Giuseppe Ungaretti nel Cilento
(Fernando La Greca)


Giuseppe Ungaretti, notissimo poeta del nostro Novecento, è meno noto come prosatore, anche perché la sua produzione è dispersa in articoli, traduzioni, saggi critici apparsi su varie riviste. Uno dei pochi volumi di prose è "Il Deserto e dopo", pubblicato nel 1961 da Mondadori, che raccoglie articoli scritti fra il 1931 e il 1934 sui suoi viaggi fra Egitto, Corsica, Italia, Olanda. La terza parte, intitolata "Mezzogiorno", comprende alcune pagine di diario sul nostro Cilento, percorso da Ungaretti nella primavera del 1932. Qui ne riportiamo alcuni passi significativi, rimandando all'opera originale il lettore più interessato (Giuseppe Ungaretti, Il Deserto e dopo, Mondadori, Milano, 1961. I brani che riguardano il Cilento sono riportati anche in Per conoscere Ungaretti. Un'antologia delle opere, a cura di Leone Piccioni, Mondadori, Milano, 1971, alle pagine 266-277).

Il primo articolo ha per titolo "Elea e la primavera". Il poeta parte in macchina da Salerno con alcuni amici verso Velia. Nel paesaggio della Piana, subito si fanno notare le bufale, che s'avvoltolano nel sudicio per non sentire le mosche, che vanno in giro con quella crosta, sulla quale cresce anche l'erba, portando le gazze che le prendono per alte zolle. Brave bestie del resto, e produttrici del latte che dà quelle squisite mozzarelle, un vanto - e perché no? - di questa regione.

Dopo la Piana, un paesaggio, per noi, di altri tempi: la rupe di Agropoli, lastricata di campicelli: E che cos'è quell'alta rupe che ci appare lastricata fino in cima da campicelli come da un'elegante geometria? E perché l'erba, quasi azzurra su quella rupe, trascolorisce irrequieta, come da un sottopelle di tatuaggio a una scorticatura smaltata? Ne vedrò più tardi l'altra anca, nuda e scabra: è la Punta d'Agropoli, e, come un canguro, sulla sua pancia, nascondendola al mare, porta la sua città: un'unica strada che le case fanno stretta, che bruscamente diventa quasi verticale, e ci offre una prospettiva di gente sparsa in moto.

Dove ho già visto queste cose? - si chiede il poeta, nato ad Alessandria d'Egitto: nell'erba quasi azzurra, nelle donne vestite di rosso, nella stradine strette trova qualcosa di familiare, e subito, consultata la guida, trova la risposta: questa costa fu assalita dagli Arabi nell'ottavo secolo; questo luogo fu una loro sede; e fu sempre meta della rabbia dei corsari...

Nella conca del Testene, la primavera da il benvenuto ai nostri viaggiatori (è tutta sole di primavera, la terra), che dopo un po' sbucano sul mare, tra i pini della costiera e poi tra gli ulivi (sono d'una foglia scura, più scura che in Liguria o in Toscana o in Provenza, e fremendo all'aria, essa mostra un argento pieno d'un'ombra più annosa) finché appare Velia, la greca Elea.

Di Elea, città di fuggiaschi, verso la quale fuggiva Cicerone, alla quale approdava Senofane dalla Ionia invasa, non resta che un colle e, su, un castello come una gran carcassa di gallo fra due torri - e null'altro? Ungaretti sale in cima raccattando tra le rovine schegge di terrecotte, e meditando sugli antichi filosofi che la abitarono: E di te, città disperata, e di voi, primi occhi aperti, o Eleati, non è rimasto altro, se non un po' di polvere? La vostra forma mortale era bene un'illusione, come tu dicevi, Parmenide; ma la vostra voce, io la sento in questo silenzio: ciò che era materia immortale in voi, è immortale. anche in questo mio corpo caduco.

