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LE INVASIONI BARBARICHE

Regia di: DENYS ARCAND

Attori: MARIE-JOSEE CROZE, REMY GIRARD e STEPHANE ROUSSEAU

Titolo originale: LES INVASIONS BARBARES

Origine: CANADA 2003

Distributore: BIM

Link: www.bimfilm.com

Durata: 99’

Programmato dal 5 dicembre 2003

Che strana invenzione, il cinema. Ci sono film di cui, il giorno dopo che li hai visti, fatichi a ricordare anche il titolo. E ci sono film che invece sanno ancora sorprenderti, regalarti sorrisi e risate e attimi di commozione. E proprio quando meno te le aspetti ti toccano le corde del cuore. "Le invasioni barbariche" è un film che rientra sicuramente nella seconda categoria. Un film difficile da realizzare. Il tema è tutt’altro originale: la morte. Ci sono migliaia di film che parlano della morte, in tutte le salse. Dagli horror ai melodrammi, dai thriller alle commedie nere: sembra che non ci possa quasi essere un film senza che qualcuno muoia. Mi tornano in mente le parole di Pasolini, quando sosteneva che "è necessario morire, perché finché siamo vivi manchiamo di senso". La morte compie un montaggio fulmineo della nostra vita, trasforma il presente in passato, e consente finalmente alla vita di esprimersi. Questo film nasce da un’idea semplice: Remy, un professore ormai in pensione, sta morendo, e attorno al suo letto si riuniscono i vecchi amici, l’ex moglie, il figlio Sébastien volato in Canada da oltreoceano. E’ lui "il principe dei barbari": il figlio perfetto, con una carriera perfetta, una fidanzata perfetta, una moglie perfetta. Le sue armi sono il telefonino, il computer, e tutte le diavolerie moderne. E nonostante i silenzi che ne hanno contraddistinto i rapporti col padre, lui, grazie ad un fiume di soldi, riuscirà ad aiutarlo, a regalargli una morte serena e pacifica. I temi appena sfiorati, spesso con ironia, sono tanti e delicati: dall’eutanasia al potere curativo delle droghe, dalla corruzione della classe politica alla mala-sanità, dalla solitudine esistenziale ai valori dell’amicizia. Una cosa mi ha inchiodato alla poltrona, mentre le immagini scorrevano sul grande schermo: come mai questo film, così povero a livello cinematografico, mi sta così emozionando? Non è che il film sia un gioiellino di tecnica cinematografica, anzi: le inquadrature sono banali e ordinarie, non particolarmente originali o artistiche. Spesso sono semplici primi piani di volti frontali. E allora, cosa c’è che rende questo film così speciale, che lo rende più emozionante di pellicole farcite di scene girate con macchine da presa acrobatiche? E’ un cinema fatto soprattutto di parole. L’attenzione e la cura nella sceneggiatura sono maniacali. Tutto ruota attorno ai dialoghi, cinici e diretti, sferzanti e intelligenti. Nonostante il viso di Remy sia molto espressivo, nonostante gli sguardi della giovane Marie Josee Croze buchino lo schermo, è la parola ad essere al centro del mondo: la parola è più potente dell’immagine.

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Non è di sicuro una dichiarazione d’amore verso il cinema come mezzo visivo-espressivo, "Le invasioni barbariche". Piuttosto è una professione di fede nel cinema come racconto. E’ il racconto a renderci padroni della nostra storia, della nostra vita. E’ grazie al racconto che possiamo comunicare e condividere con gli altri la nostra vita. Quello del film, poi, è un racconto che ha più voci. Tra una battuta (divertentissima) e una riflessione a metà tra l’ironico e il malinconico, tra una citazione colta e il ricordo di un aneddoto piccante le voci si mescolano, e diventano un tutt’uno, un’unica musica. Una musica che rende forse più dolce l’addio. Perché, grazie al racconto, quei vecchi amici stanno ancora una volta respirando l’inebriante profumo della vita. Ma è un profumo che ormai sembra far solo parte del libro dei ricordi, ora che la vita - così piena di sogni ed errori, di speranze e disillusioni, di gioie del sesso e di pene d’amore - sta scivolando verso l’abisso, ora che la candela si sta spegnendo. Ma la fiamma che è nascosta sotto la pellicola del film continua a bruciare e palpitare, e ci regala sorrisi e commozione. E una domanda, senza risposta definitiva: la vita può sopravvivere nel racconto?

Stefano Borgo

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