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Analisi dei testi cinematografici 

 

La Grande Illusione

Francia (1937)

 

 Regista:

Jean Renoir

Soggetto:

Charles Spaak e J. Renoir

Sceneggiatura:

Charles Spaak e J. Renoir

Fotografia:

Christian Matras.

Scenografia:

Eugène Luoriè

Musica:

Joseph Kosma

Attori Principali:

Jean Gabin (ten. Maréchal), Pierre Fresnay (cap. de Boieldieu), Erich von Stroheirn (cap. Von Rauffenstein), Marcel Dallo (Rosenthal).

Trama:

(tratta dal testo di presentazione del film curato da Maia Gullì Partenope per la rassegna organizzata per l'anno scolastico 1998/99 dall' Irssae Calabria)

"La grande illusion" è la parabola di tre personaggi in guerra: il tedesco barone von Rauffenstein, asso dell'aviazione, i francesi capitano de Boieldieu e tenente Maréchal, aviatori anch'essi. Abbattuti da Rauffenstein in combattimento, i due francesi sono trattati civilmente. Il tedesco li vuole conoscere. Ma le loro strade subito si separano. Gli ufficiali francesi sono internati in un campo di concentramento, insieme a soldati di diversa e nazionalità. Maréchal, piccolo borghese patriota (meccanico nella vita civile), ha una sola aspirazione: evadere e tornare a combattere.

Con un gruppo di compatrioti della più varia estrazione sociale (le caratterizzazioni sono puntuali e spiritose: c'è un artista di varietà, un professore, un ingegnere, e ci sono i loro piccoli problemi, le preoccupazioni per la famiglia, le speranze) organizza un tentativo di fuga.

Scavano una galleria sotto la baracca in cui sono alloggiati riuscendo a giungere quasi ai bordi del campo. Sono i giorni in cui si combatte furiosamente attorno a Douaumont: un manifesto affisso al muro annuncia che i tedeschi l'hanno conquistata. proprio durante lo spettacolo organizzato dai prigionieri, si apprende che i francesi l'hanno ripresa e Maréchal irrompe sul palcoscenico per dare la notizia e intonare con i compagni la Marsigliese. Il tenente è messo agli arresti.

Quando torna in camera, è risotto assai male, mentre gli amici si preparano ad evadere; persino Boieldieu che lo ha sempre trattato con distacco si impietosisce. ma non c'è tempo né per la commozione né per la fuga: i tedeschi annunciano l'immediato trasferimento in un altro campo.

In una fortezza inaccessibile ritroviamo Rauffenstein. Comanda un campo di prigionia: ha accettato un mestiere che lo ripugna per poter continuare a servire la patria (è mutilato: un corpetto metallico gli sostiene la colonna vertebrale e sorregge il capo sotto la gola). Gli conducono i prigionieri appena arrivati, fra cui Maréchal, Boieldieu e l'ebreo Rosenthal. Con il nobile francese ritrova immediatamente quella cordialità che già gli aveva dimostrato. Con gli altri è diverso, soltanto nemici. Mostra a tutti la fortezza, luogo tanto isolato e protetto che ogni tentativo di fuga sarebbe una pazzia. Ma Maréchal non si arrende e prepara una corda per calarsi dai bastioni. Ma occorre qualcuno che distragga le sentinelle e a questo provvede Boieldieu che decide di sacrificarsi: sarà lui a tener occupata la guarnigione mentre Maréchal e Rosenthal salteranno giù dal muro. Così avviene Maréchal e Rosenthal gettano la fune oltre il bastione, mentre Boieldieu corre sui camminamenti per attirare l'attenzione delle guardie. Interviene Rauffenstei che lo supplica di scendere. Il francese rifiuta, e Rauffenstein è costretto a ucciderlo. Il resto del film racconta la fuga dei due prigionieri. Maréchal e Rosenthal, dopo aver vagabondato per strade coperte di neve, trovano ospitalità nella casa di una contadina che ha avuto il marito ucciso a Verdun. La donna ha una bambina. Rosenthal non può procedere perché si è fatto male ad una caviglia. la donna li accoglie umanamente. Fra lei e Maréchal nasce un breve idillio. Marèchal, la notte di natale, bacia la piccola "Lotte hat blaue Augen" nel suo tedesco approssimativo, che la donna dolcemente corregge. Rosenthal è guarito, ora possono partire. Raggiungono la frontiere. Un vasto pendio coperto di neve li separa dalla Svizzera. Un soldato tedesco (il fucile in primo piano) fà fuoco sui due che arrancano. «Non sparare, sono in Svizzera» gli dice il compagno. Del gruppo degli evasi solo Maréchal e Rosenthal riusciranno a conquistare la libertà.

La storia de "La grande Illusione"(ripresa dalla presentazione di Maria Gullì Partenope)

«Il soggetto della grande illusione -dichiarato Renoir- è rigorosamente vero e mi è stato raccontato da vari miei camerati di guerra, particolarmente da Pinsard, che faceva parte d'una squadriglia di caccia, mentre io appartenevo ad una squadriglia di ricognizione».

La sceneggiatura originale de La grande illusione fu modificata quando Renoir riuscì a ingaggiare Stroheim: il personaggio di Von Rauffenstei (inizialmente previsto per Louis Jouvet) aumentò sensibilmente d'importanza e Stroheim durante la lavorazione «per poter recitare alla perfezione la parte del comandante tedecso con la spina dorsale spezzata, ebbe l'idea di farsi fare un busto speciale che gli giungeva fino all'altezza del collo», espediente doloroso in sede di riprese, ma straordinariamente efficace sullo schermo. Gli esterni del film furono girati in Germania e in alcune zone dell'Alsazia.

