Non c'é
dubbio che il terremoto funziona come rinvio ad altro, come evento che obbliga coloro che
sono coinvolti a mettersi a nudo, a rivelarsi a se stessi e agli altri. Perciò, pur
girato in 'esterni' il film, per ammissione della regista, non ha il carattere esplicito
di denuncia (sulle carenze nei soccorsi e nella ricostruzione) ma tende a dare la misura
degli stravolgimenti individuali, nella famiglia, nel lavoro, nell'equilibrio
interpersonale. Proprio in questo ambito emergono lacune e carenze. Non è mai chiaro che
cosa la Archibugi voglia comunicare: la rassegnazione, la rabbia, l'indifferenza?. I
rapporti tra i personaggi sono confusi e non di rado superficiali, i dialoghi sono
arruffati e inconcludenti, manca (o rimane a metà) la costruzione interna di ciascun
protagonista. Troppe situazioni (la mamma di Gianni, l'insegnante Betty...) rimangono
artificiose e inespresse. Inattendibile al limite dell'irritante è il rapporto tra le due
bambine, con accenni di morbosità superflua e inutile. Si può dedurre che al crollo del
paese segua il crollo dei rapporti affettivi ma tutto è detto con toni acidi e scostanti,
con la rassegnazione di prendere atto che il domani non arriva più. Resta l'impressione
di un film irrisolto e di una difficoltà da parte della Archibugi nel trattare temi
sentimentali e psicologici. Dal punto di vista pastorale, la valutazione è quella del
discutibile, per lasciare adito ad una riflessione il più aperta possibile, e
sottolinenando che ambiguo é il tono prevalente del film. |