San Severino di Centola:
cenni storici

di Emilio Buonomo

I luoghi

San Severino di Centola, nel basso Cilento, è un borgo medievale abbandonato situato sulla sommità di un colle costituito nella sua struttura da rocce calcareo-scistose, con la cima bipartita da una sella, la quale divide in due zone l'insediamento in cui si distinguono i ruderi del castello e della chiesa, dall'area in cui vi sono le abitazioni abbandonate dai cittadini.

Il colle ha la parete nord-est che si erge a strapiombo dalla riva destra del fiume Mingardo (che solca la "Gola del Diavolo"), mentre dalla riva sinistra si erge il monte Bulgheria che ha preso il nome dai mercenari bulgari guidati dal duca Altzek che giunse in Italia con le sue truppe, dapprima nel Molise e poi anche a Paestum e Policastro, nel VII secolo.

Il borgo era noto come "San Severino de Camerota", di cui fu casale per un lungo periodo, mentre dopo il 1861 prese l'attuale denominazione di San Severino di Centola.

Il casale conserva ancora i caratteri architettonici del borgo medievale che si è adattato al luogo e «si affaccia sul fiume Mingardo, come un'appendice del castello; esso appare congelato nella sua minima dimensione, perché le condizioni dei luoghi non consentivano altro sviluppo»1.

Lo sviluppo successivo del villaggio conserva tracce dei periodi longobardo, angioino, aragonese, del Seicento, del Settecento e vi sono tracce più marcate dell'Ottocento, mentre le tracce della prima metà del Novecento sono legate all'ultimo periodo di vita di San Severino con l'abbandono da parte degli abitanti e alla sua progressiva "distruzione".

Non c'è dubbio che il colle venne scelto per la sua posizione strategica di difesa e di controllo del territorio, per la facilità di collegamento visivo dei propri sistemi difensivi con gli altri presenti nella zona2.

Infatti i due strapiombi rocciosi che si affacciano sulla "Gola del Diavolo" rendevano, prima la torre quadrata e poi il castello, inaccessibili da due lati, mentre gli altri passaggi erano salvaguardati dalla cortina di abitazioni che erano costruite in maniera tale da costituire una barriera simile a quella delle mura, le quali considerata la morfologia del luogo che non forniva spazi ampi per effettuare delle manovre militari di attacco, potevano essere sostituite dalla cortina edilizia, con il lato esposto verso la vallata con poche e piccole aperture, per cui l'abitato stesso costituisce "lo Muro", il limite fisico tra la residenza e la campagna, realizzando un sistema difensivo mimetizzato dalle abitazioni3.

Comunque al termine del regno della dinastia aragonese, quando il Mezzogiorno d'Italia dopo un breve periodo di divisione tornò ad essere unito (1504) sotto il dominio della monarchia spagnola, in alcuni documenti della prima metà del XVI secolo, viene segnalata la consistenza delle opere fortificate nella provincia di Salerno e apprendiamo che San Severino di Camerota aveva «muros buenos y castillo fuerte al pié de la tierra en una rocca»4, di cui non restano tracce sufficienti che rendano leggibile la loro forma originaria. Comunque delle zone più esposte erano fortificate, infatti nelle relazioni degli "stadi d'anime" del Settecento una zona del borgo viene censita con la denominazione "ubi dicitur lo Muro".

Il complesso più antico, costruito nella zona più alta e arroccata del colle sullo strapiombo della "Gola del Diavolo", probabilmente risale al X-XI secolo.

La Val de Saint Severin

Nel 1054, dopo la restaurazione seguita all'uccisione di Guaimario V, il più grande principe che abbia avuto Salerno (il "pater patriae" dell'arcivescovo e poeta Alfano di Salerno), caduto a seguito di una congiura di palazzo capeggiata dagli Amalfitani e sostenuta dai cognati del principe, il "sacro palatio" salernitano riorganizza immediatamente la guida delle varie contee del Cilento, e questo testimonia l'importanza che veniva data a questa zona del Principato5.

