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SERGIO BONELLI PARLA DEI SUOI RAPPORTI COL PADRE (ORA SCOMPARSO) E DEI SUOI VIAGGI IN TRENO

L’orfano Tex Willer

di Marcello Moriondo

A soli sei anni dalla scomparsa del primo disegnatore di Tex Willer, il bravo Aurelio Galleppini, in arte Galep, anche il creatore del leggendario personaggio, Gian Luigi Bonelli, classe 1908, in un gelido giorno di gennaio, ci ha lasciati. "Le avventure in treno di Tex", l’opera pregevole curata da Franco Rebagliati, edita grazie alla Società Cesare Pozzo, alla luce del triste accadimento, assume un aspetto completamente diverso a quello desiderato. Da omaggio a un ormai mitico personaggio e ai suoi trascorsi fumetto/ferroviari, si trasforma in una sorta di commemorazione per un artista che ha precorso i tempi promulgando il fumetto, non solo come oggetto di puro svago, ma anche quale divulgatore di cultura. In un periodo in cui i disegni integrati dalle nuvole parlanti erano banditi dalle aule scolastiche, le pubblicazioni curate tra gli altri da Gian Luigi Bonelli si diffondevano tra i ragazzi che si riconoscevano in quegli eroi di carta, grazie anche al linguaggio e ai tic che uscivano da quelle pagine, molto simili alla generazione del secondo dopoguerra.

"Se n’è andato dopo tre anni di sofferenze" dice il figlio di Gian Luigi, Sergio Bonelli, titolare della casa editrice di Tex.

A pochi giorni dalla sua scomparsa, puoi dirmi che rapporto avevi con tuo padre? C’era molto dialogo fra di voi?

Noi ci siamo sempre parlati tanto e abbiamo avuto, per fortuna molti momenti di non lavoro passati insieme. I momenti difficili erano sempre quelli legati al lavoro, dove lui aveva un atteggiamento diverso dal mio che era certamente meno serio. Era totalmente immerso nel lavoro che faceva, senza inserire nelle sue storie la minima ironia che al contrario inserivo io. Credeva seriamente nel fumetto quale mezzo di comunicazione degno dell’alta letteratura, mentre io affrontavo la cosa con disinvoltura, intravedendoci la possibilità di un divertimento. Soprattutto aveva un’idea molto drammatica ed eroica del racconto, mentre io pensavo che c’era posto anche per il sorriso, che si poteva mandare il messaggio che dopotutto si poteva anche scherzare. La sua immedesimazione nei personaggi gli permetteva tuttavia di fare delle cose molto belle.

Io e lui ci regalavamo anche molti spazi nel tempo libero. Andavamo a nuotare insieme, a sciare, che a lui piaceva tanto, facevamo delle gite, andavamo al cinema, fuori a colazione. Ci ho pensato molto in questi giorni e credo che ci conoscessimo molto bene, coi nostri pregi e difetti. Credo non ci siano cose che lui non mi abbia detto, perché era un uomo estroverso e mi diceva tutto quello che gli passava per la testa. Si definiva libero e sincero, e poteva permetterselo. Non occupandosi di cose reali e pesanti come gestire un’azienda, era padrone di se stesso, scriveva le sue storie senza preoccuparsi di andare d’accordo col centralinista, col disegnatore o il portiere. Era un uomo che parlava schietto.

In Tex appaiono spesso i treni. Che rapporto hai con la strada ferrata?

