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Analisi dei testi cinematografici 

 

Tempi Moderni

Usa (1936)

 

 Regista:

Charlie Chaplin

Soggetto:

Charlie Chaplin

Sceneggiatura:

Charlie Chaplin

Montaggio:

Charlie Chaplin

Fotografia:

Rollie Totheroh, Ira Morgan

Scenografia:

Charles D. Hall

Musica:

Ch. Chaplin (con adattamenti di Alfred Newman)

Attori Principali:

Charles Chaplin (l'operaio), Paulette Goddard (l'orfana), Henry Bergman (il proprietario del ristorante)

Trama:

(tratta dal Dizionario del cinema americano di F. Di Giammatteo)

 Charlot stringe i bulloni in una grande fabbrica. Il direttore fa accelerare i ritmi della catena di montaggio e Charlot comincia a vedere bulloni dappertutto. E avvita tutto, anche i bottoni sul seno di una matrona. Impazzisce. dal manicomio esce guarito, ma disoccupato. Vagabondando per le strade, raccoglie un cencio rosso caduto da un camion. Dietro di lui sbuca un corteo di dimostranti e la polizia lo arresta come sovversivo. Esce dalla prigione per buona condotta (ha impedito un'evasione). Di nuovo a spasso, cerca di farsi una ragione della sua vita. Il lavoro, anzitutto. In un cantiere navale, dove lo assumono, resta poco, perché provoca subito un disastro togliendo un sostegno e 'varando' una nave prima del tempo. Il lavoro non gli si addice. Non gli resta che farsi arrestare di nuovo. Un'orfanella è sorpresa con una pagnotta rubata (il padre è morto ammazzato durante uno sciopero). Lui si fa avanti e si autodenuncia. Non lo prendono sul serio e allora entra in un ristorante, mangia di tutto, non paga e invoca l'intervento di un poliziotto. Nel furgone che lo porta in galera ritrova la ragazza. riescono a scappare. Lo assumono come guardiano notturno in un grande magazzino, dove si esibisce sui patti acrobaticamente davanti agli occhi della ragazza. La notte stessa tre ladri fanno man bassa (uno di questi è stato operaio nella stessa fabbrica del vagabondo), e lui ci va di mezzo. Dieci giorni di prigione ed è ancora fuori. trova lavoro presso un meccanico che ripara le macchine della fabbrica in cui cominciarono i suoi guai. Scoppia uno sciopero e anche stavolta per lui finisce male. Si scontra con un poliziotto e torna dentro. Ma di nuovo, per poco. La ragazza, intanto è stata assunta in un ristorante come ballerina e cantante e riesce a far assumere anche lui che, come cameriere, fa disastri ma che suscita l'entusiasmo dei clienti, prima infastiditi dalla sua malagrazia, con una canzone. Non trova le parole, si arrangia inventandole a caso. Quando sembra che le cose si stiano sistemando per il meglio, proprio mentre continuano gli applausi e tocca alla ragazza entrare in scena, arrivano i poliziotti che la hanno identificata e vengono per arrestarla. Ma i due riescono di nuovo a fuggire, disseminando sedie rovesciate sui piedi degli inseguitori. Eccoli di nuovo, soli, sulla strada. Pronti a ricominciare.

