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Analisi dei testi cinematografici 

 

Lamerica

Italia/Francia (1994)

Lamerica  

 Regista:

Gianni Amelio 

Soggetto:

G. Amelio, Andrea Porporati, Alessandro Sermoneta 

Sceneggiatura:

Luca Bigazzi 

Fotografia:

Giuseppe M. Gaudino 

Musica:

Franco Piersanti 

Attori Principali:

Enrico Lo Verso (Gino), Michele Placido (Fiore), Carmelo Di Mazzarelli (Spiro/Michele).

Trama:

(ripresa dal Dizionario del cinema italiano di F. Di Giammatteo e da Guida al Novecento Di S: Guglielmino):

Tirana, nei mesi immediatamente successivi alla caduta del regime comunista. Un disonesto trafficante italiano, Fiore, con un suo giovane aiutante, Gino, arrivano nella capitale albanese con l’intenzione di costruire una fantomatica industria di calzature e usufruire così delle sovvenzioni statali dei due paesi; per costituire la società occorre però, per giustificare le sovvenzioni, che un albanese accetti di essere il presidente fantoccio che non faccia latro che prestare la firma peri documenti necessari per il conseguimento delle varie autorizzazioni.Dopo laboriose ricerche in un ospizio di ex prigionieri politici, trovano un vecchio smemorato e ostinato nel suo silenzio, Spiro Tozai, che dopo aver messo le prime firme fugge. Gino lo insegue con il suo fuoristrada, e dopo aver attraversato villaggi sperduti assistendo a scene di incredibile miseria, lo ritrova in un ospedale ma poi lo riperde. Fermatosi per telefonare e avvertire Fiore, trova al suo ritorno il suo furgone svaligiato e senza le quattro ruote. Non resta che tornare a Tirana. Ma lungo la strada Gino incontra il vecchio che, convinto ora con la persuasione ora con la prepotenza, comincia a parlare. Spiro, non è un albanese ma un siciliano che aveva partecipato nel 1939 alla guerra d’Albania nei ranghi della Milizia, e che era stato condannato a cinquant’anni di carcere; ora -gli dice, in un lucido delirio in cui la distanza degli anni che sono e che furono appare cancellata dalla memoria distorta- sta tornando a casa dove suo figlio che è nato la sera stessa in cui egli è partito, senza che riuscisse a vederlo, avrà tre o quattro anni...A bordo di un camion, nel quale si ammassano decine di albanesi che sognano di emigrare in Italia, Gino vive una dura esperienza che gli apre finalmente gli occhi, facendogli comprender l’abiezione in cui è caduto. Arrivato nella capitale, viene arrestato. La truffa è stata scoperta, Fiore è tornato in Italia e se ne lava le mani. Gino che è stato derubato anche del passaporto, non può che confessare e denunciare il mediatore albanese che li aveva introdotti nell’affare. lasciato libero in attesa del processo, Gino sale a bordo del “Partizani”, una nave carica di più di duemila disperati, e ritrova il vecchio che, esausto e ormai fuori di senno, è persuaso che alla fine del viaggio vedrà l’America.

 

Un film sull’Italia non sull’Albania: Lamerica all’interno dell’opera di Amelio

Una delle migliori analisi finora condotte su Lamerica è stata realizzata dal critico cinematografico, Goffredo Fofi. Una riflessione alla quale ho potuto assistere ‘live’ durante un suo intervento alla proiezione del film all’interno della rassegna “Cinema e ‘900”, organizzata dall'Irrsae Calabria.

Secondo quanto lo stesso Fofi sostiene, Amelio, per la realizzazione de Lamerica, si è riagganciato al melodramma, ma ad un melodramma alto, a quel genere ormai raro in Italia, che appartiene ad un certo cinema americano e al neorealismo, richiedendo sostanzialmente un certo spirito di denuncia politica e di riflessione morale.

Dopo “Il ladro di bambini”, Lamerica è il secondo film della trilogia che Amelio ha continuato con “Così ridevano”. Al momento della sua uscita il film non ebbe alcun successo e fu un disastro anche dal punto di vista economico, per le forti spese affrontate dopo aver dovuto fronteggiare mille difficoltà di carattere politico. Quando fu realizzato, il crollo del regime comunista era recentissimo e Amelio andò in Albania mentre ancora erano freschi i resti delle rivolte. Aveva subito capito che quello che era accaduto era di straordinario interesse narrativo, non per raccontare

L’Albania, ma per raccontare l’Italia.

