Il vino di Moio della Civitella
attraverso la documentazione enologica
del Museo della Civiltà Contadina del luogo
di Giuseppe Stifano
Lo studioso di etnografia che visita il Museo della Civiltà Contadina di Moio della
Civitella resta meravigliato dell'ingente dovizia di reperti che arricchiscono la sezione
enologica. Tale ricchezza testimonia come il settore vinicolo sia stato, nel passato, un
pilastro portante della risorsa economica della gente del luogo.
La coltivazione a vigneto di cinquantamila (50.000) are di terra, nell'agro di Moio della
Civitella, con mezzi rudimentali, quali un aratro a chiodo o una zappa a due o a tre
denti, non è stata una cosa facile per i viticoltori del luogo. Però la tenacia e il
forte spirito di attaccamento alla coltura della vite di questi lontani figli del popolo
degli Enotri ha fatto del loro lavoro un prodotto degno di encomio e di elogio.
A questi appassionati lavoratori di Moio della Civitella accomuniamo anche quelli della
frazione Pellare, paese molto citato, anticamente, nella storiografia del vino, sia per la
sua notorietà quanto per la sua vetustà. Nel Museo, infatti, è esposta in gigantografia
una pagina di storia locale, che attesta il commercio del vino da Pellare alla Corte
Vicereale di Napoli, già nel lontano 1571 (1). A confermare questa antica vocazione dei
pellaresi, nel campo enologico, ci viene in soccorso un ritrovamento archeologico fatto,
nel 1978, da Giuseppe Puglia. Nel rimettere a nuovo la sua cantina, posta in un vecchio
quartiere di Pellare, rinvenne la base di un arcaico strettoio in pietra arenaria, su cui
sono scalpellati molti segni mitologici della cultura greco-romana (fig. 1).
In versione anni 1881, tale strettoio al completo è presente nella rassegna museale e
costituisce un'attrazione assai rilevante (fig. 2).
Accanto a questo modello conosciuto già dai Greci e dal Romani, ve ne sono altri di vario
tipo, basati sulla spirale a vite, tecnica ampiamente diffusa dopo il grande uso che ne
fece Leonardo da Vinci (fig. 3).
Fig. 1 - Disegno della base del torchio.
A rendere più copiosa la sezione enologica concorrono anche altri reperti presenti in
una pseudo cantina, quali un maestoso tino e una grandiosa botte, nonché svariate
tinozze, alcuni barili, una pompa idrovora per i travasi, pigiatrici meccaniche,
zolforatrici.
A proposito delle zolforatrici, strumenti atti a somministrare lo zolfo alle viti, è bene
precisare che vennero usate nella seconda metà del secolo scorso.
Infatti, nel 1847, comparve in Europa (2), e precisamente in Francia, la malattia
dell'oidio o dello zolfo, portata da alcuni emigranti europei dall'America.
Le prime notizie della presenza nel Cilento di tale malattia sono del 1852 e provengono
dai diari della famiglia Basile di Ascea (3).
Accanto a questi rari esemplari di zolforatrici vi sono anche delle primordiali
irroratrici, ossia degli strumenti usati per irrorare sostanze antiparassitarie alla vite,
ammalata di "plasmopara viticola", ugualmente giunta in Europa dal Continente
Nuovo, intorno all'anno 1878 (4).
Tale malattia è presente in questa plaga, nei vigneti di Castel San Lorenzo, già nel
1910, come si rileva in una lettera indirizzata a Mario Giosuffi e C. di Napoli il 29
settembre, da Pasquale Ruggiero, commissario in vini di Moio della Civitella (5).
29 settembre '10
M. Giosuffi e C. Napoli
In mie mani vs preg/me del 22 e del 24 c. mese.
In esse rilevo che non vi dimenticate di me e ve ne sono grato. Mi rincresce non poter
contentare vs cliente pei vini di Castel S. Lorenzo, perché in questo anno sono stati
peronosperati, e non buoni per esportazione, tanto che diversi miei amici di codesto posto
sonosi rivolti ad altri siti.
Volendo ns vini che sono superiori a quelli di Castello sono subito a servirvi. Intanto
tenetemi presente, che da parte mia lavorerò per vs conto, e diversi miei amici mi hanno
promesso essere fra breve da voi.
