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SHINING E LA POETICA DEL CONFLITTO: REFERENZE EJZENŠTEJNIANE NEL CINEMA DI STANLEY KUBRICK.

Regia di: Stanley Kubrick
Attori: Jack Nicholson (Jack Torrance), Shelley Duvall (Wendy Torrance), Danny Lloyd (Danny Torrance), Scatman Crothers (Dick Hallorann), Barry Nelson (Stuart Ullman), Philip Stone (Delbert Grady), Joe Turkel (Lloyd, il barista dell'Overlook), Anne Jackson (dottore) Tony Burton (Larry Durkin), Lia Beldam (la giovane nel bagno), Billie Gibson (la signora nel bagno), Barry Dennen (Bill Watson), David Baxt (prima guardia forestale) Manning Redwood (seconda guardia forestale), Lisa Burns (figlia di Delbert Grady), Louise Burns (figlia di Delbert Grady), Robin Pappas (nurse), Alison Coleridge (Suzie, la segretaria del signor Ulman), Burnell Tucker (il poliziotto), Jana Sheldon (cameriera), Kate Phelps (l'addetta alla ricezione), Norman Gay (l'ospite ferito) e Vivian Kubrick (l'ospite che fuma sul divano della sala da ballo - non accreditata)
Musica originale: Wendy Carlos e Rachel Elkind
Musica non originale: Béla Bartók (da "Music for Strings, Percussion, and Celesta"), György Ligeti e Krzysztof Penderecki
Direttore della fotografia: John Alcott
Montaggio: Ray Lovejoy
Costumi: Milena Canonero
Titolo originale: The Shining
Origine: USA 1980
Durata: 120'

Indagare la filosofia estetica di un artista come Stanley Kubrick significa cimentarsi con una poetica tra le più raffinate e complesse che il cinema mondiale abbia saputo esprimere negli ultimi cinquant’anni. Considerata la vastità del problema, è utile concentrare l’analisi estetica su un singolo lavoro le cui peculiarità formali e di contenuto siano coerenti con l’opera dell’artista ma che, al contempo, siano sufficientemente solide da meritare un’indagine circoscritta: Shining del 1980 possiede queste caratteristiche e su di esse cercherò di concentrare l’attenzione del lettore.

Fino ad ora la critica ha giustamente esaltato l’esclusività dello stile originalissimo del cineasta americano senza, tuttavia, sforzarsi di indagare con la dovuta profondità i debiti intellettuali ed estetici che Kubrick ha spesso dimostrato di contrarre con quei maestri che lo hanno preceduto (tra i più citati ci sono Fritz Lang per la magnificenza dei suoi teatri di posa e Max Ophüls per la leggerezza e la vertiginosa mobilità della sua macchina da presa) e che esprimono una validità interpretativa autorevole per contemplare meglio alcune delle scelte stilistiche del cineasta americano.

Per iniziare a cogliere alcune di queste peculiarità presenti in Shining mi sembra opportuno fare una prima doverosa annotazione preliminare riguardante un aspetto filologico niente affatto marginale. Attualmente il pubblico italiano ha potuto vedere una versione del film identica a quella disponibile sul circuito internazionale: grazie a Riccardo Aragno e Mario Maldesi, rispettivamente adattatore e direttore del doppiaggio del film, è stato possibile, con un eccelso lavoro, restituire al pubblico italiano la maggior parte delle sfumature linguistiche e fonetiche sottilmente ricercate da Kubrick in fase di sceneggiatura e di direzione degli attori. Tuttavia, è poco noto che lo stesso regista abbia pensato, per il solo mercato nordamericano, ad una versione diversa del film che risulta, infatti, più lunga di circa 25 minuti. Le differenze più evidenti riguardano il taglio di un’intera scena e di alcune sequenze relative ad altrettanti episodi narrativi, sparsi lungo tutta la durata del film. L’intera scena tagliata, in particolare, mostra la visita di una dottoressa nella casa dei Torrence in seguito al primo "luccichio" di Danny: la scena risulta importante ai fini del discorso sul conflitto perché mostra le incalzanti domande rivolte a Wendy dalla dottoressa che infine riesce ad essere informata (e ad informare lo spettatore) sui trascorsi violenti del padre-marito Jack le cui reali intenzioni verso la famiglia saranno visibili solo nel finale del film. Questo particolare risulterà particolarmente rilevante per corroborare alcune ipotesi, relative alla coerenza tra conflittualità sin-tattica e intra-piano e conflittualità coniugale, che saranno sottolineate durante l’analisi della scena presa in esame. Di queste discrepanze ci rendono conto sia Norman Kagan sia Michel Ciment ma con una sostanziale differenza. Mentre l’autore americano, infatti, dedica una annotazione finale al tema nel capitolo dedicato a Shining, Ciment, pur utilizzando le parole pronunciate da Jack Nicholson a proposito dell’aspetto "homey" dell’appartamento assegnato alla famiglia Torrence, ad esempio, dimentica di sottolineare che proprio questo brevissimo frammento del film, in cui è presente la battuta, è stato eliminato dal regista per la versione internazionale. Inoltre Ciment, nella nota filmografica, riporta come ruolo tagliato nell’edizione finale del film quello della dottoressa, interpretata da Ann Jackson, personaggio che invece è presente nella versione americana e di cui parla lo stesso Kagan nel suo lavoro1.

L’opportunità di compiere un lavoro critico di questa natura ha avuto, infine, il merito di sollecitare una proficua ricerca di referenti filosofici in grado di delineare e approfondire le peculiarità espressive dell’arte cinematografica: come spesso accade in queste circostanze è stato possibile prima rintracciare e poi interloquire con alcune figure eminenti del pensiero filosofico ed estetico contemporaneo che, pur essendo ormai dimenticate o addirittura ostracizzate per inspiegabili e misteriosi motivi da gran parte della critica, hanno saputo, per la loro imponente levatura intellettuale, per la straordinaria raffinatezza delle loro argomentazioni e per lo spessore critico del loro pensiero, stimolare e arricchire molte delle riflessioni teoriche qui presentate.

IL CONCETTO DI OBRAZ

Il rapporto di Kubrick con l’opera di Ejzenštejn (teorica e artistica) è sempre stato relegato ai margini dell’esegesi kubrickiana, eccezion fatta per alcuni brevi accenni fatti da Ciment in diversi scritti e da Sandro Bernardi2. Mi riferisco, nello specifico, a due fonti particolari. Nella monografia del 1997 sul cineasta americano, curata per la Biennale di Venezia, Ciment fa esplicito riferimento alle riflessioni del giovane Kubrick sulla settima arte in seguito alla lettura assidua dei testi di Pudovkin sulla recitazione e a quelli di Ejzenštejn sul suono e la musica. Ancora più evidente diventa il riferimento ad Ejzenštejn in un passo della monografia di Ciment su Kubrick: "I suoi gusti erano – e sono rimasti – eclettici, la sua curiosità sempre sveglia ed il suo interesse per i problemi formali sempre costante. Dopo aver confessato che la lettura a quell’epoca, dei libri di Ejzenštejn non lo aveva impressionato, aggiunge: "La più grande riuscita di Ejzenštejn sta nella bellezza della composizione dell’inquadratura e del montaggio. […] In effetti tutti coloro che sono seriamente interessati alle diverse tecniche cinematografiche dovrebbero studiarsi Ejzenštejn e Chaplin."" (le parole di Kubrick riportate da Ciment si trovano in Joseph Gelmis, The Film Director as Superstar, Doubleday, New York, 1970, pp. 293-316.) 3. Eppure sono molte le analogie stilistiche tra i due cineasti che appaiono accomunati da una maniacale attenzione al dettaglio capace di rendere espressiva ogni singola immagine dei loro film. Sergej M. Ejzenštejn utilizza, in proposito, uno specifico vocabolo russo, obraz, in cui, mi pare, sia perfettamente condensato il nocciolo del problema: con questa espressione, infatti, Ejzenštejn intende la possibilità di rendere un concetto mediante un’immagine, un proposito artistico che ha trovato la piena applicazione soprattutto nella sua idea di montaggio.