Infatti, «Guido, conte di Conza e duca di Sorrento, sfuggito ai congiurati, riuscì a mobilitare con preghiere e promesse di ricche ricompense sia le forze normanne di Umfredo d'Altavilla conte di Puglia, sia quelle di Riccardo conte d'Aversa»6, così nel giro di pochi giorni rovesciò il governo dell'usurpatore Pandolfo III e ristabilì sul trono degli avi il figlio di Guaimario, Gisulfo II, il quale confermò la contea di Conza allo zio Guido e quella di Capaccio ai figli dello scomparso zio Pandolfo; quanto ai propri fratelli, a Guido diede la città di Policastro e il castello di San Severino, a Guaimario, invece, il Castellum Cilenti7.

Per cui nel 1054 arriva nella Val de Saint Severin il conte Guido che Amato di Montecassino definisce «molt bel et molt vaillant en fait d'armes», esperto di strategie militari, che organizza dei sistemi difensivi inattaccabili8.

L'importanza del colle di San Severino porta ad una lite tra Guido, conte di Policastro, e Guimondo dei Mulsi -al quale era stato assegnato il territorio confinante con la contea di Policastro- causata da sconfinamenti da parte di Guimondo nel territorio di Guido, per impadronirsi della valle di San Severino sul Mingardo, territorio amministrato dal fratello di Guido. I due si accordarono che sulla controversia dovesse dare un giudizio il principe di Capua, per cui Guido si mise in viaggio per recarsi a Capua, ma Guimondo gli tese un imboscata nei pressi della Gola del Diavolo, fuori dal controllo del presidio posto sul colle e, dopo una strenua resistenza, il conte Guido e i suoi uomini vennero massacrati (anno 1075)9.

Guimondo occupò subito il colle di San Severino, ma fu bloccato nel suo intento di conquistare l'intera contea. In seguito i beni della "Val de Saint Severin et Policastro", siccome Guido non aveva figli, furono ereditati, dal fratello minore Landolfo che ne conservò il controllo fino alla fine del dominio longobardo nel Principato di Salerno, avvenuta nel 1077 quando Roberto il Guiscardo conquistò la rocca salernitana e Gisulfo II fu deposto. Il Guiscardo consentì ai familiari di Gisulfo di conservare i loro possedimenti, facendosi consegnare solo le fortezze più importanti, per cui Landolfo dovette abbandonare Policastro e il castello di San Severino.

La valle di San Severino dal 1077 al 1189 è amministrata dai Normanni e dal 1189 fino al 1268 è sotto la giurisdizione degli Svevi, a cui succedono gli angioini fino al 1435.

 Nei "registri angioini" ci sono molte notizie sul castello di San Severino, sui passaggi feudali e sugli eventi che si sono svolti nel borgo. In particolare risulta: «Carlo I ordina che ritornino in possesso della R. Curia i castelli di Macopa (?), Camerota e San Severino, tenuti già dal fu Guglielmo Gagliardo milite»10 e ancora «si ha notizia che Tommaso, conte di Marsico mutò con Filippo della Porta, cavaliere salernitano, protontino della città e viceammiraglio del Regno, la terra di Aquara, il castello di Cuccolo e 12 once annue sul mercato di Sanseverino presso Salerno, con il castello di Sanseverino di Camerota»11. In periodo angioino l'antico giustizierato che comprendeva le odierne province di Salerno, Avellino e parte del beneventano venne smembrato in "Principato citra" e "Principato ultra", il cui confine era segnato dalle montagne nei pressi di Montoro, quindi "citra et ultra serra Montorii".

Il feudo di San Severino che nel 1227 era stato ceduto da Tommaso Sanseverino alla Regia Curia, nel 1254, per interessamento di Innocenzo IV, era stato restituito a Ruggiero, figlio di Tommaso; ma il vicario imperiale Manfredi, tutore di Corradino, ripresa la lotta nel 1258 donò il castello a Giordano de Aglano. Nel 1269 il castello era tenuto dal milite Guglielmo Gagliardi che, per ordine del re Carlo I, lo restituì alla regia curia; il feudo poi fu assegnato al capitano Pandolfo di Fasanella, dopo di che tornò alla curia regia che nel 1286 lo affidò a Lamberto di Sableto. Nel 1290 il conte di Artois ordinò di assegnare il castello, per la sua importanza strategica, a Troisio di Troisio, Capitano del Principato, con l'obbligo di curarne la custodia con somma diligenza; però gli abitanti del borgo chiesero a Tommaso Sanseverino di dare il possesso del feudo a Filippo della Porta, cosa che avvenne realmente. Filippo della Porta, però, nel 1291 scambiò il feudo con terre che Tommaso Sanseverino possedeva nei pressi dell'antica Rota, anche perché egli non era in grado di curare la manutenzione e la ricostruzione delle parti diroccate a causa delle continue incursioni nemiche.

