OLD BOY

Regia di: PARK Chan-wook
Sceneggiatura di Park Chan-wook, Im Joon-hyung, Hwang Jo-yoon
Attori: Oh Dae-su: Choi Min-Sik, Lee Woo-jin: Yu Ji-Tae e Mi-do: Kang Hye-jung
Titolo originale: Old boy
Origine: Corea del Sud 2003
Distributore: Lucky Red
Distributore DVD 2007: Medusa
Link: www.luckyred.it www.cineclickasia.com www.wildsideproject.com www.bacfilms.com
Durata: 119’
Programmato dal 6 maggio 2005

Lo stupro del sistema di nessuno

Se Sympathy for Mr. Vengeance era stato un tentativo di rappresentare la violenza come uno dei frammenti che compongono il genere umano al di là delle volontà dei singoli individui, seppur andando in un secondo momento a coinvolgere le loro intenzioni; con Old boy Park Chan-wook disegna la prospettiva opposta: la violenza come conseguenza di un sistema artificiale, di una società. La staccionata che segna il confine tra naturale ed artificiale è facilmente scavalcabile e le due dimensioni si contaminano continuamente, al punto che è molto difficile stabilire se la causa di un evento sia artificiale o naturale. Prima l’uomo violento era figlio della sua propria natura. Adesso è figlio del proprio figlio, del sistema che ha generato.

Vagamente, l’opera sembra ripartire da quando, in A clockwork orange di Stanley Kubrick, inizia la rieducazione del barbaro Alex (Malcolm McDowell) ad opera della società civile: Oh Dae-Su (Choi Min-sik) è vittima di una vendetta, di una violenza punitiva e, in un certo senso, educativa. Rispetto al film di Kubrick, in cui si cercava di reprimere la violenza materiale e concreta attraverso una forma di violenza lecita, psicologica e forse meno shockante ma altrettanto brutale; in Old boy i terribili quindici anni di prigionia, apparentemente immotivata, suscitano nel protagonista un viscerale sentimento di vendetta fisica e materiale.

Old boy è la società che estrae la cattiveria e la violenza degli uomini, è la violenza invisibile che si materializza visibile e solida. A clockwork orange è la mascherata e sottile violenza della società che tenta di nascondere la sua sorella più spaccona e appariscente. In entrambe le pellicole si tratta di violenze che combattono violenze. Quali sono buone violenze e quali sono cattive violenze? Quali violenze sono motivate e quali non lo sono?

Sia in Old boy che in A clockwork orange c’è il contrasto tra l’individuo e la società: nel film di Park Chan-wook l’individuo viene incattivito dalla società che lo circonda; mentre nel film di Stanley Kubrick la società cerca di ammorbidire l’ultraviolenza di Alex. In entrambe le opere, la società stupra Oh Dae-Su ed Alex. La società violenta e snatura le persone.

Nel 1988 Oh Dae-Su è un uomo normale, innocuo e pacifico, a cui piace bere e divertirsi. Un giorno viene rapito, scompare dalla società e si ritrova imprigionato in una stanza, dove deve inventarsi una vita virtuale, dove deve forzatamente adattarsi alle quotidiane condizioni da recluso. Nella speranza di non perdere contatto con la temporalità, si tatua un primitivo calendario sulla pelle. Mangia senza sapere chi gli consegna il cibo. Parla e fa l’amore con i personaggi femminili che vede in televisione. Per anni pensa, rimugina e scrive elenchi di nomi di conoscenti, provando a identificare, nella propria memoria e nel proprio passato, la persona che ha pianificato questo rapimento. Dopo essere venuto a conoscenza dell’assassinio della propria moglie, ovviamente tramite la televisione, Oh Dae-Su accorpa l’omicidio dell’amata al proprio rapimento ed esplode il suo desiderio di vendetta nei confronti dell’architetto di tutto questo sadismo.

In questi 15 anni di prigionia Dae-Su è davvero scomparso dalla società? O forse la vita virtuale, controllata e limitante della sua prigione è la chiarificazione e la condensazione della vita nella società contemporanea? La stanza in cui è stato rinchiuso è identica al mondo fuori da essa; con la consistente differenza che in quella stanza tutte le negatività sono evidenti, sono mostrate senza pudore davanti allo sguardo del protagonista e dello spettatore. Essere controllati da qualcun altro, essere ipnotizzati e manovrati nelle nostre quotidiane scelte di vita è l’estremizzazione di ciò che succede fuori da quella triste stanza, nel cosiddetto stato di libertà e di libero arbitrio.

Quella stanza non è un eccezione. Non è un evento particolare. Quella stanza è la cristallizzazione materiale della società, vista da un occhio che ne indaga le negatività. Una volta liberato, Oh Dae-su si ritrova in un alveare-mondo composto da tante stanze senza pareti visibili e prive di soffitti e tappezzeria, in un condominio-mondo. La libertà e la possibilità di scegliere sono tutte illusioni previste prima ancora che lui abbia la possibilità di agire. Rinchiuso nella stanza o fuori dalla stanza, è assolutamente identico: Oh Dae-su è sempre l’oggetto di un soggetto misterioso.