Io ho un rapporto, direi buono, tanto che avrei sempre voglia di prendere il treno. Purtroppo, in proporzione ci riesco abbastanza poco, perché magari mi saltano certi orari, e allora molte volte ripiego sulla macchina. L’auto mi concede di scegliere un orario improvvisato, mentre il treno è severissimo e mi obbliga a partire col tassì verso la stazione al momento prestabilito. Il mio rapporto col treno sarebbe ancora migliore se potessi usarlo più spesso, come mi è successo in India o in posti un po’ più strani, perché mi consente di leggere o di fare qualcosa d’altro. Quindi considero il tempo passato in macchina sprecato irrimediabilmente, mentre se vado a Roma o a Parigi via ferrovia e leggo, penso sia tempo ben usato. Ora, per esempio, sto partendo per Angouléme, in Francia, dove ogni anno si svolge una famosa riunione di fumettari, e da Parigi raggiungeremo Angouléme in treno. Io sono felicissimo perché durante il viaggio mi troverò a fare una bella chiacchierata con Alfredo Castelli e gli altri amici di Milano. Se fossi in auto, invece di chiacchierare mi innervosirei. Un’altra cosa che mi piace fare in treno è dormire e quando vado a Parigi scelgo sempre i convogli notturni. Inoltre non vedo l’ora di fare un viaggio sul TGV Parigi-Marsiglia, che ancora mi manca. Poi c’è una cosa curiosa: se vado a Firenze o a Roma mi piace stare al vagone ristorante. Sedermi al ristorante è una delle mie libidini perché mi piace tutto: osservare la gente intorno a me, mangiare mentre guardo la campagna che scorre. Mi piace persino l’idea (e qui non tutti saranno d’accordo, perché la gente è incontentabile) che mi venga servita la pastasciutta come quand’ero a militare e cioè che c’è una cosa comune e ognuno ne riceve un pezzo. Mi diverte questa comunione, con i presenti che accettano quello che passa loro il convento, dato che il vagone ristorante non ha 100.000 possibilità.

Ricordi qualche episodio particolare del tuo passato, magari da ragazzino, legato al treno?

Una cosa cui penso spesso risale al 1945, alla primavera dei miei 12 anni. A causa della guerra eravamo sfollati in un paese alle spalle di Rapallo. Dopo l’arrivo dei partigiani e degli americani, verso la fine di aprile, mia madre e io decidemmo di tornare a Milano, sì, ma come? La linea ferroviaria era accidentata a causa dei bombardamenti, quindi inforcammo due biciclette e pedalammo per una cinquantina di chilometri fino a Genova su quelle strade dissestate. Una grande emozione fu, arrivati a Recco, incontrare un grosso ponte ferroviario, tra i primi a essere bombardati e une delle cause del blocco. Scesi sulla spiaggia, risalimmo per Genova, dove una specie di treno per i buoi ci trasportò lentamente fino a Milano. E’ difficile dimenticare la speranza vissuta di trovare finalmente un treno che ti porti verso casa, mentre stai attraversando in bicicletta binari contorti, ponti distrutti e le rovine della guerra.

Un altro ricordo, più piacevole, mi riporta in Egitto, dove siamo rimasti bloccati con l’auto perché non c’era più la pista. L’unica alternativa per arrivare in Sudan, era caricare la macchina sul treno. Così abbiamo fatto circa otto ore di treno, belli tranquilli, guardando fuori dal finestrino della nostra auto. La cosa curiosa è che essendo i passeggeri e il personale mussulmani, ogni mezz’ora fermavano il treno per dire le preghiere: loro giù a pregare e noi tranquilli in macchina a bere e mangiare.

Quando ti firmi come sceneggiatore, usi lo pseudonimo di Guido Nolitta. Da dove arriva questo nome?

Ci sono due versioni e a furia di raccontarle non ricordo più quale sia quella vera. Una è che l’ho scelto a caso sfogliando le pagine di una guida telefonica. La seconda, ripensandoci, mi sembra la più sicura. A volte si inventano dei nomignoli che magari non significano nulla e quando ero ragazzino, avevo uno zio abbastanza giovane che mi chiamava Gnolitta. Non so se in milanese gnolo voglia dire qualcosa, fatto sta che lui continuava a chiamarmi così, mentre da parte mia si era stabilita una forma di accettazione del soprannome. Così al momento opportuno è stata la scelta di un secondo, G è diventata l’iniziale del nome, che non poteva essere Giovanni come mio padre, quindi Guido e Nolitta il cognome.

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