«La dura dominazione instaurata da Carlo I d'Angiò determinò un malcontento che si diffuse ovunque nel regno. Il risentimento divenne insofferenza, poi indolenza che raggiunse l'acme nella ribellione che seguì alla scintilla scoccata nella chiesa di Santo Spirito presso Palermo (30 marzo), nel noto lunedì di Pasqua del 1282 (rivolta del Vespro). La guerra divampò per mare e per terra senza tregue quando Pietro III d'Aragona, nel mese di settembre, cinse a Palermo la corona dell'isola di Sicilia. L'ultra ventennale lotta angioino-aragonese che se per un verso logorò le forze angioine, risultò rovinosa per l'intero territorio del Cilento12, soprattutto per la parte meridionale di esso, ove la guerriglia infierì dal 1284 al 1299, provocando danni incalcolabili ai villaggi dalla fascia costiera»13.

L'avanzata dell'esercito aragonese fu contenuta proprio dalla cerchia di monti del basso Cilento e della Lucania, luoghi in cui i condottieri del tempo avevano creato, all'interno di un ampio disegno unitario, un valido organismo difensivo che può considerarsi ancora oggi un capolavoro di strategia militare. Innanzi tutto si cercò di sbarrare le più facili vie di invasione, ovvero le vie fluviali del Bussento, dell'Alento e del Calore. Vennero potenziate le fortificazioni della costa, da Policastro fino alle pendici del monte Bulgheria, fu creata una seconda linea interna lungo l'asse Roccagloriosa-Torre Orsaia-Castel Ruggiero, e per contenere eventuali sbarchi a Palinuro e a sbarrare le vie fluviali del Lambro e del Mingardo, furono rinforzate le torri di Molpa e il "castellaccio" sopra San Severino di Camerota, creando altre fortificazioni scaglionate lungo la dorsale di Camerota14.

Inoltre, venne rinforzata la via dell'Alento per impedire l'eventuale controllo da parte dei nemici della "Strada del Sale", la via arcaica che collegava le coste veline con il Vallo di Diano, la quale, se conquistata, insieme ai castelli di Cuccaro, Novi, Gioi, Laurino, Sala Consilina e Brienza, avrebbe spezzato in due tronchi la linea Policastro-Basilicata; poi per impedire eventuali sbarchi a Velia si fortificò il castello di Castellammare della Bruca15.

Nell'odierno Cilento meridionale si combatté a lungo e il colle di San Severino nel corso della guerra costituì un caposaldo molto importante dal quale gli attacchi degli assedianti vennero sempre respinti.

Il castello, passato con Camerota in possesso dei Sanseverino, venne rafforzato e per impedire eventuali assalti attraverso l'insellatura questa venne munita di antemurali con posti di presidio di cui sono presenti delle tracce sotto forma di ruderi. Il castello in questo periodo era stato ceduto in suffeudo a Giacomo di Morra e rimase di proprietà dei Sanseverino fino al 1389 quando re Ladislao infeudò Luigi Sanseverino dei castelli di Camerota e di San Severino. Il castello passò ai Sanseverino principi di Salerno, fino alla definitiva avocazione dei loro beni. Nel Cinquecento il castello, secondo lo storico Antonini, di proprietà di Gerolamo Morra, era "fortissimo e sicuro" e anche il "capo di suso" del borgo, doveva avere già la sua fisionomia abbastanza definita, in quanto vi dimoravano 170 abitanti.

Il feudo agli inizi del Seicento, è di proprietà della famiglia Tancredi che nel 1628, lo cede a Gerolamo Albertini16, la cui famiglia, facendo riferimento alle notizie riportate nel Cedolario, ne conservò la proprietà fino all'abolizione della feudalità17.