Nulla sul momento posso precisarvi per le 50 bordolesi presso il D'Orsi, ed attendo in
giornata un loro riscontro per sapere se insistono imbarcare novellamente coll'attività,
dato ciò passerò voi ordine per metterla voi in partenza col vapore Espagna, che secondo
dettomi trovo tutta la mia convenienza. Mi spero che la passate benissimo in salute.
Starete in attesa di altri miei scritti, ed intanto vi saluto con stima.
Pasquale Ruggiero
Non priva di una certa importanza è la vetrinetta che accoglie molti oggetti che
potrebbero sembrare di nessun valore ma invece documentano con quanta accortezza veniva
curata la vite. Infatti, gli svariati coltelli per innesti, presenti, ci confermano la
misura esatta della capacità dei viticoltori nella selezione delle varietà della vite
presenti in loco: aglianico, guarnaccia, piedi di palummo, malvasia e mangiaguerra.
Fig. 2 - Torchio del tipo greco-romano.
Con la nascita delle Cattedre Ambulanti, intorno alla fine del secolo, da parte del
Ministero dell'Agricoltura, molti tecnici statali, circolando per le campagne, suggerivano
modi e norme da praticare per ottenere un buon prodotto. Cosi nel Comune di Vallo della
Lucania, a cui fu aggregato quello di Moio della Civitella dal gennaio 1929 al gennaio del
1945, i viticoltori furono ampiamente aiutati nella conduzione tecnica dei loro vigneti.
Ai controlli agresti si aggiunsero al chiuso anche dei corsi di specializzazione in
Enologia, tenuti a Pellare nell'ottobre del 1929.
Nella vetrinetta troviamo, altresì, un mostimetro, utensile usato dai viticoltori per
misurare il grado zuccherino delle uve, consentendo loro di effettuare la vendemmia nel
momento giusto della maturazione di esse.
Fig. 3 - Torchio basato sulla spirale a vite.
La prima regola per ottenere un buon vino e quella di raccogliere l'uva al punto giusto
di maturazione. Infatti, l'uva poco matura è scarsa di zucchero, molto acida e reca sulla
buccia poco lieviti, ossia poco organismi capaci di far effettuare la fermentazione.
L'uva troppo matura, al contrario, dà un mosto molto ricco di zuccheri e scarso di acidi,
per cui si presta ad essere attaccato da microrganismi diversi dai lieviti i quali
producono un vino poco alcoolico e di difficile conservazione. Il rapporto tra acidi e
zuccheri deve essere di uno a tre, ossia al momento della vendemmia l'uva deve contenere
otto gradi di acidi e ventiquattro di zuccheri, oppure sette di acidi e 21 di zuccheri.
Pertanto, controllando il grado degli zuccheri e quello degli acidi con il mostimetro e
l'acidimetro si può avere una vendemmia perfetta.
Certamente a Pellare e a Moio, paesi dediti alla coltivazione della vite, tutte le aziende
più in vista usavano tali strumenti e di tanto ne sono personalmente testimone perché
mio padre, rilevante produttore di vino, passava per le vigne prima della vendemmia ed
effettuava tale campionatura.
Questa operazione di controllo delle uve per pellaresi e moiesi era molto scrupolosa, in
quanto incideva sulla qualità del vino.
Essa consisteva nel verificare, ancora, se l'uva era grandinata, danneggiata dalla
peronospera o ammuffita.
Per tutti questi malanni il vinicoltore adottava un trattamento speciale
nell'AMMOSTAMENTO ossia nella vendemmia.
Per l'uva grandinata, ossia maltrattata dalla grandine, si ricorreva alla vinificazione in
bianco, consistente nell'asportare raspi e bucce.
Per effettuare tale operazione, i contadini di Moio e Pellare usavano pigiare l'uva in un
recipiente forato a forma di madia, chiamato in dialetto "mattrale", il quale
tratteneva le vinacce e lasciava passare soltanto il mosto, aggiungendovi poi vinacce
vergini.
Tale attrezzi sono presenti in diverse versioni nella rassegna museale di Moio.
La vinificazione delle uve peronosperate dava luogo sempre a produzioni di vini
anomali; ad eliminare o a correggere tale prodotto conveniva effettuare l'ammostamento in
bianco o semibianco e facendo, poi, precipitare il mosto da una certa altezza all'aria
aperta, detto appunto "sbattimento".