Il secondo articolo, dal titolo "La pesca miracolosa", ci riporta al colle di Velia, dal quale Ungaretti guarda con meraviglia a sinistra Palinuro e a destra la foce dell'Alento, accomunati da un azzurro argenteo che è lo stesso delle genziane. Il desiderio di raggiungere Palinuro via mare lo spinge con gli amici fino a Pioppi per noleggiare una paranza a motore. Qui trova confermate le sue esperienze sul carattere dei cilentani: Il proprietario, signor Pinto, la fa subito mettere gratuitamente a nostra disposizione, e vuole anche si accetti in casa sua una tazza di caffè. Non sono particolari insignificanti, e non sono i soli che m'hanno dimostrato la cordialità della gente di queste parti. Ho fatto quest'esperienza, anche avvicinando persone di umili condizioni: non entrano nei fatti vostri; vi rivolgono di rado la parola, ma non perché timidi o privi d'eloquenza, ma perché assenti in propri pensieri. Ma basta che esprimiate un desiderio, ed eccoli farsi a pezzi per accontentarvi: lo fanno per inclinazione a farsi benvolere, e mi pare ormai civiltà assai rara. Terra ospitale, terra d'asilo!

Sulla barca, verso Palinuro, il pensiero va alle torri costiere, e a quello che hanno significato per questi luoghi, terra d'asilo, e terra da preda! ... brama di razziatori. La costa si fa rocciosa, sovrastata da monti ricoperti da ciuffi d'ulivi (ulivi, sempre ulivi!), appare l'abitato di Pisciotta, e contemporaneamente Palinuro:

In quel mentre, mentre passiamo di fianco a Pisciotta, ci appare, penetrato nel mare, Palinuro, come uno squalo smisurato, cariato d'oro. Pisciotta si svolge in tre fasce su una parete: la più alta è il vecchio paese, di case gravi e brune e a grandi arcate; in mezzo, sono ulivi sparsi come pecore a frotte; la terza, a livello dell'acqua, la formano case nuove e leggere, i cui muri sembrano torniti dall'aria in peristili.

Impossibile non riportare le righe successive, bellissime, su Palinuro:

Ed ora gli ulivi hanno un alone di luce intorno alle foglie, come i santi.

Ora i monti che ci fiancheggiano vanno avanti e indietro, e alcuni arrivano ritti sull'acqua, e altri, prostrati, appiattiti, si prolungano in orazione verso l'acqua [...].

Di colpo, il mare in un punto ha un forte fremito: è un branco d'anatre marzaiole che si rimettono in viaggio. Sono arrivate sull'alba, e ora che principia l'imbrunire, volano via. Così fuggì quel Dio Sonno sceso a tradire Palinuro mandandolo in malora col timone spezzato. E le onde, ora repentinamente infuriate, le muove forse il nuoto disperato del fedele nocchiere d'Enea?

Piccole grotte ora ci fanno compagnia. I cavalloni penetrando in quegli occhi bui, disturbano le pietre, muovendo un rumore d'antiche ossa.

Il Porto di Palinuro ha le casette bianche, e l'ultima è rosa: sembrano sulle prime biancheria stesa ad asciugare, e poi blocchetti di gesso. [...]

Non ho mai visto acqua di pari trasparenza a quella che scopro avvicinandomi al porto. Vediamo la sabbia del letto come pettinata soavemente, e i nastri delle alghe trasformare in serpenti agitati, la bella capigliatura.

Visitata la grotta azzurra, il poeta assiste al ritorno dei pescatori, ed ascolta i loro racconti su una pesca miracolosa: E già quasi notte, e in fila tornano in porto i pescatori d'alici. Raccogliendo le reti, una sera, a una maglia restò presa non la gola d'un pesciolino, ma a un cernecchio, una testa d'Apollo [...]. L'ho veduta al Museo di Salerno, e sarà prassitelica o ellenistica, poco importa; ma questo volto, che per più di duemil'anni fu lavorato dal mare nel suo fondo, ha nella sua patina tutti i colori che oggi abbiamo visto, ha conchigliette negli orecchi e nelle narici: ha nel suo sorriso indulgente e fremente, non so quale canto di giovinezza risuscitata! Oh! tu sei la forza serena e la bellezza. Quale augurio non ci reca quest'immagine che fra gli ulivi, è finalmente tornata fra noi.

Il terzo articolo, dal titolo "La rosa di Pesto", ci propone ancora descrizioni e considerazioni, questa volta su Paestum e i suoi templi. Non c'è più, nella Piana, la palude, ma forse proprio ad essa dobbiamo la conservazione di quegli straordinari monumenti:

Circondandoli di febbre, seminando per tante miglia all'ingiro la paura, il tempo ha difeso per noi dalla morte il miracolo della loro forza. Che vediamo crescere, dominare, farsi arida, tremenda, disumana, e farsi pura idea via via che ci avviciniamo.

