Trascrizione a cura di Anna Perciante della conferenza stampa di Gabriele Salvatores su AMNÈSIA al Cinema Excelsior di Milano giovedì 7 marzo 2002

D: Due delle tre storie parlano di rapporti padri-figli.

S: Tra la generazione dei 40-50enni ed i loro figli una cosa che credo che manchi è la volontà di dialogo e comunque i ventenni sono più disillusi dei loro padri. In AMNÈSIA nel ruolo dei figli c’è una nuova generazione di attori emergenti come Martina Stella e Ruben Ochandiano, che tra l’altro ha avuto una candidatura all’ultimo Goya, mentre nei panni dei padri ci sono Diego Abatantuono e Juanco Puigcorbè, molto noti e famosi nei loro rispettivi paesi. Sul set c’è stata competizione tra i due attori spagnoli, cosa che invece non è avvenuta tra Diego e Martina, forse perché una figlia probabilmente ti pone meno problemi di un figlio maschio se ce l’hai contro. Non è un caso che il personaggio più positivo del film sia Luce (che tra l’altro non a caso ha questo nome) la quale decide di tenere un figlio in una situazione perlomeno strana. Sul set qualsiasi attore ha un minimo di competizione con l’altro, anche se sono amici, è successo anche durante le riprese di Marrakech Express. Nel film tutti i personaggi si incontrano e si scontrano, ci sono quattro incidenti anche proprio fisici di moto ed auto che metaforizzano un incontro traumatico con l’altro. Ogni cosa che un personaggio fa per la sua singola storia, per il suo singolo problema non necessariamente sortisce l’effetto desiderato ma determina dei riflessi nella storia dell’altro. Tutti i personaggi hanno dei segreti, nessuno dice la verità all’altro: Luce arriva con un suo segreto nella pancia, Sandro prende gli appunti sul computer per non dimenticarsi le bugie che ha detto alla figlia, Angelino ha il segreto della valigetta.

D: Come hai scelto Martina Stella per il personaggio di Luce?

S: L’ho scelta perché aveva l’età giusta per il personaggio e soprattutto perché credo che abbia un talento naturale abbastanza straordinario. Martina come Luce non ha un bellissimo rapporto con il padre, mentre Luce è molto più riflessiva ed introversa.

D: Come mai l’uso dello split screen?

S: La divisione dello schermo in più parti era molto in voga negli anni ’70 (vedi Woodstock) ed è una cosa che sta tornando ultimamente e che si userà sempre di più. In questo film l’ho utilizzato perché è sempre più difficile oggi raccontare una storia in maniera unitaria ed armonica. La realtà è sempre più complessa e difficile da afferrare nella sua totalità. Per quanto mi riguarda a me piace sperimentare e avevo voglia di trovare un’estetica nuova al cinema. La contemporaneità delle immagini viene dai videogiochi, dal computer (le finestre che si aprono una dentro l’altra) e dalla regia televisiva, in cui hai tanti monitor in cui la stessa immagine viene ripresa da punti di vista differenti e poi viene unita. Sono suggestioni visive contemporanee. Lo split screen serve per evidenziare da una parte la "distanza" dei personaggi e dall’altra la contemporaneità delle vicende in cui sono coinvolti. E per dare un senso di relatività alle varie storie. La vita è un mosaico che si compone pian piano e che, solo alla fine, speriamo di poter vedere e comprendere.

I personaggi-chiave hanno dei momenti in cui guardano in macchina, sono dei momenti di confessione allo spettatore. Per aumentare il senso di vicinanza a volte l’attore guarda quasi al bordo dell’obiettivo.

D: La struttura a incastro del film somiglia a quella del tuo spettacolo teatrale Amanti che rimase in scena all’Elfo di Milano qualche tempo fa.

S: Sì, ma con una differenza: a teatro non puoi utilizzare il metodo del "montaggio alternato" che puoi usare nel cinema. Il montaggio alternato inoltre di solito costringe il pubblico ad essere passivo, nel senso che è il regista a decidere cosa farti vedere e come. In Amnèsia invece questo accade un po’ meno perché abbiamo scelto di raccontare le storie linearmente, lasciando al pubblico la possibilità di farsi il suo personale montaggio degli eventi. Mi piaceva lasciare al pubblico il gusto di ricomporre il puzzle. La storia del cinema è piena di situazioni di questo tipo, a partire da Rashomon e Rapina a mano armata fino ad arrivare più recentemente ai film di Tarantino oppure a Sliding doors.

D: Una delle cose che vengono criticate a Salvatores regista è che i suoi film tendono ad avere dei finali "buonisti".

S: Non credo: in fondo Nirvana non aveva un finale tranquillo, c’era un doppio suicidio, ed anche Denti non si chiudeva molto bene. Trovo i miei film non buonisti, ma ottimisti: in Amnèsia alla fine le famiglie si ricongiungono, Angelino si ritrova a casa con moglie e figlio, il commissario finisce sulla sedia a rotelle ma riesce in questo modo a riavvicinarsi a suo figlio, il figlio di Luce nasce in una famiglia atipica ma che lo accoglie con amore.

D: La colonna sonora del film contiene musiche che appartengono a diverse generazioni, questo ha a che fare col rapporto generazionale che viene analizzato nel film?