Tutto ciò si effettuava a Moio e a Pellare con un mastello posto ad un'altezza di metri
tre, entro cui era posto il mosto da "sbattere". il quale fuoriusciva attraverso
un foro e precipitava in un altro mastello posto a terra.
Dopo questa operazione il mosto, privo di colloidi azotati, veniva versato in un tino onde
consentirgli di effettuare la dovuta fermentazione.
Tutti questi arnesi necessari a ottemperare tale operazione sono conservati con cura nel
museo, onde testimoniare alle generazioni future la correzione pratica e non chimica della
produzione vinicola.
Per l'uva ammuffita, che determinava un vino dal sapore "fungino", si usava
effettuare l'ammostamento con lo stesso metodo della vinificazione in bianco, separando il
mosto dalle vinacce per poi versarlo tra vinacce sane.
Dopo tale accurato trattamento diversificato aveva inizio la fermentazione del mosto.
A Moio e a Pellare l'ammostamento, realizzato secondo i detti canoni, non molto difformi
da quelli scientifici, veniva controllato assiduamente.
Massima attenzione veniva riservata al processo di fermentazione, per cui nel momento in
cui avveniva, i vinicultori del luogo la notte la trascorrevano, buona parte, in bianco.
Ognuno di loro era intento a controllare la temperatura calorica della fermentazione con
un comune termometro perché tale temperatura non superasse i 37 o 38 gradi.
Appena si accorgevano che questi livelli tendevano a crescere effettuavano il famoso
"governo", ossia aggiungevano dell'uva fresca pigiata, che avevano appositamente
conservata in idonei recipienti nella cantina. Questi contenitori, chiamati
"tinieddi", ossia tinelli, sono bene evidenziati nel Museo locale.
Ebbene, quest'uva di fresco pigiata faceva scendere il livello calorico del mosto,
consentendogli una regolare fermentazione.
Terminato il processo fermentativo, dopo otto o dieci giorni si passava alla svinatura
consistente nel travaso del vino in capienti botti e nella torchiatura delle vinacce.
A facilitare il travaso usavano delle pompe idrovore, anch'esse presenti nella raccolta
museografica, mentre alla fine dello scorso secolo usavano degli appositi barili.
Il vino così travasato restava per tutto l'inverno in botti, vigilato dall'occhio attento
del suo produttore. A primavera, poi, aveva luogo il secondo travaso, dal quale veniva
fuori il tipico vino del luogo, quale quello da "tavola" o quello detto da
"taglio".
Il vino da "tavola" detto appunto di Moio o guarnaccia, aveva le seguenti
caratteristiche: "...colore rosso rubino intenso, odore tenue, sapore asciutto con
lieve sentore di mandorla con gradazione intorno ai gradi 12,5".
Il vino da "taglio", detto di Pellare, aveva le seguenti caratteristiche:
"...colore rosso rubino vivo con schiuma rossa ed abbondante; odore piacevole con
lieve sentore aromatico; sapore asciutto con caratteristica vena mandorlata. Raggiungeva
circa 14 gradi".
Di questi vini pregiati restano, ora, pochissimi produttori, in quanto molti contadini
vendono le uve a degli accorti ed astuti commercianti, che le vinificano per proprio
conto.
Tornando alla nostra carrellata documentaria enologica del Museo, rileviamo come nella
vetrinetta ci sono conservate le testimonianze storiche di una accorta e avveduta
produzione vinicola.
Fig. 8 - Damigiana e bottiglia
E' conservato, nella stessa, un ebulliometro, apparecchio atto a misurare il grado
alcoolico del vino, strumento utilissimo ai produttori perché consentiva loro di poter
fissare il prezzo del vino in base al grado di esso.
Accanto all'ebulliometro vi sono dei raschiatoi, strumenti usati dai vinicoltori per la
pulizia delle gigantesche botti ad un mese dal loro svuotamento.
Inoltre, la stessa accoglie anche delle bilancine tascabili, molto usate per la loro
praticità dai viticoltori, nel momento dell'operazione della dosatura della POLTIGLIA
BORDOLESE.
Dopo questa veloce carrellata su alcuni dei principali oggetti raccolti nel Museo, è il
caso di spendere qualche parola anche sul vino, prodotto che tanto benessere ha dato ai
due centri che compongono il Comune.