Su questo aspetto di estetica cinematografica appare opportuno fare una precisazione legata alle questioni sollevate da della Volpe nel suo noto saggio sul verosimile filmico. Il filosofo, infatti, sembra non tener conto di questo fondamentale ejzenštejniano quando, molto acutamente, ci riferisce della peculiarità dell’espressione artistica del cinema e rifacendosi alle parole dello stesso Ejzenštejn sembra sintetizzare, involontariamente, il termine obraz in questi straordinari e illuminanti termini: "Ma per concludere, non sarà superfluo richiamare ancora le ragioni (della tecnica) che sole ci permettono poi di distinguere il verosimile filmico da quello letterario e così via, e di non fare di ogni erba fascio. Sono esse che ci costringono ad ammettere, e che spiegano, non solo che il visivo-filmico leone rivoluzionario di Ejzenštejn è, vedemmo, intraducibile letterariamente ossia in verosimiglianza letteraria (scadrebbe a banalità), com’è intraducibile parimente in verosimile filmico o pittorico o scultorio il dantesco leone "che parea che l’aere ne temesse". […] C’è, dunque, il verosimile filmico, ch’è la "immagine" filmico-artistica: cioè la "concreta forma" o idea filmica che Pudovkin teorico intende, si è visto da principio, distinguere dall’idea letteraria, dal verosimile verbale, che il soggettista gli offre. Idea, quest’ultima, che, per quanto brillante in sé, non è appunto, per il regista consapevole, che "astratto contenuto" ossia altra materia che con l’arte del regista ha solamente un rapporto accidentale, il rapporto né più né meno che hanno i leoni reali e le cerve reali (sprovviste queste, nonché di corna auree, di corna affatto) col leone di Ejzenštejn e con la cerva di Pindaro."4. Quello che accomuna della Volpe e Ejzenštejn è, indubbiamente, una concezione dell’arte come fonte di conoscenza e non come mera espressione del sentimento: della Volpe, infatti, parla di problema gnoseologico dell’arte in generale e del cinema in particolare, mentre la particolarissima visione artistica di Ejzenštejn vede il cinema non come riproduzione oggettiva del reale, ma come una sua particolare interpretazione, costituita e fondata da un preciso discorso elaborato dal regista. Gli influssi ejzenštejniani sull’estetica dellavolpiana, tuttavia, sono molto meno marcati di quanto non appaia se si tien conto del ruolo giocato, in quegli anni, dal crocianesimo in seno al dibattito sull’arte cinematografica e, mi pare, implicitamente presente negli scritti del filosofo dedicati al cinema. Come afferma Massimo Modica, infatti, la maggiore preoccupazione di della Volpe era costituita dalla necessità di confutare quelle ipotesi tipiche dei crociani di sinistra che vedevano nell’arte un mezzo atto ad esprimere sentimenti e passioni, e nel rivalutare al contempo gli elementi razionali dell’arte sintetizzati dal problema gnoseologico, un problema filosofico che sarà, oltretutto, alla base della Critica del Gusto del 19605.

Per meglio comprendere le implicazioni estetiche della questione, è utile far riferimento alla nota lessicale redatta da Paolo Gobetti per l’edizione italiana di una raccolta di saggi del cineasta sovietico: in questa nota, infatti, troviamo in seconda battuta proprio il termine obraz, tradotto in italiano con il generico vocabolo di "immagine". "In tutto un suo saggio Ejzenštejn intende con immagine la resa di un concetto per mezzo di una raffigurazione. E abbiamo perciò in certi casi usato l’espressione "concetto figurato" o "figurazione concettuale". Si tenga inoltre presente che obraz in russo ha anche un aggettivo da cui si forma un nuovo sostantivo: qualcosa come "immaginità", ossia la resa per immagini."6 (corsivo di Gobetti). Questa definizione di obraz sembra aderire perfettamente alla ricercatezza formale del profilmico e, dunque, della messa in scena di tutto il cinema di Kubrick: ogni elemento dell’inquadratura acquisisce un senso preciso sia rispetto alle inquadrature precedenti e successive sia rispetto ai temi di cui è intrisa la singola opera. Questa raffinatezza è particolarmente coerente con lo stile artigianale del regista americano che sovente profondeva i suoi sforzi creativi, intellettuali e produttivi per diversi anni quando era impegnato in un progetto cinematografico: basti pensare che tra Barry Lyndon e Shining passarono circa cinque anni, molti dei quali passati a cercare un libro da cui poter ricavare una sceneggiatura per un film7.

La stimolazione filosofica espressa dal termine obraz, risiede nella questione riguardante la natura ontologica dell’arte cinematografica: l’arte cinematografica può, in altri termini, rappresentare uno strumento di conoscenza e di diffusione della conoscenza? Un cineasta può, ancora meglio, definirsi un intellettuale che nelle sue opere mette in scena o rappresenta concetti o riflessioni sull’esistenza umana? Il problema filosofico insito nel concetto ejzenštejniano di obraz riguarda proprio le possibilità espressive e comunicative offerte dalle immagini che un regista, quando consapevole e attento, deve saper plasmare a proprio piacimento per ottenere un precisa e coerente corrispondenza tra contenuto narrativo (che spesso in Kubrick si sovrappone al contenuto filosofico delle sue opere) e forma visiva. Il rapporto tra forma e contenuto nel film è, dunque, l’essenza stessa dell’arte filmica e l’obraz è la sua migliore sintesi concettuale. Come già intuito da della Volpe, infatti, sono questi i due termini fondamentali della questione ed è su questo piano filosofico, rilanciato dalla natura inscindibile del loro rapporto che il regista deve porsi non ignorando, in fase di creazione poetica, di avere il compito artistico di andare oltre la mera espressione verbale di un’idea che, seppur eccellente, è stata concepita in sede di sceneggiatura, un momento di creatività e di espressione artistica che usa, come è intuitivo comprendere, dei codici semantici diversi da quelli cinematografici. Il salto qualitativo nel cinema riguarda proprio la trasposizione del verbale nell’immagine e senza dubbio Kubrick è uno dei rarissimi casi di cineasti profondamente cosciente di questa peculiarità, ben espressa da Ejzenštejn con il termine obraz e sottilmente intuita da della Volpe in tutti i suoi scritti di estetica cinematografica8.

Il problema fondamentale rispetto alla creazione di autentiche obraz-dinamico-visive (concepite, meditate e realizzate) riguarda la variabile tempo di cui Kubrick era ben consapevole e che ha spesso causato, nella creazione e messa a punto delle sue opere, tempi di realizzazione estremamente dilatati. Mi pare vi siano, dunque, tutte le premesse creative e artistiche per poter attribuire all’artista americano una concezione del cinema fondata sulla comprensione, rielaborazione ed utilizzo del fondamentale ejzenštejniano di obraz..