Alcune sequenze, ovvero l'alienazione dell'uomo-macchina "Tempi moderni: una storia i cui protagonisti sono l'industria l'iniziativa individuale, l'umanità in marcia alla conquista della felicità": queste le parole con le quali nella versione italiana si dà inizio alla serie di gags che si susseguiranno per tutti i restanti 85 minuti del film. Tuttavia la scena immediatamente successiva ha nulla o poco di esilarante: alle immagini di un composto gregge di pecore si sovrappone quella degli operai che entrano in fabbrica. Un'immagine forte e suggestiva che assieme alla sequenza della macchina per mangiare (uno stravagante strumento, fatto per risparmiare tempo sui pasti degli operai, che, impazzendo al primo collaudo, imprigiona Charlot in una morsa assurda, subito destinata a rivelare il proprio fondo tragico) introduce il segno della follia, che caratterizzerà la seguente sequenza della follia di Charlot in fabbrica. «La catena di montaggio non è che il prolungamento della stessa macchina per mangiare, con i suoi ritmi convulsamente accelerati in nome dello stesso risparmio di tempo: non lascia scampo -e quando Charlot si lascia sfuggire un disco su cui deve avvitare due bulloni, è lui il primo a preoccuparsene, a inseguire il disco con un tuffo. Ormai egli stesso è diventato parte della macchina, le sue mani si muovono da sole, non più coordinate dal cervello. Ma la macchina non ragiona e qualunque cosa assomigli a bulloni vuole avvitarla». (Giorgio Cremonini, in Charlie Chaplin, Il castoro cinema). Quello di Charlot nella fabbrica è il delirio dell'uomo macchinizzato, le cui mani sono diventate leve impazzite comandate dagli impazziti ingranaggi cerebrali. La denuncia delle condizioni aberranti e alienanti della produzione industriale in cui ogni singolo operaio diventa un anello acerebrale della catena di montaggio è corrosiva, nella forza espressiva che nasce dalla scelta di collocarsi lungo la linea tra il comico e l'umorismo, lungo quella linea cioè che porta alla consapevolezza dell'irrazionalità del reale anche laddove -e ivi maggiormente- essa è camuffata da un perfetto ordine apparente. «Attraverso la comicità vediamo l'irrazionale in ciò che sembra razionale, il folle in ciò che sembra sensato, l'insignificante in ciò che sembra pieno d'importanza. Essa ci aiuta anche a sopravvivere preservando il nostro equilibrio mentale. Grazie all'umorismo siamo meno schiacciati dalle vicissitudini della vita. Essa attiva il nostro senso delle proporzioni e ci insegna che in un eccesso di serietà si annida sempre l'assurdo». Parole che ricordano molto da vicino alcune celebri affermazioni pirandelliane e che sulla bocca dell'americano Chaplin assunsero per gran parte dell'opinione pubblica americana il sapore amaro della critica alla società. Al momento della sua uscita nelle sale, il film non fu un successo, perché «in genere disturba le platee -scrive Di Giammatteo- questa carica eversiva che molti hanno definito comunista». «In realtà -continua- l'acredine anticapitalistica nasce come sempre dall'individualismo anarchico che ha guidato sin dall'inizio l'impegno -stilistico, soprattutto- di Chaplin. L'omino non ha paura di nulla. E' in grado di sconfiggere non tanto i capitalisti e i loro difensori (la polizia, le carceri) ma gli idioti, che di essere sconfitti meritano».

Il Chaplin di Tempi Moderni fu davvero un eversivo? Non tutta la critica è concorde nel ravvisare la carica eversiva e di denuncia di Tempi moderni. Riportiamo di seguito un passo interamente tratto dall'analisi di Cremonini (redatta per la collana "Il Castoro cinema", curata dallo stesso Di Giammatteo) che raccoglie al proposito i pareri di diversi critici, da Bazin a Lukacs. Cremonini dopo aver diviso il film in cinque parti (La prima fino al ricovero e all'uscita dal manicomio; la seconda che dall'uscita dall'ospedale arriva alla sequenza della bandiera rossa e il nuovo arresto; la terza con il rilascio dopo aver sventato il tentativo di evasione, l'incontro con la 'monella' e la fuga insieme a quest'ultima; la quarta con il lavoro nel grande magazzino e la quinta con tutto quanto resta), le definisce come variazioni ad unico tema che, prima con l'isolamento del folle poi con l'emarginazione del vagabondo, si riferisce alla solitudine del personaggio.