Renoir aveva stentato a trovare un produttore: «Io e Gabin, a cui piaceva molto questo soggetto, abbiamo girato non so quanti uffici. tutti hanno rifiutato». Infine Franck Rolimer, che apirava a diventaree produttorecinematografico, accettò.

Uscito a Parigi nel giugno 1937, il film ebbe un notevole successo e nel medesimo anno, malgrado l'opposizione di Luigi Freddi, fu premiato a Veneziacon la coppa della giuria "per il miglior complesso artistico".

La grande Illusione fu però proibito in Italia dalla censura fascista e venne proiettato solo nel 1947, se si esclude una proiezione alla Triennale di Milano nel 1940.

Il manifesto sintetizza, attraverso la composizione figurativa e il gioco dei colori, lo spirito dei film, che alla vigilia della seconda guerra mondiale aveva formulato «un messaggio pacifista di intenso significato umano, sia pur pervaso da un senso di amarezza presaga» (G.C.Castello).

Vi campeggia trasversalmente la figura massiccia di un soldato tedesco sul cui petto, come attraverso uno squarcio, spicca nel cielo azzurro una candida colomba in volo che si ferisce in un reticolato di filo spinato, a simboleggiare la necessità della solidarietà fra uomini e popoli di diversa estrazione e mentalità, al di sopra delle divisioni suscitate dai nazionalismi ed egoismi e contro ogni prevalere delle atrocità della guerra.

Parlando di Renoir, per molto tempo si è pensato che l'aggettivo realista bastasse a sintetizzare la versatilità del suo talento. Ma se per realismo s'intende la riproduzione diretta, obiettiva della realtà, senza alcuna rielaborazione appare evidente che Renoir non era un realista in questo senso. Non cessò mai di affermare la supremazia del narratore sulla narrazione, del pittore sulla pittura, dell'uomo sulla natura. Renoir condivideva l'idea del padre secondo cui il compito di un vero artista non consiste nel copiare la realtà, anche se fedelmente, ma nel ricrearla. "Ciò che rimarrà in ogni artista -dichiarava- non è la sua imitazione della realtà, dato che essa è mutevole e transitoria: ciò che è eterno è il suo approccio alla realtà, che può essere raggiunto attraverso una ricostruzione e non una sterile ricostruzione".

La grande illusione è la prova evidente di questa poetica. Non solo non è una semplice cronaca della fuga dei prigionieri di guerra, ma della guerra stessa riesce a mettere in evidenza le grandi contraddizioni interne. C'è almeno una sequenza che in questo risulta particolarmente illuminante. E' la scena in cui Boieldieu chiede spiegazioni per il trattamento di favore concessogli da Rauffenstein. La risposta di quest'ultimo è tanto secca quanto apparentemente incomprensibile: «perché voi vi chiamate de Boieldieu, ufficiale di carriera dell'esercito francese, e io Von Rauffenstein, ufficiale di carriera dell'esercito imperiale tedesco».

Renoir su "La Grande Illusione"...

"La mia grande illusione? Pace e serenità per il mondo". «Ho realizzato La grande illusione perché sono pacifista. Verrà un giorno in cui gli uomini di buona volontà troveranno un terreno d'intesa. I cinici diranno che le mie parole sono il frutto di una fiducia puerile, ma perché non provarci? L'esistenza di Hitler non mi porta a modificare la mia opinione sui tedeschi. Con il mio film ho cercato di far vedere che in Francia non si odiano i tedeschi. Il film ha avuto un grande successo. No, non è migliore di altri ma esprime con semplicità quello che il francese medio pensa della guerra in generale. Per troppo tempo il pacifista è stato descritto come un uomo dai capelli lunghi, dai calzoni sgualciti, seduto su una cassa di sapone imboscato, intento a predire senza posa un'infinità di sciagure e sempre pronto a entrare in crisi alla vista d'una divisa: un vile approfittatore. Ma la verità è diversa.

C'è anche un'altra ragione che mi ha condotto a realizzare La grande illusione ed è il mio odio per i racconti di guerra. Al cinema, in letteratura, in tutti i campi, i racconti di guerra sono sempre pieni di falso eroismo. Le guerre hanno i loro residuati e fra questi c'è l'uso letterario che si fa delle guerre. Improvvisamente gli eroi di guerra si trasformano in eroi del tutto irreali, imbottiti di frasi retoriche. I miei racconti di guerra, invece, sono diversi (ero ufficiale durante la prima guerra mondiale). per questo mi sono preoccupato soprattutto del ritratto dell'ufficiale di cavalleria interpretato da Pierre Fresnay: è rimasta un'arma particolare, nel senso che ha conservato le tradizioni. Lo volevo ritrarre come un uomo imbevuto di tali tradizioni, ma nello stesso tempo preso nell'ingranaggio della vita quotidiana e delle necessità di tutti i giorni.(...) E' stato un grande piacere per me girare La grande illusione, anche perché mi ha dato la rara occasione di diventare amico di un uomo che ammiravo moltissimo: Stroheim. Stroehim era stato uno dei registi del cinema che mi aveva spinto a intraprendere il mio lavoro; non direttamente, perché non lo conoscevo, ma la visione dei suoi film più importanti mi avevano fatto scegliere la macchina da presa come mezzo espressivo. Quanto a Gabin, si sa chi è: il cinema fatto in persona. Quell'uomo basta che appaia sullo schermo e dica qualcosa e tutto diventa di colpo interessante. Con lui è fin troppo facile fare dei film».