IL CONFLITTO COME ELEMENTO DI POETICA FILMICA

Un altro elemento su cui è imperniata la poetica di tutto il cinema di Ejzenštejn è determinato dal conflitto che rappresenta, a mio modo di vedere, il fulcro estetico di Shining. Montaggio, composizione dell’inquadratura, suono, musica e dialoghi sono sapientemente calibrati dal regista americano per ottenere una equilibrata composizione dell’oggetto filmico in grado di riprodurre la legge estetica ejzenštejniana del conflitto. Uno dei temi narrativi centrali di Shining, inoltre, è costituito proprio dal conflitto interno alla famiglia e ai suoi membri che in diverse occasioni dimostrano un’incapacità di reggere il peso delle loro inadeguatezze di ruolo e individuali: difficoltà di relazione che sfociano in un conflitto distruttivo che vede l’antagonismo del padre trasformarsi in furia omicida verso la diade edipica madre-figlio. Abbiamo, dunque, la possibilità di indagare una concreta corrispondenza tra un principio estetico, determinato dal conflitto interno all’inquadratura e tra i piani, e uno dei temi narrativi presenti nella sceneggiatura del film e costituito dal conflitto intrafamiliare: una poetica al servizio di precise esigenze narrative, in cui sono perfettamente fusi nuclei drammatici, eventi rappresentati e specifiche scelte di estetica cinematografica.

Per Ejzenštejn la riproduzione filmica oggettiva della realtà non costituisce di per sé un metodo interessante di riflessione artistica. È imprescindibile, invece, il senso che del fenomenico si trae mediante una sua specifica interpretazione. Il montaggio diviene, per Ejzenštejn, un potente strumento estetico mediante il quale ottenere questo fine, elaborare questo logos: il montaggio è dunque assimilabile alla costruzione del senso artistico. Alla base della stessa concezione del montaggio come produttore di senso vi è il conflitto che non si attesta solo nella sin-tassi filmica ma anche all’interno di una singola cellula del montaggio: "L’inquadratura non è affatto un elemento del montaggio. L’inquadratura è una cellula del montaggio. […] Ma che cosa dunque caratterizza il montaggio e quindi la sua cellula o inquadratura? Lo scontro. Il conflitto di due pezzi opposti l’uno all’altro. Il conflitto. Lo scontro."9. La critica ha spesso constatato come non si sia mai sviluppata una vera e propria scuola ejzenštejniana in cui si mettessero a frutto le intuizioni e le ipotesi di estetica del suo geniale autore. Tuttavia sono molti i cineasti che hanno saputo ravvisare l’importanza di queste intuizioni e tra questi si può certamente annoverare lo stesso Kubrick, come autorevolmente ci spiega Gianni Rondolino che in un suo scritto ci dimostra gli influssi ejzenštejniani sul montaggio di una sequenza chiave di 2001: Odissea nello spazio. Come riferisce lo stesso Rondolino: "Sebbene molte delle ipotesi di Ejzenštejn non siano sopravvissute al loro geniale ideatore e non sia nata, per ragioni molteplici, una vera e propria scuola ejzenštejniana, l’idea di un montaggio semantico, dalla funzione connotativa, non è morta col suo più accanito fautore, come può ad esempio, testimoniare l’analisi di una sequenza di 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odissey, Stanley Kubrick, 1968)."10 Nella successiva e puntuale analisi della famosa sequenza in cui la scimmia "Guarda la luna" comprende che un osso si può trasformare in uno straordinario strumento di offesa e dominio, Rondolino ravvisa nell’innesto di alcuni fotogrammi extradiegetici, raffiguranti il monolito e il tapiro che stramazza al suolo, la concreta dimostrazione di un riuscito di montaggio semantico.11 Un altro evidente esempio di apprendimento della lezione sul montaggio semantico da parte di un regista della generazione postbellica americana è rintracciabile in Apocalypse Now (1979) di Coppola nella sequenza finale dell’omicidio di Kurtz ad opera di Willard che viene alternata al rituale sacrificale di un bue. La stessa struttura di montaggio così concepito, seppur con diversi intenti semantici, è presentata da Ejzenštejn nella sequenza finale di Sciopero (1924) mediante il montaggio della scena dell’uccisione degli operai con la scena dei buoi scannati al mattatoio. In entrambi i casi, comunque, per mezzo del montaggio viene introdotto un concetto astratto nella mente dello spettatore, senza ricorrere a nessun espediente verbale: nel film di Coppola manca il dialogo, in quello di Ejzenštejn mancano le didascalie.

Se dunque Kubrick può essere definito come uno degli allievi più raffinati del maestro sovietico è lecito, altresì, ravvisare anche in altri lavori la stessa referenza poetica: Shining possiede le medesime peculiarità artistiche di 2001: Odissea nello spazio, le stesse che hanno autorizzato Rondolino ad avanzare le ipotesi di considerare Kubrick un entusiasta discepolo di Ejzenštejn.

LA PERTINENZA TEORICA DELLE IPOTESI RISPETTO A SHINING

Dunque perché proprio un film dell’orrore per decidere di affrontare la questione degli influssi ejzenštejniani sulla poetica del cinema di Kubrick? La scelta di Shining è stata operata per ragioni riguardanti la sua particolare genesi e per l’impiego artistico-filmico di alcune riflessioni fatte da Freud a proposito del perturbante e riprese dallo stesso cineasta americano sia in sede di scrittura sia, soprattutto, in sede di messa in scena12. Lo scritto, un articolo pubblicato da Freud nel 1919 per la rivista Imago, come è noto, rappresenta una delle non rare incursioni nell’estetica operate dal padre della psicanalisi e concerne il tema del pauroso nell’arte. La coerenza di questo scritto con le proposte di estetica cinematografica riguardanti il film è fondata sulla certezza della lettura dello scritto da parte del cineasta americano e confermate dallo stesso Kubrick in alcune interviste rilasciate subito dopo l’uscita del film. In particolare mi riferisco a tre diverse fonti, tutte quante, per diversi motivi, autorevoli. L’intervista rilasciata da Kubrick a Michel Ciment e pubblicata nella sua monografia sul regista è decisiva a riguardo. Gli stessi Lo Brutto e Kagan, inoltre, fanno riferimento alla stessa circostanza nei loro volumi.

La nascita del film avviene in seguito ad alcuni tentativi falliti di intraprendere alcuni progetti che in seguito vennero realizzati da altri cineasti, come quello ricordato da Lo Brutto su Quinto potere13. A Kubrick interessò, in particolare, l’aspetto metafisico della trama e i risvolti di psicopatologia dello scrittore protagonista del romanzo di Stephen King. Per raccontare sullo schermo una storia dell’orrore forte e potente era importante elaborare dei meccanismi narrativi che producessero negli spettatori delle reazioni in grado di toccare il loro lato inconscio. Secondo le dichiarazioni rilasciate da Diane Johnson, collaboratrice di Kubrick durante la stesura della sceneggiatura, il fine della sceneggiatura doveva riguardare la sua verosimiglianza: "deve essere plausibile, non usare trucchi da quattro soldi, non avere buchi nella trama, né essere carente nelle motivazioni…deve essere completamente spaventoso." (corsivo dell’autore)14. Come si vedrà più avanti, queste parole sembrano parafrasare un importante principio aristotelico, ripreso anche da della Volpe, e riguardante il verosimile nell’arte: "In generale l’impossibile deve essere ricondotto o alla poesia o al meglio o all’opinione corrente. In rapporto alla poesia un credibile impossibile è da preferirsi ad un incredibile anche se possibile"15. Oltre a queste caratteristiche, diciamo razionali, secondo Kubrick nel film era necessario costruire meccanismi narrativi in grado di distogliere lo spettatore da analisi troppo intellettuali che finissero con il rendere irreale la vicenda: "Una vicenda soprannaturale non può essere dissezionata ed analizzata troppo da vicino. Ha una sua logica solo se funziona in modo da farvi rizzare i capelli. Se invece state troppo incollati ai dettagli per analizzarli, la vicenda apparirà assurda. Nel suo saggio sul perturbante (Das Unheimliche) Freud affermò che il perturbante costituisce l’unica sensazione che si provi con maggior forza sia nell’arte sia nella vita."16