S: Certo, ogni personaggio ha un suo mondo e ogni mondo ha la sua musica. E’ un film composito, ci sono 3 storie con sapori diversi, quindi anche la musica va in quella direzione; c’è la musica-base originale di Daniele Sepe, poi un pezzo di Leonard Cohen e in particolare My secret life di cui se si fa attenzione alle parole hanno delle corrispondenze particolari con i personaggi. Nella seconda parte del film ci sono delle musiche da discoteca di dj Oliver dell’Amnèsia, techno molto acida che usava l’estate scorsa in quella discoteca. Non è una musica che amo particolarmente, allora a quel punto preferisco il suono duro metal dei Bad Religion, che fanno dei testi piuttosto forti, c’è una canzone in particolare che dice testualmente "la prossima generazione pagherà il conto". Molte delle canzoni che si sentono nel film sono dei Macaco, un gruppo di Barcellona, sono musicisti spagnoli di cui 2 brasiliani e un venezuelano, una specie di hermanidad, fratellanza latina dell’ambiente musicale. Ci sono nella storia della musica dei pezzi trans-generazionali, nel mio caso le canzoni che hanno unito la mia generazione con quella di mio padre sono state Yesterday e Michelle dei Beatles.

D: Dietro questo film si sente molto l’influenza di un certo cinema statunitense: Pulp Fiction, i fratelli Coen, e quindi la realtà di un mondo corrotto, droga, omicidi, famiglie in disfacimento. Si trovano anche tracce del cinema spagnolo, certi personaggi ricordano Almodóvar.

S: Sì, c’è una sua attrice storica, Antonia San Juan. Ma più che questo, di Almodóvar c’è il concetto di costruire un film solo con delle scene madri, abbiamo cercato di scrivere una storia in cui ogni scena avesse un qualcosa da melodramma, da opera che è una cosa tipica di Almodóvar. Per quanto riguarda il cinema americano, i Coen sono degli autori che amo particolarmente. Io sono cresciuto con una logica da spettatore. Prima di fare il regista suonavo, poi ho fatto teatro e infine mi è capitato di fare cinema, quindi non ho un approccio al cinema da studioso da cineclub o da cineforum, queste sono cose che ho recuperato dopo. Il cinema che mi ha nutrito negli anni della formazione è stato il cinema americano indipendente degli anni ’70, Fragole e sangue, Cinque pezzi facili, quel tipo di cinema. Io credo che i nuovi autori americani in realtà si rifanno a quel cinema che a sua volta si rifaceva al nostro neorealismo. Credo che i contenuti dei film americani siano imbarazzanti mentre per quanto riguarda la forma ogni volta che vedo un film americano imparo qualcosa. Quando abbiamo presentato Nirvana negli Stati Uniti hanno detto che aveva degli effetti speciali meravigliosi. In confronto ai loro sono inferiori cento volte, ma l’unico trucco è utilizzarli in modo che siano legati alla storia, loro invece li usano, per loro stessa ammissione, alla stregua di spot pubblicitari inserendoli nel film quando la storia si sta affievolendo. Io non credo che ci sia da rifiutare quello che loro stanno facendo, ci sono da rifiutare i contenuti, come al solito le cose non sono né buone né cattive, dipende come le usi.

D: Nei tuoi progetti futuri ci sono lavori milanesi, cioè dedicati a Milano o fatti a Milano?

S: Il prossimo film prende il titolo da un romanzo di Nicolò Ammaniti Io non ho paura e sarà ambientato nel sud, tra la Puglia e la Basilicata, e poi se realizzeremo Per amore di una donna si tratta di un romanzo ambientato in Israele in un contesto contadino, quindi non ci sono progetti su Milano, anche perché ormai abito a Roma.

D: Rimanendo a Milano, normalmente quando i registi parlano dei malavitosi italiani all’estero prendono dei meridionali, invece tu hai scelto Bebo Storti che parla in dialetto bresciano?

Bebo: Non bisogna aderire sempre agli stereotipi, le provocazioni all’ultimo momento, vedi teatro, sono interessanti perché destabilizzano, perché vedendo il personaggio ci si fa un’idea di come debba essere, poi basta cambiare un dialetto…

D: C’è il ritorno della coppia Salvatores- Abatantuono, e il rinnovato interesse di Diego per il cabaret. Abatantuono: I film di Gabriele hanno una particolarità: sono tutti adatti a me, questo è il mio vantaggio. Abbiamo dei rapporti che vanno anche al di là, perché la produzione del film ci trova soci con Maurizio Totti che invece è la sostanza. Il cabaret è una cosa che avevo abbandonato tanto tempo fa, era tanto che volevo tornarci ma non avevo occasione, non avevo tempo insomma c’era questa voglia ma non si concretizzava. Con questo Colorado Cafè che abbiamo messo in piedi alla Salumeria della Musica abbiamo cercato di ricostruire un’atmosfera che c’era un po’ di anni fa al Derby. Il cabaret può essere un trampolino di lancio verso altre forme di spettacolo tv o cinema. Ultimamente si è invertito, cioè la gente fa le prove in tv poi quando diventa brava va in un cabaret a fare lo spettacolo. Mi sembra più giusto il contrario.

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