
realizzare una struttura elegante e funzionale, che potrebbe costituire la base per lo
sviluppo dell'edilizia ricettivo-turistica a Pioppi.
Ma sembra che sia prevalsa l'altra opinione, cioè di costruire un porto a giorno ,
prospiciente l'abitato, che in tal modo avrebbe uno spazio sufficiente per aree di
parcheggio, di cui attualmente Pioppi manca.
Ci sono poi gli ambientalisti che tagliano corto su ogni progetto di porto: sarebbe la
fine - essi sostengono - per questo elegante borgo marinaro, rimasto ormai un superstite
nella vandalica speculazione edilizia costiera.
Su L'Avvisatore Marittimo di Genova, in data 8 gennaio 1988, comparve a tale
proposito un articolo, che molto fece parlare in quanto un giornale del Nord aveva
sollevato il problema, mentre i locali non si erano nemmeno accorti che la costruzione del
progettato porto quantomeno avrebbe dovuto costituire un argomento di dibattito. Da
quell'articolo stralciamo le parti salienti: I deputati Gianluigi Cerruti, Gianni
Mattioli, e altri hanno presentato alla Camera un'interrogazione rivolta ai ministri della
Marina mercantile e dei Beni culturali e ambientali sul porto del Fico... che costituisce
una delle zone più belle e incontaminate della costiera cilentana e riveste tra l'altro
un grandissimo interesse archeologico... La zona è assoggettata ai vincoli archeologico e
paesaggistico. Il ministero per i Beni culturali e ambientali ha espresso parere contrario
alla costruzione del Porto a Pioppi; l'Amministrazione comunale di Pollica ne ha
deliberato la costruzione con deprecabile spreco di ingenti risorse finanziarie. Le
associazioni di protezione ambientale si sono fermamente opposte all'opera che risulta
completamente ingiustificata data la vicinanza con il porto di Acciaroli. Gli interroganti
chiedono quindi al Ministro della Marina mercantile per quali ragioni sia stata
autorizzata l'opera e sia stato consentito il prelievo di ghiaia e sabbia dalla spiaggia
di Pioppi e se non ritenga opportuno disporre un'immediata revoca dei provvedimenti
adottati; e chiedono al Ministro per i Beni culturali e ambientali quali misure intenda
adottare onde evitare lo scempio ambientale facilmente prevedibile .
Tra polemiche, intanto, si consumano questi anni preziosi per il decisivo decollo della
costiera.
Pioppi, nella sua calma sorniona, attende il suo destino...
Più oltre, chiusa dal promontorio di Palinuro, una dolce e ampia insenatura accoglie,
poco lontano dal litorale, le rovine di Velia. Tra la foschìa se ne intravedono la torre
medievale e i ruderi dell'acropoli, la cui magica visione rievoca la memoria di quella
Scuola Eleatica dalla quale si dipartirono i fondamenti del pensiero idealistico e che
additò la via di come la scienza e la politica debbano mettersi al servizio dell'Uomo.
NOTE
1) Geografia , vol. VI, 1,1.
2) Cantalupo Piero, "Il bradisismo di Paestum", in Storia delle Terre del
Cilento Antico , a cura di Cantalupo P. e La Greca A., Ed. del Centro di Promozione
culturale per il Cilento (da ora C.P.C.), Acciaroli (Sa), 1989, vol. II, p. 549.
3) Volpe Giuseppe, Notizie storiche sulle antiche città e sui principali luoghi del
Cilento , Roma, 1888, rist. an. Cesari-Testaferrata, Salerno, 1971, p. 135.
4) La guerra civile , Lib V, 98, in La Greca Fernando, Viaggiatori e
flotte romane a Palinuro , in "Annali Cilentani", n 8, I/1993, pp. 16-17.
5) Cantalupo Piero, "Dalle invasioni barbariche alla guerra del Vespro", in Storia
delle Terre... , cit., vol. I, p. 113.
6) Ibidem , p. 124.
7) Codex Diplomaticus Cavensis (da ora C.D.C.), i, p. 253; II, p. 106, 11;
ecc.
8) C.D.C., II, 106.
9) C.D.C., III, 16; la traduzione proposta è di Piero Cantalupo.
10) Cantalupo P., "Centri viventi e scomparsi, Pioppi", in Storia delle
Terre... , vol. II, p. 750.
11) Rohlfs G., Mundarten und Griechentum des Cilento , in "Zeitschrift
für Romanische Philologie", 57, 1937, pp. 421-461.
12) Ventimiglia Domenico, Notizie storiche del Castello dell'Abbate e dei suoi
casali nella Lucania , Napoli, 1827, p. 81.
13) C.D.C., VII, 41.
14) Cronaca cavense del Pitrilli, a. 1074.
15) Ebner Pietro, Storia di un Feudo del Mezzogiorno , Ed. di Storia e
Letteratura, Roma, 1973, p. 641.
16) Guillaume Paul, Essai historique sur l'Abbaye de Cave , Cava dei Tirreni
(Sa), 1977, Appendice, p. LXXVI.
17) Ventimiglia D., Notizie..., op. cit., Appendice, p. XXII.
18) Archivio della Badia di Cava (da ora A.B.C.), XXI, 49, XV.
19) Ventimiglia D., Notizie... , op. cit., p. 12.
20) Ebner Pietro, Chiesa, Baroni e Popolo del Cilento , Ed. di Storia e
Letteratura, Roma, 1982, vol. I, p. 444.