Il riferimento alla verosimiglianza diviene particolarmente interessante se si tiene conto che Kubrick ha deciso con Shining di lavorare su un piano narrativo permeato da irrazionalità e fantasia ed in cui siano presenti temi e atmosfere tipiche della letteratura e della cinematografia fantastica. La persistenza delle caratteristiche del cinema di Kubrick, votato da sempre ad un realismo sorprendente (sia in senso scenografico, sia in termini di messa in scena e sia in riferimento alla recitazione), sono in Shining particolarmente funzionali alla rappresentazione del concetto di perturbante: un razionalismo estetico (espresso, come indirettamente sottolinea il regista, dall’adeguamento alla complessa legge aristotelica della verosimiglianza) assurto da Kubrick come "via règia" per realizzare un coinvolgimento emotivo e profondo dello spettatore. L’arte di Kubrick si presta, dunque, ad essere interpretata non solo come fonte di conoscenza (il problema gnoseologico di della Volpe) grazie all’eccellente padronanza del mezzo espressivo di cui dispone, ma, soprattutto, come un mezzo perfettamente adeguato per la rappresentazione di un’idea, di un concetto, il perturbante appunto che è, in primo luogo, foriero di emozioni ataviche e profonde: un ossimoro estetico e filosofico realizzato da immagini cariche contemporaneamente di significati e di emozioni, delle obraz-dinamiche che rendano più sorprendenti ed interessanti le finalità di un’opera deliberatamente realizzata dal regista per dialogare con il lato inconscio e oscuro del pubblico.

Il tema del conflitto, allora, diviene ancora più pertinente se si pone l’accento su queste osservazioni di natura estetica e filosofica. La coerenza e l’adeguatezza di queste ipotesi sono interne sia all’oggetto epistemologico di riferimento sia a tutta l’opera del cineasta americano che si è sempre dimostrato attento a ricercare questo duplice piano espressivo caratterizzato da elementi che conducessero lo spettatore non solo a riflessioni di natura intellettuale ma anche a coinvolgimenti di origine emotiva e che hanno consentito alla critica internazionale di definire la sua arte universale, per i temi che in essa sono racchiusi e per la straordinaria capacità comunicativa ed evocativa dimostrata delle sue immagini17.

FREUD E ARISTOTELE: UNA QUESTIONE DI ESTETICA

Rispetto alla questione sollevata da Freud sul perturbante e sui suoi legami con il reale è necessario riprendere alcune concetti espressi nell’omonimo articolo. Sigmund Freud nel 1919 (anno non a caso legato al caso cinematografico de Il gabinetto del dr. Caligari di Wiene) si cimentò con il tema dell’orrore letterario componendo un breve ma acutissimo articolo sulla rivista Imago. Freud individua nella narrativa e nella letteratura in generale alcuni elementi (molti dei quali presenti anche nel film) capaci di creare una sensazione appunto perturbante: il doppio, il confine tra fantasia e realtà che si fa sempre più labile, il perpetuo ritorno dell’eguale, degli stessi destini e delle stesse imprese delittuose, il famigliare (l’heimlich), che diviene perturbante (l’unheimlich). In particolare, Freud per rendere più solide le sue argomentazioni si serve dell’indagine etimologica, resa ancor più valida dal confronto con altre lingue diverse da quella tedesca: riferendosi al vocabolario tedesco, riesce a sintetizzare le sue ipotesi di partenza, facendo notare come l’espressione heimlich (familiare) giunga in un’accezione particolare a coincidere con il suo contrario unheimlich (perturbante). Secondo Freud, in estrema sintesi, la condizione di maggior disagio perturbante si viene a creare soprattutto di fronte a fenomeni che sono per noi familiari ma che, proprio per questo, risultano spaventosi: lo stupore e, dunque, il sentimento perturbante creato dall’arte o dalla realtà si viene a creare nel soggetto quando egli, di fronte a fenomeni particolari (comportamenti, avvenimenti o oggetti), incomincia a sperimentare un dilemma relativo all’ipotesi che i convincimenti passati e orami ritenuti immeritevoli di guadagnare la sua fede si dimostrino, oltre ogni ragionevole dubbio, rispondenti al reale. Il perturbante, dunque, secondo Freud nasce da ciò che è stato superato (o in generale rimosso) e che invece riemerge per prendere contatto con noi e le nostre ormai assodate convinzioni: questo principio, come ricorda anche Kubrick, può operare sia nell’arte che nella vita quotidiana ed è facile intuire quale aumento di inquietudine sarà in grado di ottenere il poeta se egli si porrà sul terreno della realtà concreta. Tuttavia Freud precisa nel suo saggio: "Molte cose che sarebbero perturbanti se accedessero nella vita non sono perturbanti nella poesia. Nella poesia, per ottenere effetti perturbanti, esistono una quantità di mezzi di cui la vita non può disporre." (corsivo dell’autore)18

In ultimo Freud ricorda al lettore quanto questi principi siano già noti agli studiosi di estetica che prima di lui si sono cimentati con l’argomento. Questa ultima annotazione del medico viennese, oltre a consegnare al lettore una straordinaria figura di studioso che non rifugge dai suoi limiti intellettuali, sembra far esplicito riferimento ad alcune considerazioni espresse da Aristotele nella sua Poetica. In particolare il filosofo greco si dimostra particolarmente sensibile alla differenza tra storia e poesia, ravvisando in entrambi i casi un’analoga propensione per la ricerca del vero. Tuttavia, come ben si potrà intuire, sono diversi i modi in cui è affrontata questa ricerca: lo storico racconta o dovrebbe raccontare quello che è avvenuto, mentre il poeta descriverà le cose che sarebbero potute accadere o che sia plausibile siano accadute. Aristotele attribuisce a questa sostanziale differenza la superiorità del poeta rispetto allo storico: "Perciò la poesia è cosa di maggior fondamento teorico e più importante della storia perché la poesia dice piuttosto gli universali, la storia i particolari."19. Per Aristotele, dunque, la poesia, e in generale l’arte, sono dotati di una straordinaria potenza sintetica e sono sinonimi di universalità: l’individuo ha maggiori possibilità conoscitive sul reale mediante la fruizione dell’opera d’arte e questo grazie alla rappresentazione artistica che non è una banale creazione di un’immagine (anche filmica aggiungo io) che riproduce in maniera accurata un modello, ma la riproduzione di ciò che è universale in quello stesso modello. Qui il problema è puramente gnoseologico e non concerne gli aspetti psicologici o emotivi della fruizione artistica ed è lo stesso Freud (!) ad ammettere la sentenza aristotelica quando dice che: "Nei confronti della vita reale noi ci comportiamo generalmente in maniera uniformemente passiva e soggiacciamo all’influenza di ciò che accade. Nei confronti dell’artista, invece, siamo stranamente docili: mediante lo stato d’animo in cui ci traspone e le aspettative che desta in noi, l’artista può distogliere i nostri processi emotivi da un certo esito per dirigerli verso un esito diverso, e spesso può ricavare dallo stesso materiale effetti disparatissimi. Tutto ciò è noto da tempo ed è stato probabilmente valutato a fondo dagli specialisti di estetica."20. L’universalità aristotelica è racchiusa in quegli "effetti disparatissimi" di cui parla Freud. Notevole rimane, inoltre, la resa intellettuale dello psicanalista di fronte agli "specialisti di estetica" tra i quali, a mio modo di vedere, è facile riconoscere la imponente figura di Aristotele che rappresenta, inconfutabilmente, il padre dell’estetica in senso assoluto. Ulteriore nota di rilievo rispetto al discorso freudiano rimane la constatazione dell’atteggiamento di uniforme passività di fronte al reale mantenuta dal soggetto che, dunque, non ricava conoscenza da ciò che accade o da ciò che gli si dice sia accaduto, ma da ciò che il confronto coll’arte del poeta gli procura, un processo epistemologico attraverso cui egli sa cogliere quell’universalità del modello di cui parla Aristotele.