«La solitudine del personaggio sia pure nella sua forma sdoppiata, è confermata marginalmente dal giudizio che Chaplin dà degli oppressi: l'accostamento iniziale degli operai alle pecore; gli operai schiavi della catena di montaggio; quando Charlot ha ripreso il lavoro e viene nuovamente proclamato lo sciopero, egli non è certo soddisfatto. Anche i suoi moti di ribellione sono ambigui; alla chiusura della fabbrica e alla prepotenza dei poliziotti Charlot di fatto non reagisce, ma provoca incidentalmente il lancio di un mattone che colpisce un poliziotto; e si pensi soprattutto alla sequenza della bandiera rossa: "Charlot raccoglie la bandierina caduta e corre dietro al camion che l'ha perduta, sventolandola. In quel momento, dietro a lui che non la vede, svolta l'angolo una manifestazione di lavoratori, capeggiata da operai dall'espressione, tra l'altro, talmente energica e decisa da non lasciare il minimo dubbio sul loro esser consci o meno di quel che stanno facendo. Non è la manifestazione che si organizza e accoda a Charlot, è Charlot che, a propria insaputa, si trova alla testa di una manifestazione ce era già in corso" (Viazzi). baldelli accusa il film di "forzatura nichilista", per la quale Chaplin "non odia questa o quest'altra società, ma la Società: e il fatto che abbia creato il personaggio del vagabondo è significativo: il vagabondo, non il contadino o l'opera. Per Bazin, "Charlot non possiede non possiede alcuna coscienza di classe e se egli è con il proletariato, ciò è dovuto al fatto che anche lui è una vittima della società come è, e della polizia" (giudizio condiviso anche da Baldelli e da Barthes). Il discorso non è così semplice: quanto detto prima è valido per il Chaplin precedente a City Lights, ma a partire da questo bisogna almeno riconoscergli il tentativo di uscire dallo schematismo manicheista. "Chaplin è riuscito a dare una espressione umoristica, ampia, totalmente valida al senso di smarrimento dell'uomo medio di fronte all'ingranaggio e all'apparato del capitalismo moderno" (Lukacs). Quest' uomo medio (per quanto tale definizione sia difficilmente accettabile nella sua genericità) non è un "tipo" nell'accezione realistica del termine, ma piuttosto un simbolo, una maschera dalle ampie possibilità di riconoscimento. egli racchiude in se le condizioni dello sfruttamento e dell'alienazione cui di fatto non sa opporsi: è un integrato velleitario, cui vengono negate le possibilità dell'integrazione. Egli vuole lavorare, vuole inserirsi nel sistema; accetta i furti della ragazza, perché bisogna pur mangiare, ma la strada che preferisce è quella dell'onestà e del lavoro, la strada che conduce alla realizzazione del suo sogno piccolo-borghese (la casetta con le tende a fiori, la frutta alle finestre e la mucca che gli dà il latte fresco). Il ritratto che Chaplin ci dà del proletario nel 1936 rifiuta la facile (e falsa negli Usa) illusione della lotta di classe. E' un proletario cui manca la coscienza di essere proletario; l'ideologia borghese lo ha già invaso in modo definitivo. Nasce di qui la dimensione quasi kafkiana messa in luce da Lukacs: la dimensione esplicita proprio dalla struttura ripetitiva di Modern Times, vera e propria tautologia dell'iniziazione imposta e rigettata. Se si può riconoscere al discorso Chapliniano l'assenza di confini ideologicamente precisi, bisogna anche dire che proprio questa assenza gli permette di evitare malgrado tutto gli schematismi di quel "genericamente umano" che Marx rimprovera alla cultura borghese -perché la connotazione storica di questo Charlot è di per sé precisissima. "La sua anarchia, discutibile politicamente, in arte rappresenta la forma forse più efficace della rivoluzione" (Barthes). In questo senso la fuga finale (cioè il rifiuto totale) assume il senso della sola maturazione possibile in una società in cui il proletariato, in quanto classe cosciente di se stessa, non esiste».