Com’era successo ne “Il ladro di bambini” con le case abusive e non finite di Reggio Calabria sullo sfondo, e come è stato per “Così ridevano” (premiato con il leone d’oro a Venezia, proprio nel 1998), in Lamerica Amelio ha realizzato uno spaccato della società italiana, accostando con straordinaria lucidità critica le immagini, le illusioni, le speranze del passato a quelle del presente.

Da un punto di vista strettamente tecnico una conferma di questa volontà di raccontare l’Italia, arriva dalla scelta dei mezzi che Amelio ha compiuto, decidendo di utilizzare per le riprese il cinemascope*,uno strumento di ripresa da “ricchi”, «perché altrimenti-dice Fofi- sarebbe stato come raccontare la vicenda dall’interno, e fare una sorta di “Tirana città aperta”, “Albania anno zero”», il che non era nelle intenzioni di Amelio «che è un regista italiano e non albanese».

Nel film ci sono due generazioni a confronto: quella di Spiro Tozai-Michele Talarico ventenne del ‘30 e Gino ventenne del ‘90. L’incontro-scontro tra i due personaggi è «lo scontro tra un’idea del popolo italiano come attivo, progressista e l’idea più reale di un popolo statico, spesso ipocrita di fronte ai grandi temi, spesso affrontati con un occhio all’interesse personale falsamente supportato da motivazioni politiche». A distanza di sessant'anni, Michele e Gino rappresentano due facce di un’Italia diversa e sempre uguale a se stessa, coetanei di epoche diverse (ed è proprio questo che permette a loro di comunicare).

E’ vero che nel film c’è anche quella che Fofi definisce «una straordinaria ricostruzione della caduta del comunismo, con uno sguardo profetico per ciò che poi è accaduto nei Balcani con la guerra in Kosovo»; la ricostruzione del dramma della fine dell'utopia comunista e delle indicibili condizioni di vita che essa ha prodotto, in cui serpeggia comunque la forza alienante di una altro mito -quello del benessere e dei consumi (una scena forte è quella della bambina che imita Raffaella Carrà, mentre gli altri la guardano compiaciuti e sognanti)- mutuato dalla televisione.

Eppure nella carrellata dei volti dei disperati in primo piano sulla nave diretta verso l’Italia c’è il volto dei tanti italiani che come Spiro-Michele hanno sognato di raggiungere Lamerica: è un film sulla memoria storica dell’Italia e dell’Europa, «perché, se l’eccesso di memoria uccide (come in Jugoslavia), lo stesso fa la mancanza di memoria»(Goffredo Fofi). «Una definizione del film che sposo volentieri- ha detto lo stesso Amelio- è che siamo tutti albanesi».

 

Alcune sequenze, ovvero il percorso di formazione di Gino.

Gino alla fine, dopo le disavventure, cominciate sotto l’egida di un cinismo ben determinato (suo e di Fiore), nel meccanismo della storia recupera in un certo qual modo l’umanità. Lo fa quasi inconsapevolmente. In fondo anche quando provvede a sistemare Michele in una pensione, lo fa perché averlo dietro significherebbe assumersi una responsabilità troppo grande; in fondo quando lo cerca e quando il vecchio inizia a fidarsi di lui, mostrandogli quella solidarietà che “si usa coi paesani”, non comprende, non accetta.

«Gino è un po’ ignorante -ha detto Amelio- e la sua ignoranza può essere cancellata solo con un’esperienza fisica attraverso i sentieri del bisogno, trovandosi in un posto dove qualcuno dà valore ad un pezzo di pane». Grazie anche la rapporto col vecchio, che è sì smemorato, ma non ha dimenticato le speranze e le sofferenze degli emigranti della sua gente e ha ancora ben saldi in sé i valori antichi(la moglie abbandonata per il servizio militare, il figlio «che avrà tre o quattro anni», l’ospitalità che darà a Gino quando arriveranno in Sicilia), paradossalmente attraverso la sua visione distorta della realtà, Gino recupererà con la realtà stessa contatti autentici.

«L’esperienza dell’Albania -scrive Salvatore Gugliemino- che Gino ha fatto all’inizio per i suoi loschi progetti si risolve, attraverso il dialogo con il vecchio, in un viaggio di iniziazione interiore, e nella parte finale del film -un susseguirsi di volti in primo piano nei quali si leggono sofferenza, timori, speranze: dieci minuti di grande cinema- il suo volto e il suo silenzio ne danno testimonianza».