LA POTENZA DELLE IMMAGINI

È necessario ora rinvenire all’interno del film una scena particolarmente espressiva e necessariamente coerente con i propositi ermeneutici fin qui delineati. Ritengo sia inoltre opportuno legare i temi di estetica rilanciati poco fa con la specificità dell’arte cinematografica.

Mi riferisco, per inciso, al primo conflitto di coppia che ha luogo nella Colorado Lodge dove osserviamo il personaggio di Jack che, occupato a battere a macchina, viene disturbato nella sua opera creativa dall’improvviso arrivo di sua moglie Wendy.

In primo luogo, seguendo le indicazioni di Metz21, chiamo scena il segmento preso in esame per l’assenza di qualsiasi ellisse temporale e, dunque, per la coincidenza tra tempo della storia e tempo della narrazione. È necessario, tuttavia, considerare un rapporto di dipendenza semantica tra questa scena e quella precedente: un raccordo sonoro, infatti, permette di avanzare un preciso collegamento tra le due e di annotare quanto l’incontro di Danny con la stanza proibita 237 possa essere la causa del primo conflitto familiare cui assistiamo. La musica, qui sincronizzata con il ticchettio della macchina da scrivere per ottenere un montaggio verticale22, è senza ombra di dubbio di natura extradiegetica ed è evidente il contributo dell’istanza narrante nell’invitare lo spettatore a mettere in relazione le due vicende: gli spiriti dell’albergo percepiti da Danny con un luccichio sono i principali responsabili del comportamento distruttivo di Jack.

Il brano usato da Kubrick in questo due scene è l’"Adagio" della Musica per archi, percussioni e celesta di Béla Bartók, del 1936: scritta per l’orchestra di Basilea, questa composizione è stata ritenuta per molti anni il capolavoro orchestrale del musicista ungherese, se non altro per la straordinaria e indimenticabile suggestione che se ne sprigiona, una caratteristica questa di cui Kubrick, evidentemente, era perfettamente consapevole. La musica permette a Kubrick, infatti, da un parte di commentare, in maniera inequivocabile, le immagini e dall’altra di mettere in uno stato di tensione emotiva lo spettatore che, in questo modo, può solo ipotizzare gli sviluppi narrativi della scena: l’andamento del ritmo delle note della celesta, identico a quello del suono intradiegetico del ticchettio delle asticelle della macchina da scrivere, e la partecipazione della musica alla narrazione filmica espressa dal suo tono angoscioso costituiscono per il regista degli espedienti filmici capaci di elevare il climax della scena ad un adeguato livello di tensione drammatica.

L’analisi si soffermerà ora su un particolare segmento della scena descritta che, sebbene costituisca una sua frazione, è quello più pregno dei temi affrontati in precedenza.

Il primo evidente conflitto del segmento è proprio ottenuto mediante il contrappunto tra la musica di Bartók e il suono prodotto dallo schiocco del bacio che i coniugi si scambiano prima di iniziare la conversazione. La musica subisce un’interruzione improvvisa che lascia libero lo spazio sonoro alla "figura" del bacio: il conflitto prodotto e rappresentato sia musicalmente che acusticamente è quello classico tra eros (il bacio) e thanatos (la tenebrosa ed irreale musica di Bartók). A questo punto lo spettatore è adeguatamente preparato per cogliere il principio essenziale su cui si regge tutta la scena determinato appunto dal conflitto coniugale: le complesse dinamiche della coppia, costituite da un’impalpabile e latente conflittualità interna, sono, infatti, perfettamente espresse dal montaggio e dalla composizione dell’inquadratura create dal regista secondo i precisi dettami di Ejzenštejn sul conflitto.

Innanzi tutto è utile far rilevare che il segmento è costituito da dodici piani equamente ripartiti tra i due personaggi inquadrati sempre singolarmente. Notiamo, tuttavia, una diversità di trattamento filmico concessa ai due personaggi. Kubrick, infatti, sceglie di mantenere identiche sul piano filmico le inquadrature dedicate a Shelley Duvall, lasciando inalterata la sua posizione interna all’inquadratura e le relazioni che intrattiene con lo sfondo, mentre modifica filmicamente e profilmicamente le inquadrature dedicate alla figura di Jack Nicholson che subisce, dal VIII piano in poi, ad esempio, un restringimento semantico mediante un raccordo sull’asse che permetterà allo spettatore di focalizzare meglio l’attenzione sulle movenze fisiche e facciali dell’attore.

L’inquadratura 1, così come tutte quelle dispari, è dedicata al volto della Duvall, ripresa frontalmente e inserita in uno sfondo che consente alla figura di mantenere una centralità rispetto alla perfetta simmetria interna all’inquadratura. Un primo elemento di facile rilevazione è costituito dalla sensazione perturbante che tale inquadratura suscita nello spettatore che, oltretutto e paradossalmente, non sembra essere colto dalla medesima emozione quando è in relazione con il personaggio di Nicholson. Essa, infatti, sembra rappresentare un obraz concernete un ossimoro particolarmente pertinente se letto alla luce della prosecuzione e del finale del film: mi riferisco al concetto di "lucida follia" espresso sia dal rigore formale (simmetria, luce omogenea, sfondo centrale bianco, ripresa in primissimo piano quasi a rappresentare il luogo della sua razionalità) sia dalla sua contrapposizione con i piani dedicati a Jack che sembrano esaltare ancor di più questa peculiarità espressiva. L’ossimoro è maggiormente pertinente se si constata che le visioni più terrificanti e visionarie della parte finale del film, come l’onda di sangue che esce dagli ascensori o l’incontro con i fantasmi della festa, sono tutte vissute e percepite visivamente da questo personaggio che, dunque, è lecito considerare maggiormente esposto ad una forma latente di psicosi schizofrenica rispetto a quello di Jack.

Vediamo, ora, quali elementi del profilmico del piano 1 determinano la rappresentazione della legge ejzenštejniani del conflitto. Le tende poste sullo sfondo definiscono, in primo luogo, il conflitto di direzioni grafiche e questo per due motivi: in primis la loro perfetta verticalità è in contrapposizione con la rotondità del volto dell’attrice, in secondo luogo esse possiedono delle cuciture di abbellimento disegnate in modo da ottenere delle righe orizzontali di colore rosso che, per la loro disposizione, riescono ad ottenere un’evidente contrapposizione perpendicolare alla verticalità dell’insieme.