San Severino nel corso del Seicento subisce i danni causati dalla peste del 1654 che decimò le popolazioni cilentane, infatti il borgo passa dai 125 abitanti del 1648 ai 95 del 1669. Il borgo riprende vitalità nell'ultimo ventennio del Seicento passando dai 155 abitanti del 1682 ai 226 del 1696; nella prima metà del Settecento la crescita continua e la popolazione nel 1708 supera i 300 abitanti, l'attività edilizia progredisce con una serie di interventi anche sull'antica chiesa parrocchiale di cui sono ancora presenti tracce nella forma delle finestre. Nell'arco del XVIII secolo, dopo la prima metà caratterizzata da una grande attività, il borgo registra una fase di declino, infatti anche la chiesa di Santa Maria degli Angeli viene abbandonata, in quanto la popolazione, diminuita di 100 abitanti, non ha la forza economica per eseguire le necessarie opere di manutenzione e nemmeno di eseguire le opere raccomandate dal delegato vescovile Achille De Mattia che nella visita pastorale del 1746 segnala, tra le altre cose, la necessità di completare il soffitto. Nell'Ottocento il borgo registra una ripresa economica che porta ad un aumento della popolazione e delle attività produttive, fino ad arrivare alla prima metà del '900 con una popolazione di circa 400 abitanti.

Subito dopo la fine della guerra i circa 400 abitanti di San Severino, cominciarono a costruire delle case a valle, nei pressi della stazione ferroviaria, e nel giro di pochi anni tutti gli abitanti dell'antico borgo si trasferirono nelle moderne abitazioni, lasciando quell'agglomerato di case arroccato sullo sperone roccioso, lasciato quasi a vigilare sulla nuova San Severino.

Il Colle

Il colle di San Severino deriva la sua importanza strategica dalla posizione chiave che occupa per il controllo delle vie interne della Valle del Mingardo che si spingevano oltre Policastro, fino ai confini calabro-lucani del Principato di Salerno. La posizione è importante anche perché costituisce il vertice di un triangolo formato dal frourion nei pressi di Pisciotta (il Castelluccio) e dal castello di Roccagloriosa; probabile è anche una correlazione con il castello di Montelmo.

Il colle era collegato visivamente con una serie di sistemi difensivi come i castelli della Molpa e di Camerota ed era in collegamento anche con il castello di Roccagloriosa, inoltre sulla cima dello sperone roccioso che incombe sull'abitato (il rione che nelle relazioni degli stati d'anime del Settecento era definito "capo di suso", più alto rispetto al borgo di oltre cento metri) si trovano ancora oggi i resti di una costruzione che poteva essere una torre di avvistamento che controllava un'area molto più ampia di quella controllata dalla torre longobarda.

 Questo sistema di torri e castelli fortificati costituivano una rete di capisaldi di difesa e avvistamento che avevano impedito la riconquista bizantina, bloccato le incursioni saracene e, per lungo tempo, anche l'avanzata delle bande aragonesi nel corso della guerra contro gli angioini18.

Tra i colli scelti dai longobardi per formare la loro rete difensiva a scacchiera è compreso anche il colle di San Severino su cui costruirono una delle tipiche torri quadrate.

 L'architettura

Della torre longobarda19 ci sono pervenuti solo pochi resti, con tracce di una piccola volta a botte, dalla quale attraverso un passaggio sottostante, raggiungibile solo attraverso scale mobili, si accedeva a un recinto murato quadrangolare con i lati lunghi quattro metri, da cui sicuramente si dipartivano i passaggi per accedere ai piani superiori.

La torre di San Severino venne costruita sull'estremità del colle verso il monte Bulgheria e la Valle del Mingardo, l'altezza effettiva non è nota, ma era sicuramente tale da controllare tutte le vie di comunicazione sia verso l'interno che verso il mare.

Non si conosce la data di fondazione del Castello, si può fare un'ipotesi legata alle notizie storiche degli eventi che sono intercorsi nell'area cilentana.

Il principe Gisulfo II, nel 1054, nominò conte di Policastro20 Guido -per coordinare meglio le difese in una zona di frontiera-, il quale da esperto guerriero comprese subito che sul colle di San Severino la sola torre era insufficiente e probabilmente iniziò la costruzione di un castello.

Del castello rimangono ancora alcuni archi a sesto acuto, costruiti con la pietra locale, è visibile la sala del castello e nelle mura superstiti della sala si conservano ancora una nicchia e delle monofore ogivali sul lato sud-ovest.

