A.I. ARTIFICIAL INTELLIGENCE - a cura di Corrado Pirovine

Regia di Steven Spielberg. Con Haley Joel Osment, Jude Law, William Hurt, Frances O'Connor.
Soggetto di Stanley Kubrick
(vedere sezione dedicata al maestro).

Cosa si può dire di un film che mette insieme due dei maggiori nomi della storia del cinema tutta?
Sicuramente si può dire che è un film che fa riflettere. E non poco.
Ispirato ad un racconto di Brian Aldiss ("Supertoys last all summer long") che colpì in modo particolare Stanley Kubrick, "A.I." viene portato sul grande schermo da Spielberg che con Kubrick aveva precedentemente definito, durante gli ultimi 19 anni, ogni minimo dettaglio a partire dagli storyboard. Fu proprio Stanley infatti, a decidere che Steven dovesse girare la pellicola perchè "troppo più vicina alla sua mentalità". Ed infatti è proprio così: certo il sentimentalismo estremo della narrazione e la limpidezza visiva sono peculiarità proprie della regia di Spielberg ma tutto è velato dal pessimismo, da una cupa ombra di tristezza, sensazioni che si ritrovano più nello struggente e bellissimo racconto di Aldiss che in Kubrick il quale comunque è presente in modo assai concreto.

Protagonista è David (uno straordinario Haley Joel Osment per il quale si sprecherebbero gli elogi, probabilmente candidato al premio Oscar), "mecha" di nuova generazione adottato da una coppia in crisi per la grave malattia del figlioletto ricoverato da tempo in ospedale; quando quest'ultimo torna a casa, monopolizzando l'attenzione dei genitori, David viene abbandonato ma, da novello Pinocchio, non rinuncia al desiderio di poter essere considerato un bambino, al punto di decidere di mettersi alla ricerca della Fata Turchina. Lo accompagnerà nel suo viaggio, totalmente illusorio, il "mecha" Gigolò Joe (Jude Law). Che la traccia del film sia ripresa dalla favola di Collodi è evidente, così come è evidente, per chi ha letto il racconto, che tale traccia non è presente in Aldiss e dunque risulta introdotta dalla straordinaria collaborazione tra i due registi. Infatti se Spielberg è di fatto colui che ha girato la pellicola, è Kubrick che ne muove i fili, da abile burattinaio quale è sempre stato; lo spirito di Stanley è presente in tutto il film e coopera con Steven, il quale con leggerezza si distacca per la prima volta nella sua carriera dalla narrazione, quasi facendosi da parte; e questo distaccamento è proprio una peculiarità prettamente legata alla cinematografia kubrickiana. Certamente sono presenti aspetti superflui che Kubrick mai avrebbe mostrato (la Fiera dei "mecha", qualche sentimentalismo di troppo, specie nella parte finale del film) ma complessivamente non si può afferamare che ci siano note stonate o che la narrazione devii verso il farsesco, come è stato detto negli U.S.A.

Dunque il binomio Kubrick-Spielberg ha funzionato; il genio di Stanley è riuscito a guidare per quanto riguarda la regia la mano dolce e delicata del sapiente Steven in un'opera che, volendo analizzare soltanto da un punto di vista tecnico e dunque superficiale è di Kubrick per la fotografia e per la recitazione e gli sguardi dei personaggi, è di Spielberg per la scenografia e la brillantezza delle immagini, è di Kubrick per il soggetto e dunque l'idea della storia ma è di Spielberg per il modo con cui essa è narrata; un' opera che è di Steven per la bellezza visiva dell'esposizione ma è assolutamente kubrickiana per il fatto che si insinua, giorno dopo giorno nello spettatore il quale è costretto dal suo stesso inconscio a pensare, a ricordare continuamente il desiderio di quel bambino robot ed il suo incontro impossibile eppure eterno con la Fata Turchina.
Quindi i due stili si sono fusi e non poteva essere altrimenti visto che le premesse erano troppo dark per Spielberg e troppo light per Kubrick: il risultato è un connubio quasi perfetto, una delle pellicole più interessanti e intelligenti degli ultimi anni che si eleva su gradini ben più elevati delle produzioni hollywoodiane dei giorni nostri.
Perchè?
Semplicemente perchè fa riflettere.