Un altro elemento di conflitto è determinato dalla diversa luminosità degli elementi: il bianco accecante della parete alle spalle di Wendy, ad esempio, è contrappuntato all’opacità delle tende laterali. La sostanziale luminosità d’insieme comunque ottenuta non solo determina una omogeneità di luce nell’inquadratura ma è anche perfettamente adeguata per ottenere il contrappunto emergente dal confronto con il piano 2 dedicato alla figura di Jack. In questo caso, la ripresa non è né frontale, né ad altezza di sguardo, né in primissimo piano, né presenta una luminosità omogenea, ma è, invece, laterale, da sinistra verso destra, a mezza figura (grazie alla quale è anche maggiormente evidente la dinamicità dell’attore, più libero di gesticolare e di usare la comunicatività corporea) e illuminata da luci diegetiche la cui traiettoria luminosa laterale (in particolare da destra mediante un grosso lampadario appoggiato sulla scrivania che oltretutto consente la strutturazione del profilmico in profondità di campo) è essenziale per scolpire i tratti del volto dell’attore e per accentuare una dialettica tra luce ed ombre che è sia interna al quadro sia sin-tattica rispetto ai piani dedicati alla Duvall.

L’inquadratura 2 rappresenta, inoltre, un altro esempio di conflitto di direzioni grafiche: in questo caso, tuttavia, il conflitto non è interno come si è visto poco fa ma nascente dal contrappunto con la precedente inquadratura. La posizione della sedia su cui è seduto Nicholson, infatti, non sembra casuale vista la presenza di un’evidente diagonale disegnata attraverso il collegamento con un’altra seggiola presente alle sue spalle ed osservabile grazie alla profondità di campo ottenuta da Kubrick per mezzo della luce diegetica emanata dal lampadario. Si consideri inoltre che la figura di Jack all’interno della messa in scena è relegata nella parte destra, divenendo così conflittuale rispetto alla centralità del volto evidente nel piano riguardante la Duvall.

Prima di affrontare i restanti piani facciamo un breve riassunto schematico degli elementi emersi fino a questo momento:

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Duvall

Nicholson

Inquadratura frontale

Inquadratura laterale (da sinistra vs destra)

Centralità della figura rispetto a sfondo

Marginalità (a destra) rispetto al profilmico

Primissimo piano

Mezza figura

Linee verticali e orizzontali

Linee diagonali

Luce omogenea

Luce contrastata e profondità di campo

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Il piano 3 contiene i medesimi elementi filmici e profilmici menzionati in precedenza, tuttavia contiene un importante elemento di dialogo che è ancora, e più di prima, centrato sul concetto di conflitto: l’attrice, infatti, in seguito ad una battuta sarcastica di Nicholson, pronuncia una frase idiomatica inglese (don’t be so groucy) che Aragno ha giustamente tradotto con l’espressione italiana "non essere così scontroso". Questa battuta svolge la funzione non solo di condensare e sintetizzare la tematica centrale della crisi coniugale presente nella scena ma anche di rendere espliciti gli intenti formali con cui il regista ha deciso di mettere in scena la sceneggiatura del film: il rapporto dellavolpiano tra forma e contenuto è, in quest’ottica, perfettamente coerente con gli elementi prepotentemente emergenti in questo piano che, più degli altri tra quelli presenti nel segmento preso in esame, dimostra di essere ontologicamente conflittuale.

Tralasciando i piani che vanno dal IV al VII in cui, comunque, sono presenti analogie formali identiche a quelle già descritte in precedenza, vediamo quali altri nuovi elementi di riflessione possono rintracciarsi a partire dal quadro 8, dedicato in particolare alla figura di Jack. La novità filmica di questo piano è rappresentata da un raccordo sull’asse che restringe il campo dell’inquadratura, tramutandola da una ripresa a mezza figura ad una in primo piano, e determina in questo modo un restringimento semantico capace di enfatizzare l’aggressività mimica e verbale del personaggio. Il passaggio dalla mezza figura al primo piano, inoltre, consente a Kubrick di modificare il posizionamento dell’attore spostato dalla parte destra dell’inquadratura a quella sinistra, rendendo ancora più perturbante la sue argomentazioni dialettiche23.

La feroce aggressività del volto, il tono della voce particolarmente minaccioso e la rapidità dei movimenti di Nicholson sono decisamente antitetici rispetto all’assenza di qualsiasi movimento o emissione vocale presente nel piano 9 che comunque presenta allo spettatore il volto incredulo ed esterrefatto della Duvall. Nel volto inespressivo ma eloquente dell’attrice lo spettatore può scorgere il passaggio dall’heimlich (la familiarità con il marito violento perché alcoolista), che Wendy ha rimosso (il dialogo con la dottoressa ne è una prova), all’unheimlich (la violenta reazione del marito) che ritorna con una carica esplosiva capace di infondere il perturbante.

Nel X piano incontriamo un’ulteriore esemplificazione di obraz, qui particolarmente aderente alle concezioni di Ejzenštejn relative all’analogia tra l’espressività cinematografica e l’efficacia sintattica della lingua giapponese resa possibile dall’utilizzo dell’ideogramma:

"Sta di fatto che la copulazione (forse sarebbe meglio dire combinazione) di due geroglifici della serie più semplice non dev’essere considerata come la loro somma, ma come il loro prodotto, e cioè come una grandezza d’altra dimensione e altro grado. […] Con la combinazione di due "figurabili" si riesce a delineare ciò che graficamente figurabile non è. Facciamo un esempio: la raffigurazione di un orecchio vicino al disegno d’una porta = "ascoltare". […] Ma questo è montaggio! Sì. È esattamente quello che facciamo nel cinema comparando inquadrature figurative neutrali e univoche da un punto di vista semantico, entro contesti e serie costruite sulla base di un significato."24

Nel X piano è possibile rintracciare l’idea, identica a quella di Ejzenštejn, di esprimere un concetto, "lavorare", tramite la combinazione di due "geroglifici" cinematografici. Mi riferisco al momento in cui Nicholson, rivolgendosi alla moglie, le dice: "quando sono qui e mi senti battere a macchina…vuol dire che sto lavorando": egli, inoltre, muove, dopo aver pronunciato la battuta "battere a macchina", le mani sulla tastiera in modo da produrre il caratteristico suono creato dalle asticelle che colpiscono il tampone. I "geroglifici" kubrickiani si presentano da una parte sotto una forma visiva determinata dal volto di Nicholson che protende il suo orecchio verso il fuoricampo destro, e dall’altra sotto una forma auditiva generata dal rumore fuori campo, ma evidentemente diegetico, prodotto dalla macchina da scrivere. In questa circostanza, inoltre, sarebbe corretto considerare l’esempio come un caso molto particolare di auricolarizzazione interna primaria: "l’auricolarizzazione interna è quella che àncora un suono diegetico a un determinato personaggio. Essa è primaria quando questo suono assume una dimensione esplicitamente soggettiva, come accade nei casi in cui una voce si fa sempre più flebile perché il personaggio che ascolta finisce per distrarsi e mettersi a pensare ad altro oppure quando questa voce ci giunge deformata da un apparecchio telefonico col quale il nostro personaggio sta conversando. Il punto d’ascolto dello spettatore è così strettamente fatto coincidere con quello del personaggio e questa coincidenza assume un peso di rilievo." 25. La particolarità del caso consiste nel fatto che la fonte del suono è relegata nel fuori campo e che il suono prodotto assume una valenza particolare per tre distinti soggetti ed in maniera simultanea: per il personaggio di Jack, per lo spettatore ma soprattutto per il personaggio di Wendy che rimane, tuttavia, nel fuori campo. L’esempio è anche, a ben vedere, un caso estremamente sofisticato di montaggio verticale, dove cioè immagine e suono sono dialetticamente utilizzati per produrre un senso ben preciso che lo spettatore è in grado di cogliere pienamente.