Nei pressi della torre, vi sono resti che fanno supporre la presenza di una porta, di cui resta un cenno di androne e, all'interno, la muraglia si amplia in uno spazio per il presidio, per i servi, per il bestiame e per riunirvi gli abitanti del borgo in casi di emergenza.

Non ci sono elementi che fanno ipotizzare la tipica presenza di un "maschio" ritenuto superfluo per la presenza della torre longobarda21. Venuta a mancare ogni importanza strategica del colle, la torre ed il castello vennero abbandonati, dando così inizio alla loro decadenza.

Sulla Gola del Diavolo si affaccia un piano roccioso su cui si trovano i resti della chiesa, dedicata a Santa Maria degli Angeli, con abside pentagonale e ad unica navata, ampliata nelle dimensioni attuali presumibilmente nel XV secolo. Farebbe parte di un complesso più antico, come testimonia il campanile, a base quadrata che, addossato alla facciata in maniera innaturale, risulta chiaramente di costruzione precedente all'attuale chiesa, insieme alla camera sepolcrale interrata22.

 La prima visita pastorale, di cui si ha notizia, è del 25 giugno 1674; il 13 gennaio 1716, c'è la visita del vicario generale Nicola Pisoni da Cuccaro che si recò «ad oppidum S. Severini» e nella parrocchiale di Santa Maria degli Angeli, nella quale descrive sull'altare maggiore una statua della Vergine «ex cemento cum duabus coronis argenteis», nel campanile vi sono tre campane; mentre prescrive il completamento del soffitto23.

La cattedrale già nel 1746 aveva bisogno di grandi restauri e, tra l'altro, il delegato vescovile segnala la necessità di completare il soffitto; evidentemente la parrocchiale verso la fine del Settecento si trovava in una condizione tale da rendere inutili i rifacimenti prescritti dal vicario generale De Mattia in visita pastorale, per cui l'edificio venne abbandonato24.

I verbali delle successive visite pastorali di fine Ottocento e del Novecento riguardano esclusivamente le cappelle che si trovavano nell'abitato, una dedicata a Santa Sofia (crollata nel 1842) e l'altra dedicata a San Nicola che viene adattata come chiesa parrocchiale in seguito all'abbandono dell'antica parrocchiale di Santa Maria degli Angeli.

La nuova parrocchiale, chiesa ad una sola navata con due porte, nel 1882 era stata benedetta e vi era stata portata la statua della Vergine con la corona d'argento descritta nelle visite pastorali settecentesche alla cattedrale. Nella nuova chiesa, oltre all'altare maggiore, c'era un altare dedicato a San Severino, un organo al di sopra della porta d'ingresso e il campanile annesso alla chiesa con una campana. Le cerimonie religiose, dopo l'abbandono del borgo, sono state celebrate per diversi anni, poi c'è stato un periodo di abbandono che ha causato un forte degrado della parrocchiale, seguito da un nuovo interesse per il borgo e per la chiesa che è stata recuperata da gruppi di volontari di San Severino (in particolare si tratta dell'associazione "Pro San Severino medievale") ed è stata riaperta al culto.

Oggi la chiesa di Santa Maria degli Angeli si trova nello stato di rudere, con il tetto interamente crollato, il lato sinistro posto sullo strapiombo della collina è crollato e la facciata presenta uno squarcio verticale provocato dalla rotazione della parete verso l'esterno ora meno visibile dopo gli interventi di consolidamento operati dalla soprintendenza ai beni architettonici di Salerno. L'abside è presente solo nell'attacco alla parete di destra e il solaio della camera sepolcrale è parzialmente crollato. La soprintendenza ai Beni Architettonici di Salerno ha realizzato gli interventi di consolidamento sulla chiesa per bloccare il crollo definitivo della struttura (la quale ancora presenta degli interessanti spunti per la lettura della storia dell'architettura locale) operando soprattutto con interventi di consolidamento sulla muratura della facciata anche con una serie di cuciture armate.