21) Villaggio oggi scomparso che sorgeva lungo il Vallone del Fico, fra Celso e San
Giovanni Cilento.
22) Ebner P., Chiesa... , op. cit., vol. II, p. 316.
23) Cantalupo P., "Dalle invasioni...", op. cit., vol. I, p. 221-222.
24) Mazziotti Matteo, La Baronìa del Cilento , Roma, 1904, p. 143.
25) Cantalupo P., "Dalle invasioni...", op. cit., vol. I, p. 221.
26) Volpe G., Notizie storiche... , op. cit., p. 145.
27) Silvestri Alfonso, Aspetti di vita socioeconomica nel Cilento alla fine del
Medioevo , ed. Pietro Laveglia, Salerno, 1989, p. 32.
28) Ibidem , doc. XVI, p. 124.
29) Cantalupo P., "Centri viventi...", op. cit., vol. II, p. 657.
30) Silvestri Alfonso, La popolazione del Cilento nel 1489 , ed. C.P.C.,
Acciaroli (Sa), 1991 (ristampa aggiornata della 1a ediz. 1956), pp. 150-155.
31) Ibidem ; vi sono riportate anche le famiglie sopravvissute o distrutte
dal contagio.
32) Vassalluzzo Mario, Castelli, torri e borghi della costa cilentana , ed.
Econ, Castel S. Giorgio (Sa), 1975, p. 104.
33) Ibidem , p. 100.
34) Bibbia, 1 libro dei Re , 18,20-45.
35) Sgarbossa M., Giovannini L., Il Santo del giorno , ed. Paoline, Roma,
1991, pp. 338-339.
36) La Greca Amedeo, Storia di una Civiltà Rurale, San Mauro Cilento , Ed.
CI.RI., Acciaroli (Sa), 1986, vol. I, pp. 85-90.
37) Archivio diocesano di Vallo della Lucania (da ora A.D.V.L.), Visitactio Pollicae
, Mons. Jacuzio, 1903.
38) Capecelatro F., Diario , III, Napoli, 1850, p. 136.
39) Silvestri A., La popolazione... , op. cit., p. 149.
40) La Greca Amedeo, Guida del Cilento , ed. C.P.C., Acciaroli (Sa), vol.
III, p. 82.
41) Volpe G., Notizie storiche..., op. cit., p. 78.
42) Mazziotti M., La Baronìa... , op. cit., pp. 248-249.
43) Ebner P., Chiesa... , op. cit., vol. II, p. 370.
44) Mazziotti M., La Baronìa..., op. cit., p. 251.
45) Volpe Francesco, La carestia del 1764 nel Cilento nella cronaca di un
contemporaneo , in "Quaderni Contemporanei", n 4, p. 191.
46) Rossi Luigi, Terra e genti del Cilento Borbonico , ed. Palladio, Salerno,
1983, p. 200.
47) Rizzi Francesco, Osservazioni statistiche sul Cilento, 1809; ristampa Ed.
Galzerano, Casalvelino Scalo (Sa), 1978, pp. 36-37.
48) Gatti Vincenzo, Memorie statistiche dei Circondari di Castellabate, Pollica e
Torchiara in Principato Citeriore (1814) , in De Rosa Gabriele, Feudalità,
clero e popolo nel Sud attraverso le visite pastorali del '700 , Ed. Libreria
Scientifica, Napoli, 1969, p. 166.
49) Ibidem , p. 168.
50) Ibidem , p. 129.
51) Archivio di Stato di Salerno (da ora A.S.S.), Intendenza, Stati della popolazione del
Distretto di Vallo, a. 1829, B. 1752, provvisoria.
52) Strutt Arthur John, Passando per il Cilento , Ed. Galzerano, Casalvelino
Scalo (Sa), 1988, pp. 34-35.
53) Ibidem , p. 35.
54) A.S.S., Intendenza, Stato delle fiere nel Comune di Pollica, F. 1732, 100.
55) Ibidem , a. 1848.
56) A.S.S., Tribunale civile e correzionale e Corte di Assise di Salerno, B. 1, fasc. 1,
f. 38; v. anche in La Greca Amedeo, Storie di Briganti , Ed. C.P.C.,
Acciaroli (Sa), 1988, pp. 31-32.
57) A.S.S., Intendenza, Stato delle fiere nel Comune di Pollica, a. 1861, B. 1732, 100.
58) Ibidem .
59) A.S.S., Gabinetto Prefettura, 77, 100; anche in La Greca Amedeo, Storie di
Briganti , op. cit., doc. n 21.
60) Volpe G., Notizie storiche... , op. cit., p. 146.
61) A.D.V.L., Stati delle Anime di Pollica, a. 1857.
62) Volpe G., Notizie storiche... , op. cit., p. 152. Dall'archivio Com. di
Pollica apprendiamo anche i risultati dei censimenti fatti in questo secolo che hanno
visto la popolazione di Pioppi in lenta ma continua ascesa: 152 abitanti nel 1901, 164
(1911), 170 (1921), 204 (1931), 279 (1936), 393 (1951), 375 (1961), 468 (1971).
63) Ibidem , 146.
64) A.D.V.L., Visita pastorale del Can. Maglione, Pollica 8-10-1883.
65) A.D.V.L., Visita past. Mons. Jacuzio, Pollica 4-5-1903.
(Tratto da:
AMEDEO LA GRECA, Cronache Cilentane per Pioppi nel millenario della sua storia
documentata (994-1994) , Acciaroli, Centro di Promozione Culturale per il Cilento,
1994)