Gli ultimi due piani, l’XI e il XII, seppur dotati di tutte le caratteristiche sin qui esaminate presentano una particolarità che si presta molto bene ad essere letta come l’ennesima conferma dell’ipotesi sulla poetica del conflitto. Scrive Ejzenštejn:

"Il conflitto nell’interno di una tesi (idea astratta) si formula nella dialettica della didascalia, si forma spazialmente nel conflitto all’interno dell’inquadratura, ed esplode con intensità crescente nel conflitto di montaggio. […] Si tratta d’un conflitto di motivi, che può anche essere conchiuso in tre fasi:

  1. Pura espressione verbale. Senza intonazione espressiva nel linguaggio.
  2. Gesticolazione (intonazione mimica). Proiezione del conflitto nell’intero sistema corporeo espressivo dell’uomo. Gesto che è movimento corporeo e gesto che è intonazione.
  3. Proiezione del conflitto nello spazio. Con un intensificarsi di motivi lo zigzag dell’espressione mimica è spinto nello spazio circostante seguendo la stessa formula di distorsione. Uno zigzag di espressione che nasce dalla divisione spaziale creata dall’uomo che si muove nello spazio. Regia." (corsivo dell’autore)26.

Le parole del cineasta sovietico sembrano descrivere la stessa dialettica cinematografica proposta da Kubrick: nell’XI piano la Duvall dice, in risposta ad una domanda retorica di Nicholson ("che dici, ci riesci a capire quello che ho detto!?"), un laconico "si"; nel XII piano Nicholson gesticolando vistosamente indica alla moglie l’uscita dalla Colorado Lodge pronunciando la battuta "bene incomincia da adesso: levati dai coglioni!". Alla pura espressione verbale senza intonazione espressiva nel linguaggio della Duvall (tesi) si contrappone la gesticolazione o intonazione mimica di Nicholson (antitesi) per ottenere uno zigzag di espressione che nasce dalla divisione spaziale creata dall’uomo che si muove nello spazio (la sintesi registica di Kubrick).

CONCLUSIONI

Nel corso della trattazione si è potuto sviluppare un discorso che partendo dall’ipotesi di rintracciare nell’elaborazione teorica e artistica di Ejzenštejn un adeguato referente per comprendere uno dei temi più ricorrenti nel cinema di Stanley Kubrick come quello del conflitto, ha cercato di intrecciare alcuni temi di estetica, come quello concernete il problema gnoseologico dell’arte, elaborati in diverse sedi da della Volpe, Aristotele e Freud. La tematica del conflitto, evidente sin dagli esordi del cineasta americano (si pensi al cortometraggio di Day of the fight del 1949, collegabile già nel titolo al tema), ha attraversato l’intera opera del regista: il conflitto tra nazioni (Il Dr. Stranamore, Barry Lyndon, Full Metal Jacket), quello tra razionalità e impulsività (2001: odissea nello spazio, Arancia Meccanica, Shining), quello tra la società e i suoi membri (Rapina a mano armata, Spartacus, Arancia meccanica), quello intrafamiliare e tra i sessi (Lolita, Barry Lyndon, Shining, Eyes Wide Shut) o quello tra eros e thanatos (Lolita, Shining, Full Metal Jacket, Eyes Wide Shut). Freud, considerato da Kubrick come uno dei suoi preferiti interlocutori filosofici insieme a Nietzsche, ha in diversi scritti affrontato il problema del rapporto conflittuale tra diverse le istituzioni umane, sociali o biologiche che fossero. Nel Disagio della civiltà del 193027, ad esempio, Freud sostiene che la tendenza al desiderio (il principio di piacere, pulsione analizzata in un precedente trattato del 1920 intitolato Al di là del principio del piacere28) è in perenne conflitto con il mondo intero. Minacciato da tre fonti di sofferenza (strapotere della natura esterna, l’impotenza della natura interiore e i rapporti intersoggettivi caratterizzati da odio e violenza), l’essere umano si pone sotto l’egida della civiltà. La costruzione della civiltà, come si può constatare in 2001: odissea nello spazio (1968), implica, tuttavia, un’antinomia determinata dall’antitesi tra la necessità per l’uomo di difendersi dalla natura e la sua parallela rinuncia alla pulsione sessuale e aggressiva.

Quello posto da Freud è uno dei temi più classici della filosofia: il rapporto tra bene e male e la risoluzione da parte dell’uomo di questo conflitto. In Kubrick questo tema è affrontato mediante la rappresentazione dell’incomprensibilità e ineffabilità del suo manifestarsi. Egli sembra mosso nella sua ricerca estetica da una sorta di pulsione epistemofilica che ha portato il cineasta americano a rintracciare quei modelli e quegli interlocutori intellettuali, estetici ma anche filosofici come ho detto prima, che lo mettessero in grado non solo di rendere interessanti le rappresentazione del reale realizzate dal suo cinema ma anche di donare ai temi a cui stava dedicando le sue energie creative un effetto schiacciante sullo schermo.

Il rapporto, dunque, tra forma e contenuto nell’arte cinematografica è forse l’essenza stessa del cinema di Kubrick, un tema del resto che è stato alla base dello stesso cinema di Ejzenštejn, come autorevolmente ci ricorda della Volpe nel suo saggio sul Verosimile filmico e nei suoi successivi scritti sul cinema. Come dice Bernardi a proposito del problema, sollevato da Ejzenštejn, dello spettatore come soggetto estetico: "La dimensione iconica, la visibilità, nel cinema raggiunge un altissimo sviluppo, ma non in opposizione alla funzione enunciativa, anzi grazie ad essa. Il cinema, infatti, almeno in quanto oggetto estetico e non solo semiotico, collega l’enunciazione alla percezione, facendo della percezione il fine stesso dell’enunciazione." (corsivo dell’autore)29.

Dello stesso problema si occupa Kubrick nel suo unico film dedicato all’orrore e realizzato attraverso le potenti lenti estetiche e filosofiche offerte da Freud nel suo celebre saggio sul Perturbante, da cui il regista poté ricavare delle eccellenti indicazioni sia sul piano della sceneggiatura sia su quello della messa in scena. La potenza delle immagini , in questo film, si dà nella loro capacità di esprimere il conflitto in ogni inquadratura e in ogni elemento della messa in scena, oltre che nelle parole dei dialoghi e nell’espressività dell’interpretazione degli attori. Credo, infine, siano pertinenti, più che mai, le parole che lo stesso Kubrick utilizzò per descrivere i suoi intenti estetici rispetto a Arancia Meccanica e che sintetizzano perfettamente il presente lavoro:

"Oggi il cinema opera su un piano molto più vicino alla musica e alla pittura che alla parola scritta, i film hanno la capacità di convogliare concetti e astrazioni senza il tradizionale ricorso alla parola."30

Massimiliano Studer

1 Cfr. Norman Kagan, The Cinema of Stanley Kubrick. New Expanded Edition, Continuum, New York, 1995, pag. 216 e Michel Ciment (1999), Kubrick. Edizione definitiva, Rizzoli, Milano, 1999, pag. 136 e pag. 319.