Il Palazzo Baronale è l'edificio di architettura civile più importante del borgo. È stato abitato fino agli anni cinquanta e l'impianto originario occupava gran parte dell'attuale piazzetta Santa Maria degli Angeli. Lo sviluppo dell'edificio ha portato nel tempo al congiungimento di due edifici distinti; l'edificio che si affacciava sull'attuale piazzetta era l'edificio più antico di cui è pervenuto a noi solo una metà che si congiunge all'altra unità edilizia con un corpo-cerniera rettangolare chiaramente leggibile sia nella forma che nella tessitura muraria. Il palazzo si sviluppa su tre livelli senza collegamenti verticali ed è articolato secondo una rigida gerarchia che pone al livello seminterrato il frantoio (nei locali vi sono ancora le macine in pietra) e i locali di servizio; al primo livello ci sono due unità abitative, l'una con l'ingresso lungo le scale che scendono sul lato est del palazzo e l'altra con l'ingresso da via San Severino che presenta il lato ovest semi diruto in seguito alle demolizioni che gli abitanti di San Severino decisero di fare per costruire una piazza più ampia. Al secondo livello, il piano nobile del palazzo, c'è un'unica unità abitativa che presentava un modesto portale in pietra locale (ne resta solo metà) e le soglie delle finestre in arenaria finemente decorate.

L'edificio è il più imponente dell'intero borgo che si impone per la sua mole e rappresenta un fuori scala nell'economia delle altre costruzioni presenti nell'abitato.

 L'impianto urbano e le abitazioni

Le prime abitazioni sul colle sorsero nello spazio della sella più vicino alla torre25.

Costruite senza fondazioni, le case, sono poggiate direttamente sulla roccia, seguendo i rilievi naturali del colle; mentre il borgo si è sviluppato arroccato sul falsopiano roccioso in posizione sopraelevata rispetto alle prime costruzioni del "rione castello".

Sull'unica via di accesso all'abitato ("Capo di suso") si apriva una porta ("Porta nova"), nei pressi della quale non vi erano state costruite case, sia per motivi strategici che per motivi di sicurezza per i cittadini, lasciando una spazio libero nei pressi dell'unico ingresso al borgo che si era andato sviluppando nel corso del tempo26.

 Le abitazioni sono disposte quasi tutte lungo l'unico asse stradale (via San Severino) che attraversa l'intero abitato fino allo slargo27 della chiesa parrocchiale, piazzetta Santa Maria degli Angeli, e sono case basse, costituite da un vano terraneo (la zona giorno) che era adibito a luogo di lavoro, a bottega, a soggiorno; a volte c'era anche un primo piano, la stanza da letto, a cui si accedeva tramite una scala in legno con un lato addossato a una parete. Solo alcune case erano circondate da una particella di terreno, ovvero piccoli orti attigui alle abitazioni, le quali avevano anche un piccolo ambiente coperto per il ricovero degli animali.

Lo schema delle abitazioni si sviluppa in verticale, con l'ambiente a piano terra dotato del camino e l'ambiente al piano superiore che era raggiungibile tramite una scala in legno ("scalandrone") tipica delle abitazioni rurali del Cilento; le abitazioni che si sviluppano orizzontalmente, hanno l'ingresso nell'ambiente con il camino, il quale è collegato alla stanza da letto da un piccola porta.

Sicuramente sul colle non vi era molto terreno coltivabile, sono ancora visibili alcuni minuscoli spazi terrazzati, per cui gli abitanti scendevano a valle quotidianamente per le colture specializzate. Una parte consistente di case sono unite in blocchi con l'affaccio lungo la stretta via che porta alla piazzetta Santa Maria degli Angeli, sulla quale si affaccia la chiesa parrocchiale del XIX secolo.

 Aspetti amministrativi e demografici

Statuti di San Severino non sono stati ancora rinvenuti, però si può ipotizzare (come sostiene Pietro Ebner) che fossero simili a quelli di Camerota, infatti il borgo fino al XIX secolo era noto come San Severino di Camerota.

San Severino fu amministrato dall'ente pubblico territoriale da cui nacque l'università (universitas civium) rappresentata dai locali "magnifici de regimine" (sindaco ed eletti), i quali in età francese (legge del 18 ottobre 1806)28 vennero sostituiti con il sindaco e i decurioni, fino ad arrivare al sindaco e ai consiglieri comunali del Regno d'Italia.

La popolazione del borgo nel 1532 e nel 1548 era composta da 34 fuochi29, quindi 170 abitanti, nel 1595 abbiamo 115 abitanti; nel 1648 la popolazione scese a 125 abitanti (25 fuochi); nel 1669, quindici anni dopo la peste, a San Severino si contavano 95 abitanti30.