Ora che siamo vicini, avviene che uno stormo di cornacchie si mette in fuga dal tempio di Poseidone; e appena in aria, una prima cornacchia lancia il suo gracchio; le altre rispondono rifacendo più e più volte quel verso. Di nuovo il corifeo strazia l'aria: questa volta i gracchi erano due, di tono nettamente più acuto; e il coro ripete i versacci accelerando il ritmo. Dopo, esse, in una confusione di strilli, spariscono... Sarà per averci fatto il nido da tante mai generazioni, sarà caso, sarà natura di questi uccelli atri, ma la metrica del loro canto è quella del tempio.

Non ve lo starò a descrivere. Dirò solo che, davanti, il timpano e le colonne doriche ci mostrano un travertino come un vetro infiammato: nel cuore della pietra brucia la luce che non consuma, e traspare la sua indifferenza sacra. Ai lati c'è invece il senso tragico del deperire: colonne vuotate dai lunghi anni con i labirinti della carie; e hanno un aspetto di funghi rugginosi, e anche di mummie tolte dalle fasce. Ed allora girandogli intorno, l'uomo raggiunge l'ultimo limite dell'idea del suo nulla, al cospetto d'un'arte che colla sua giusta misura lo schiaccia. Gli altri due templi, più tenui di colore, d'un lavoro più grazioso, meno religioso, sembrano, non avendo più ritte che le colonne del perimetro, vecchie gabbie buttate lì.

Seguono alcune considerazioni su Pitagora e l'idea della perfezione, insita nei templi. Intanto, passeggiando con gli amici sugli antichi selciati e fra i pietrami, si fa sera. Su una delle porte, aleggia una luna all'ultimo quarto.

Questa piana rivedrà presto tornare le sue rose celebrate; ma il cielo ha qualche rosa, ora, e stasera la loro brevità è fulminea.

Mirabar celerem fugitiva aetate rapinam;
Et, dum nascuntur, consenuisse rosas.

Oh, le cose seducenti passano, e la misura, che, senza misericordia, le fa apparire mutevoli, è, in quel tempio, d'un'impassibilità agghiacciante!

Venga dal numero o venga dal sogno, la bellezza può non essere orrenda?

Tutto il resto che ci commuove, non verrà se non da malinconia.

Il viaggio di Ungaretti nei luoghi virgiliani continua ancora con Ercolano, il Vesuvio, Pompei, Napoli, sempre nella sezione "Mezzogiorno" de Il Deserto e dopo. In seguito, recupererà paesaggi ed impressioni di questo viaggio scrivendo "La Terra Promessa". E' un poema drammatico rimasto frammentario, ispirato alla missione di Enea, che sbarca in Italia dopo aver abbandonato Didone a Cartagine, e dopo aver perso il nocchiero Palinuro. Qui la natura, il paesaggio si fa emozione, sentimento, mito. Enea, bello, giovane e ingenuo, va in cerca della terra promessa per la fondazione della nuova Troia. Ma non c'è terra promessa per Didone abbandonata e declinante, disperata per la perdita di Enea, per la perdita irreparabile della giovinezza, dell'amore. Palinuro è il nocchiero che dovrebbe condurre Enea verso la terra promessa. Ma questa si rivela un'illusione, e la bravura del nocchiero non basta: Palinuro, trascinato nel sonno fra le onde, non potrà mai raggiungerla. Si tratta, per dirla con le parole dello stesso Ungaretti, di una "riflessione metafisica sulle condizioni dell'uomo nell'universo, sulle sue profonde aspirazioni, sulla sua sostanza di essere universale e sul suo costante fallire che si rinnova ogni giorno con una medesima morte e una medesima aurora" (Per conoscere Ungaretti, cit. pag. 352, Commento alla Canzone della "Terra Promessa". Vd. G. Ungaretti, La Terra Promessa, Mondadori, Milano, 1950).



Tratto da:
Fernando La Greca, "Viaggiatori antichi e moderni nel Cilento: Giuseppe Ungaretti", in Annali Cilentani, n. 6, 1992, pp. 89-93.



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