Le prime notizie storiche su questo prelibato prodotto sono ricavabili, come detto
innanzi, dal notaio Francesco Antonio Valletta contenute in un atto del 30 aprile del 1571
e propriamente quando Cesare Longo, fratello di Maria Beatrice Longo, fondatrice
dell'Ospedale degli Incurabili di Napoli, esercitava da Pellare a Napoli il commercio del
vino. Certamente per esportare il vino di Pellare alla corte Vicereale di Napoli, il
prodotto doveva godere una tale rinomanza da sopportare tutte le concorrenze non esclusa
quella del vino del Vesuvio, la "lacrima Christi".
Forse in virtù di tale commercio il paese era molto ricco, tanto da essere additato dagli
altri casali dello stato feudale di Gioi, di cui faceva parte, come uno dei più ricchi
(6).
Fanno seguito a queste prime notizie quelle dello storico locale, arciprete don Giuseppe
Alario e di De Giorgi (7).
Lo storico Alario, essendo di Moio, consiglia ai suoi concittadini i mezzi per migliorare
le proprie condizioni di esistenza, per cui li invita alla coltivazione della vite da
effettuare con criteri più razionali.
In alcune pagine del suo testo storico dice: "Io ricordo che in un anno forse del
decennio che il nostro Regno fu occupato dai Francesi, fatto il calcolo prudenziale, si
raccolsero circa cinquemila barili di mosto". Una produzione per quei tempi molto
rilevante, tenendo presente che il barile, quale misura di capacità del tempo, toccava la
quantità di litri 43,62.
Certamente i duemila ettolitri di vino, secondo i calcoli, non potevano trovare
collocazione commerciale in loco bensì in mercati più appetibili, quali quello della
capitale, Napoli.
All'indomani dell'unità d'Italia il prodotto fu fatto conoscere anche oltre i confini
nazionali. Così l'indimenticabile segretario comunale, Giovanni Alario, proprietario di
vasti vigneti, che con competenza e passione aveva creato, partecipò all'Esposizione
Mondiale di Parigi con il suo vino tipico del luogo, ottenendo una medaglia d'oro di prima
classe (8).
Dopo tale eclatante successo gli sbocchi commerciali si allargarono, conquistando i
mercati d'oltre Oceano: Argentina e Brasile. L'esportazione verso il Nuovo Continente fu
favorita, oltretutto, dalle qualità organolettiche del prodotto, in quanto era l'unico
vino a resistere alle temperature equatoriali, nell'attraversare l'Oceano Atlantico.
A curare tale esportazione commerciale fu il sig. Pasquale Ruggiero di Moio col titolo di Commissario
In Vini, il quale, a sua volta, si serviva di altri collaboratori, vedi il sig.
Mario Bustelli, abitante a Calle de Fenza, 152, Buenos Aires (Argentina) e il sig. Antonio
Criscuolo, Rue de Mosca, 638, San Paolo (Brasile) (9).
L'economia di Moio e Pellare, man mano che cresceva la commercializzazione, che sul finire
del secolo aveva già toccato i seimila ettolitri, migliorava intensamente (10), rendendo
la popolazione del luogo una delle più benestanti del territorio.
Nel primo decennio dell'attuale secolo, il commissario in vini, sig. Pasquale Ruggiero,
allargò la sua area commerciale anche al Nord America, scegliendo come suoi collaboratori
i fratelli Grisanti di Luzzara (Reggio Emilia), Alfredo D'Orsi di Napoli e Francesco
Rotoli di New York (11), i quali consentirono l'esportazione della quasi totalità della
produzione.
Alla fine del Primo Conflitto Mondiale, 1914-18, il commercio si estese ai mercati del
Nord Italia, Lombardia e Piemonte. In quest'area d'importazione, il vino di Moio e Pellare
trovò facile collocazione perché servì a correggere i vini locali, scarsi di colore e
di gradazione.
Quest'apertura commerciale indusse i viticoltori di Moio e Pellare ad ampliare l'area di
coltivazione della vite. Furono, così, messe a coltura altre estensioni di terra,
coprendo una vastissima area del Comune, compresa tra il fiume Badolato e il ruscello Li
Varchi, affluente del torrente La Fiumarella.
In pochi anni la produzione salì vertiginosamente, raggiungendo sul finire degli anni '20
i trentamila ettolitri per poi toccare alla fine degli anni '30 i quarantacinquemila
ettolitri (12).