Nel 1682 il borgo ha 155 abitanti, 213 nel 1693, 201 due anni dopo e nel 1696 gli abitanti sono 226 segnando una crescita della popolazione in quattordici anni di 71 abitanti31.

Nel 1701 gli abitanti di San Severino sono aumentati di cinquanta unità e nel 1708 ci sono 307 abitanti. A metà secolo, nel 1746, gli abitanti sono 337 che scendono fino a 208 nel 1795. Gli ultimi dati sulla popolazione di San Severino sono del 1816 con 216 abitanti. Dal 1861 la popolazione di San Severino è unita a quella di Centola e nel censimento del 1961 (dopo il completo abbandono delle abitazioni sul colle) la popolazione del nuovo villaggio costruito nei pressi della stazione ferroviaria, nella vallata sottostante il colle, comprese le case sparse è di 534 abitanti.

 NOTE

1 ) G. PANE, «Architettura, urbanistica ed arte», in Il Cilento, Napoli, 1992, pag. 103.

2 ) Si tratta dei castelli di Montelmo, nei pressi di Licusati, della Molpa, nei pressi di Palinuro e di Roccagloriosa.

3 ) Tale sistema "naturale" di difesa è riscontrabile in diversi esempi urbani medievali; uno molto simile per la conformazione del sito è Civita di Bojano (Bovianum Vetus) nel Molise, antica capitale dei Pentri citata da Tito Livio: «Bovianum, hoc erat caput Pentrum».

4 ) Cfr. L. SANTORO, «Le difese di Salerno nel territorio», in Guida alla Storia di Salerno a cura di A. LEONE, G. VITOLO, Salerno, 1982, pp.520-521.

5 ) P. EBNER, Storia di un feudo del Mezzogiorno. La baronia di Novi, Roma, 1973, pag.33.

6 ) P. CANTALUPO, «La conquista Normanna», si trova in P. CANTALUPO, A. LA GRECA, a cura, Storia delle terre del Cilento antico, Acciaroli, 1989, vol.I, pp. 158-159.

7 ) Gisulfo II si mostrò poco generoso con i Normanni, anzi non mantenne le promesse fatte, per cui Umfredo e Guglielmo d'Altavilla, fratelli di Roberto il Guiscardo, penetrarono con le loro truppe nelle terre di Gisulfo, occupandone gran parte.

8 ) Si trattava di un sistema di un sistema costituito da una serie di schermi, di terrapieni, di pali appuntiti infissi obliquamente nel terreno che ottenevano il rallentamento del passo di marcia della cavalleria nemica.

9 ) «Et ainsi de un colp fu mort, et estuta la lumiere de tout li Langobart», così descrive la morte di Guido l'autore della Storia dei Normanni, AMATO di Montecassino, il quale in otto libri raccontò dal primo apparire di questo popolo nell'Italia meridionale fino al 1078. L'originale della Storia è perduto mentre ne resta una traduzione, in rozzo francese del XIII secolo, nota col titolo Istoire de li Normant par Aimé éveque et moin au Mont Cassin.

10 ) Reg. 4, f. 148, t., sta in I Registri angioini ordinati da Riccardo Filangieri con l'aiuto degli archivisti napoletani, Napoli, 1950, volume I (1265-1269), pag. 294.

11 ) Reg. 59, f. 4, sta in I Registri..., Napoli, 1992, volume XXXIX (1291-1292), pag. 79, altre notizie sono nel volume II, pag.142 e nel volume XX, pag.142.

12 ) Nel dicembre del 1291 Carlo II ordina che «per le circostanze dell'attuale guerra gran parte del Regno ha risentito di molte perdite ed ha raggiunto il massimo della desolazione» per cui "Sanctus Severinus de Camerota" insieme a molti altri centri del Cilento, venne esentato dagli oneri fiscali, come contropartita per i danni sofferti.

13 ) P. EBNER, op. cit., pp.119-121.

14 ) C. CARUCCI, La provincia di Salerno dai tempi più remoti al tramonto della fortuna normanna, Salerno, 1823.

15 ) Si tratta della torre che si erge sull'acropoli dell'antica Elea-Velia.