La libertà fisica potrebbe ingannare riguardo una reale libertà dello sventurato. Anche la scarcerazione e la sua conseguente riscossa vendicativa rientra nei piani di Lee Woo-Jin (Yoo Ji-Tae), architetto delle disavventure del protagonista. Non per niente Oh Dae-su si risveglia all’esterno della sua prigione, libero, ancora rinchiuso dentro una valigia. L’uomo è fuori e, pur essendo fuori prigione, è ancora dentro una prigione personale, una valigia; e quando sarà fuori da quella valigia, convinto di poter fare tutto ciò che gli passa per la testa, in realtà sarà ancora dentro una valigia, invisibile, sarà pilotabile, fisicamente o psicologicamente, proprio come se fosse ancora in una valigia, come un oggetto.

 

 

L’uomo, Oh Dae-Su, da sempre subisce violenza. Essere rinchiuso per quindici anni in una stanza è un segno che aiuta a comprendere questa violenza, questo stupro che la società, senza spargimenti di sangue e non facendosi notare, compie continuamente.

La violenza del sistema può non essere avvertita. Le persone possono essere inconsapevoli di ciò che subiscono. La stanza in cui viene rinchiuso Oh Dae-Su è un modo per rendere visibile ciò che altrimenti passerebbe inosservato. Il cattivo, Lee Woo-Jin, è il sistema, è la personificazione della società manovratrice.

Tornato nell’illusorio stato di libertà, Oh Dae-Su appare un animale, attaccato alla vita, agli odori, agli istinti. Uniformato verso un unico fine, uccidere colui che gli ha rovinato l’esistenza, sembra ricoperto da un’armatura, una corazza. È un uomo tornato animale. È un uomo che ha vissuto l’estremizzazione di ciò che comporta essere cittadino, essere un bullone della grande macchina, essere una valigia tra le tante. È l’animale che si ribella alla civiltà, è la bestia che ammazza i cittadini. Se il protagonista uscisse dalla dimensione diegetica potrebbe paradossalmente essere grato al suo antagonista per avergli permesso di capire meglio la realtà; purtroppo per lui, però, è dentro alla narrazione del film.

Ricorrono nel film due scene alquanto crude: una in cui Oh Dae-Su strappa i denti con una pinza ad un lacchè di Lee Woo-Jin per ottenere delle informazioni, l’altra in cui Oh Dae-Su sta per subire lo stesso trattamento da parte del lacchè quando l’operazione viene bloccata dalla volontà di Lee Woo-Jin. Queste due scene, a cui va aggiunta quella in cui, nel finale, Oh Dae-Su si taglia la lingua con una forbice, suggeriscono una violenza che si tutela impedendone la denuncia, la comunicazione. L’asportazione dei denti e della lingua si configurano all’interno di un disegno in cui si subisce violenza senza poter chiedere aiuto, senza poter farsi comprendere da altri. La violenza che emerge è una violenza silenziosa, o perlomeno incomprensibile, che non deve essere notata. La comprensione di essere da sempre stuprati, violentati dal sistema, diventa qualcosa di incomunicabile, di incomprensibile per chi non ne abbia vissuto esperienze chiare e materiali come possono essere una prigionia di quindici anni e l’asportazione non anestetizzata dei denti.

Il silenzio e l’impossibilità di comunicare la violenza subita provengono dal mutismo di Ryu in Sympathy for Mr. Vengeance.

In particolare modo l’amputazione della lingua, che il protagonista si infligge davanti a Lee Woo-Jin, enfatizza la visione di una società non contrastabile. Provare a combattere il sistema, ritenendo di essere stati oltraggiati dallo stesso, significa subire ulteriore oltraggi, perdere la lingua e restare per sempre nel silenzio. Decidere di restare nel silenzio per poter continuare a vivere. L’ulteriore minaccia che frena l’impeto vendicativo di Oh Dae-Su è l’amore per una persona. Amore per una persona per cui non si dovrebbe provare quel tipo di amore. Ma questi sono altri tasselli di Old boy che deviano dal filo rosso che sto seguendo.

La domanda fondamentale, che chiude la lettura del film è: perché il sistema si è scagliato contro un uomo? Perché Lee Woo-Jin ha sadicamente punzecchiato Oh Dae-Su scatenando il suo desiderio di vendetta? La risposta è rivoluzionaria. Le violenza che Lee Woo-Jin ha inflitto a Oh Dae-Su sono a loro volta una vendetta. Una vendetta nei confronti di un vecchio compagno si scuola, un compagno di scuola che parlava troppo; e che con la sua voce aveva creato una situazione imbarazzante, aveva forgiato nella mente delle persone l’idea di un incesto tra fratello e sorella. Oh Dae-Su scopre il motivo che ha dato inizio alle sue disgrazie. Ricorda il lontano episodio che sta alla base di questa caccia all’uomo, di queste torture. L’origine di tutto è una parola. Una voce.

Tutta la violenza di Lee Woo-Jin, la rabbia che ha riversato su Oh Dae-Su, è frutto di un episodio che non voleva generare violenza, dolore e vergogna.

Allora Lee Woo-Jin è stato vittima di qualcosa di sovraumano? Allora c’è qualcosa che sta sopra al sistema, alla società? Oppure tutto può diventare violenza, tutto può generare violenza.

Giordano Bernacchini

 

 

home mail