Con l'aumento della produzione e della conseguente commercializzazione sorsero altri
intermediari, chiamati MEDIATORI. Così accanto al sig. Pasquale Ruggiero (13) operarono
nel settore delle esportazioni dal 1930 al 1940 il sig. Remigio Rizzo, Vincenzo Torrusio,
Marco di Genio e Aniello De Vita.
Con l'arrivo del Secondo Conflitto Mondiale la situazione vinicola di Moio e Pellare subì
una profonda crisi per l'impossibilità di spedire vini nel Nord Italia a causa dei
bombardamenti e per la scarsezza di mano d'opera, dovuta alla chiamata alle armi di molti
operai.
Cessata la guerra, buona parte dei vigneti furono distrutti dalla maledetta malattia della
FILOSSERA, creando una profonda crisi economica nei due centri, Moio e Pellare. Ha inizio,
così, la tanto famigerata emigrazione verso il Venezuela e altri paesi dell'Europa,
Belgio, Germania e Svizzera.
Nel concludere questa carrellata sul vino di Moio e Pellare, rivolgo un caloroso appello
alle nuove generazioni del luogo affinché tornino alle attività agricole dei loro avi, i
quali fecero grande economicamente il loro paese natio.
Non dimentichino che nel passato i loro antenati seppero tener alto il nome del proprio
paese, mediante il lavoro e l'amore che profusero nei loro vigneti.
Ritornino alle origini perché è la sola risorsa economica che li possa tenere legati
alla propria terra, altrimenti debbono, ahimé, prendere la via dell'emigrazione che tanti
dispiaceri ha dato alle nostre genti all'indomani del Secondo Conflitto Mondiale, quando
la fillossera invase i nostri campi e distrusse i nostri ubertosi vigneti.
Si rimbocchino le maniche e facciano ricorso al loro atavico ingegno e spirito di
sacrificio, facendo rinascere i gloriosi e storici vigneti.
1) P. Ebner, Storia di un feudo del Mezzogiorno: la Baronia di Novi, Roma,
1973, pag. 602.
2) P. Fedele, Grande Dizionario Enciclopedico, Torino, 1960, Voce: OIDIO.
3) Volpe, La Borghesia di Provincia, Napoli, 1991, pag.156.
4) P. Fedele, Dizionario Enciclopedico, Torino, Voce: PLASMOPARA.
5) P. Ruggiero, Copia lettera (manoscritto), pag.110.
6) P. Arcangelo Pergamo, Regesto delle pergamene di S. Mauro Cilento, Perito e
Ostigliano, Salerno, 1966, pag. 55.
7) Giuseppe Alario, Cenno Istorico su Moio,Vallo, 1986, pag. 58; C. De
Giorgi, Da Salerno al Cilento, Firenze, 1882, pag. 49.
8) ROMA (quotidiano) del 10 gennaio 1967.
9) Inserto Pubblicitario sulla copertina del libro "Primo centenario della Rivolta
del Cilento", a cura di Ulisse De Dominicis, Numero Ricordo, San Paolo Brasile, 1928.
10) Pasquale Ruggiero, Copia Lettere (manoscritto), pagg. 1-52 del 1892.
11) Pasquale Ruggiero, Copia lettere (manoscritto), pagg. 52-136, anno 1910.
12) Alfonso Lavini, ex agente dell'Ufficio Imposte Consumo di Vallo della Lucania, con la
sua testimonianza verbale.
13) Ditte Importatrici del Nord Italia operanti con il sig. Pasquale Ruggiero: a) Italo
Celoria; b) Conte Panza; c) Luigi Accorrente; d) Alberto Noseda; tutti di Milano. Ditte
Importatrici del Nord Italia operanti con Remigio Rizzo: a) Antonio la Porta di
Abbiategrasso (MI); b) Accatino Luigi di Novara; c) Lorenzo Vanaone di Pavia, d) Ernesto
Novarese di Casale Monferrato (AL); e) Fratelli Sommaria di Poggibonsi (SI). Ditte
Importatrici del Nord Italia operanti con Vincenzo Torrusio: a) Cesare Longhi di Milano;
b) Paolo Coletto di Milano; c) Alberto Scavazzo di Genova; d) F. Bellazzi di Melegnano
d'Asti.
(Tratto da:
LUIGI ROSSI (a cura di), Il vino nel Cilento dai Greci al D.O.C., Centro di
Promozione Culturale per il Cilento,1994, pp. 233-244)
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