2 Nonostante una precisa ricostruzione filologica ed estetica sul cinema di Kubrick, Bernardi non si sforza di ricostruire rigorosamente i solidi legami estetici tra le scelte filmiche di Kubrick in fase di messa in scena o di montaggio e le fondamentali indicazioni di analisi teorica dell’oggetto filmico operate da Ejzenštejn nei suoi scritti e nelle sue opere. Il saggio di Bernardi rimane, comunque e senza ombra di dubbio, un eccellente punto di riferimento per le preziose indicazioni di analisi dell’arte kubrickiana, suggerimenti che più avanti si rileveranno cruciali per l’indagine sulla scena oggetto del presente intervento. Sandro Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Pratiche, Parma, 1990.

3 In Michel Ciment (1999), op. cit., pag. 34. Cfr. anche Michel Ciment (a cura di), Stanley Kubrick, La biennale di Venezia e Giorgio Mondadori, Venezia e Milano, 1997. Riguardo allo scarso interesse dimostrato da Ciment per gli influssi ejzenštejniani sul cinema di Kubrick, può essere esplicativa la constatazione di una sola pagina (su un totale di ben 337), riferita al nome di Ejzenštejn e presente nell’indice analitico della menzionata monografia.

4 In Galvano della Volpe (1952), Il verosimile filmico (Note sul rapporto di forma e contenuto nell’immagine filmica), in Opere, vol. V, Editori Riuniti, Roma, 1973, pp. 50-51.

5 Cfr. Massimo Modica, L’estetica di Galvano della Volpe. Marxismo linguistica e teoria della letteratura, Officina edizioni, Roma, 1978, nota a pag. 177 e seguenti.

6 In Sergej M. Ejzenštejn (1942,1949, 1958), Forma e tecnica del film e lezioni di regia, Einaudi, Torino, 1964, pp. 544-545. Per la trattazione dei temi e degli influssi del cineasta sovietico sulla messa in scena e il montaggio di Shining farò riferimento soprattutto ad un testo, pubblicato in inglese, che Einaudi ha tradotto nel 1964 e stampato con il titolo di Forma e tecnica del film. In realtà, come viene ricordato da Paolo Gobetti nell’introduzione, il volume è costituito da più scritti di lingua inglese e russa secondo un ordine cronologico che da 1928 arrivano fino al 1944 e comprendenti La forma cinematografica, Tecnica del film e Lezioni di Regia. Per inciso, nelle future annotazioni, il riferimento sarà sempre quello di Sergej M. Ejzenštejn (1942,1949, 1958), Forma e tecnica del film e lezioni di regia, Einaudi, Torino, 1964.

7 La durata precisa della lavorazione del film è inferibile dalla biografia di Lo Brutto che a tal proposito ci dice: "Kubrick e il suo gruppo entrarono nel set dell’Overlook Hotel nel maggio 1978 e lo tennero occupato fino all’aprile 1979.". In Vincent Lo Brutto (1997), Stanley Kubrick. L’uomo dietro la leggenda. Biografia, Il castoro, Milano, 1999, pag. 452.

8 Il tema dell’ejzenštejniano leone-rivoluzione è presente oltre che nel già citato Verosimile filmico (1952) (in op. cit.) anche nei suoi successivi scritti come la "scontata" Critica del gusto del 1960 (in Opere, vol. VI, Editori Riuniti, Roma, 1973, pagg. 9-263) e nell’ultimo scritto di della Volpe dedicato al cinema, intitolato "Linguaggio" e ideologia nel film: una critica cinematografica è possibile? del 1967 (in Opere, vol. VI, Editori Riuniti, Roma, 1973, pagg. 489-497), una relazione alla Mostra internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro.

9 Sergej M. Ejzenštejn (1942,1949, 1958), op. cit., pag. 36.

10 In Gianni Rondolino e Dario Tomasi, Manuale del film. Linguaggio, racconto, analisi, UTET libreria, Torino, 1995, pag. 187. Per i rapporti tra Kubrick e Ejzenštejn in 2001 si veda anche Sandro Bernardi, op. cit., pag. 204 e seguenti.

11 In Gianni Rondolino e Dario Tomasi, op. cit., pag. 192.

12 Cfr. Michel Ciment (1999), op. cit., Vincent Lo Brutto (1997), op. cit. e Norman Kagan, op. cit.

13 Cfr. Vincent Lo Brutto (1997), op. cit., pag. 435.

14 Ibidem, pag. 437.

15 In Aristotele, Poetica, 61b 9-11 (trad. Diego Lanza, BUR, Milano, 1987, pag. 217).

16 Michel Ciment (1999), op. cit., pag. 200.

17 Lo stesso Satyajit Ray ha spesso riconosciuto al cineasta americano di saper coinvolgere anche spettatori che nulla hanno a che vedere con la sua cultura di riferimento. Cfr. Andrew Robinson, Satyajit Ray. The Inner Eye, Rupa & Co., Calcutta, 1990.

18 In Sigmund Freud (1919), Il perturbante, in Opere, vol. IX, Boringhieri, Torino, 1994, pag. 111.

19 In Aristotele, Poetica, 51b 5-7 (trad. Diego Lanza, BUR, Milano, 1987, pag. 147).

20 In Sigmund Freud (1919), op. cit., pag. 113.

21 Cfr. Christian Metz (1968), Semiologia del cinema, Garzanti, Milano, 1972.

22 Ecco come Ejzenštejn spiega il concetto di montaggio verticale: "Donde è nato questo termine e perché l’ho chiamato così? Certamente tutti hanno visto una partitura orchestrale. Vi sono diversi pentagrammi, in ognuno dei quali è scritta la parte di un particolare strumento o di un gruppo di strumenti affini. Ogni parte è sviluppata graficamente in senso orizzontale. Ma non meno importante è la struttura nel senso verticale che collega tutti gli elementi dell’orchestra, ciascuno entro una data unità di tempo. […] Allorché dall’immagine della partitura musicale passiamo a considerare la partitura audi-visiva, vediamo che alle parti strumentali deve essere aggiunta una nuova parte: e cioè, un "pentagramma" di elementi visivi in successione, e corrispondenti, secondo le proprie leggi, al movimento della musica e viceversa". In Sergej M. Ejzenštejn (1942,1949, 1958), op. cit., pagg. 270-271.

23 Secondo gli studi di Robert Hertz, la sinistra trasmette soprattutto sentimenti di inquietudine e avversione in quasi tutte le culture umane: "Questa distribuzione bipolare dell’universo, tra destra e sinistra, è sottolineata dalle lingue indoeuropee nelle quali il termine destra deriva dalla stessa radice sanscrita deks, mentre il termine sinistra varia da lingua a lingua." In Ugo Fabietti, Storia dell’antropologia, Zanichelli, Bologna, 1991, pag. 77.

24 In Sergej M. Ejzenštejn (1942,1949, 1958), op. cit., pagg. 29-30.

25 In Gianni Rondolino e Dario Tomasi (1995), op. cit., pag. 243.

26 In Sergej M. Ejzenštejn (1942,1949, 1958), op. cit., pagg. 50-51.

27 Cfr. Sigmund Freud (1930), Il disagio della civiltà, in Opere, vol. X, Boringhieri, Torino, 1994.

28 Cfr. Sigmund Freud (1930), Al di là del principio del piacere, in Opere, vol. IX, Boringhieri, Torino, 1994.

29 Sandro Bernardi (1990), op. cit., pag. 147.

30 In Enrico Grezzi, Stanley Kubrick, Il castoro, Milano, 1995, pag. 9.

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