16 ) Il 12 febbraio 1630 venne concesso a Gerolamo Albertini il titolo di principe di San Severino.

17 ) P. EBNER, Chiesa,baroni e popolo nel Cilento, Roma, 1982, volume II, pp. 540-546.

18 ) Durante la guerra angioino-aragonese il feudo passò a Tommaso Sanseverino, capitano generale delle forze angioine, il quale con il rafforzamento di "castra", "castella" e torri lungo la linea Policastro-Basilicata, riuscì a contenere a lungo gli assalti delle truppe aragonesi e la guerriglia degli Almugàveri cui si erano unite bande siciliane, tra il 1284 e il 1299, provocando danni incalcolabili ai villaggi, soprattutto della fascia costiera.

19 ) La torre é stata costruita, probabilmente, prima dell'XI secolo, quando fu necessario realizzare una rete di fortezze tale da bloccare ogni tentativo di ulteriore conquista da parte dei bizantini e per impedire ai saraceni di penetrare all'interno durante le loro scorrerie.

20 ) La contea di Policastro confinava a nord con le terre del Mingardo e a sud con gli incerti confini dell'antico Gastaldato di Laino conquistato dai Bizantini.

21 ) «Il suo castello, che per quei tempi era fortissimo, e sicuro, ancora in una torre, ed in molta parte di sue muraglie mostra qual veramente ne' caduti secoli essere dovette, e fino all'anno MDXXXVII era ben tenuto...»; G. ANTONINI, La Lucania, Napoli, 1795, vol. I, pag. 348.

22 ) Studiosi locali farebbero risalire la costruzione della chiesa al signore di Sanseverino Tommaso II (Conte di Marsico e Barone di Cilento dal 1285 al 1320), promotore in quel periodo della costruzione della Certosa di Padula

23 ) Ci sono notizie di altre Visite Pastorali il 9 novembre 1728 (Abate Romano), il 21 gennaio 1731 (Vicario Generale Riccio Piepoli), nel dicembre 1746 (Vicario Generale Achille De Mattia), il 27 maggio 1882, il 31 luglio 1902 e il 20 maggio 1912; gli atti sono conservati nell'ARCHIVIO DIOCESANO di Vallo della Lucania; Cfr. anche P. EBNER, Chiesa, baroni e popolo nel Cilento, Roma, 1982, volume II, pp. 546-548.

24 ) Non è possibile definire con precisione gli anni in cui fu abbandonata l'antica parrocchiale, perché nelle visite pastorali c'è un salto di oltre centotrenta anni..

25 ) Le prime abitazioni furono quelle delle famiglie dei "faramanni" longobardi che costruirono le prime capanne di paglia e argilla.

26 ) Su questa via di accesso incombe un enorme masso scistoso che, durante la stagione invernale, subisce infiltrazioni d'acqua che gelifica al suo interno e con i mutamenti climatici causa il distacco di enormi massi, i quali cadendo sulla via hanno causato diversi morti, anche l'Antonini, op.cit. pag.348, ricorda «le case, fabbricate sopra quei scogli, sottoposte ad altre altissime balze, che spesso dalla montagna staccandosi, sogliono gravissimi danni a' paesani recare».

27 ) Nelle relazioni degli "Stati d'anime" settecenteschi un quartiere del borgo viene denominato «loco ubi dicitur l'Anzo nella piazza pubblica» che l'originaria conformazione del borgo sviluppato lungo Via Porticella di fronte l'antica chiesa, fa pensare a una diversa collocazione rispetto ad oggi della piazza pubblica, nei pressi del luogo di incontro per eccellenza, ovvero la chiesa.

28 ) Centola da casale dipendente dal feudatario di San Severino divenne capoluogo di comune e l'antico borgo gli fu aggregato come frazione.

29 ) Galanti per il regno di Napoli stabilisce una media di cinque persone per ogni fuoco (famiglia).

30 ) Censimento delle famiglie desumibile dagli "Stati d'anime" parrocchiali conservati presso l'ARCHIVIO DIOCESANO di Vallo della Lucania.

31 ) Cfr. F. VOLPE: Il Cilento nel secolo XVII, Napoli, 1991, pag.73.

 


Tratto da:

EMILIO BUONOMO, San Severino di Centola, Acciaroli, Centro di Promozione Culturale per il Cilento,1998.



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