il punto di vista

 

 

CHI E' DOSSETTI

Giuseppe Dossetti nasce a Genova nel 1913, nello stesso anno i genitori si trasferiscono a Cavriago, dove il padre gestisce una farmacia; qui compie i primi studi, per trasferirsi qualche anno dopo a Reggio Emilia a frequentare il liceo cittadino. Si iscrive all’Università di Modena e dopo la laurea si sposta a Milano (Università Cattolica) per perfezionarsi. Qui ha modo di conoscere il gruppo che sarà detto dei “professorini”: Lazzati, Fanfani, La Pira ecc. Rimane costantemente in contatto con la sua Reggio e con Bologna. Allo scoppio della guerra si intensificano le ricerche e gli studi per un nuovo modello di società e di Stato. Durante la Resistenza Dossetti partecipa alla lotta armata, prima in pianura, poi in montagna. Sarà una esperienza decisiva.  Dopo il 25 aprile è chiamato a Roma, cooptato dalla Democrazia Cristiana. E’ deputato alla Costituente e alla Camera. Diventa vicesegretario della DC di De Gasperi. Sono anni di intensa lotta politica. Dossetti cerca una via politica originale: la costruzione di una democrazia “sostanziale”. Lo scontro all’interno della DC è inevitabile. Nel 1947 fonda in quindicennale Cronache Sociali che sarà un riferimento delle migliori energie del partito democristiano e fucina di tantissimi quadri politici.

Nel 1951, dinanzi all’impraticabilità della sua proposta politica, si ritira dal Parlamento, dal partito e dallo stesso impegno universitario. Si trattava per lui di lavorare profondamente per un rinnovamento della Chiesa che solo avrebbe consentito una diversa qualità della politica dai parte dei cattolici. Decisivo è l’incontro con il cardinale Giacomo Lercaro. Si dedica alla ricerca storico teologica fondando il Centro di Documentazione e dando vita alla comunità monastica La piccola famiglia dell’Annunziata a Monteveglio. Dopo una breve esperienza nel Consiglio comunale di Bologna, nel 1959 viene ordinato sacerdote. Durante il Concilio Vaticano II  è collaboratore di Lercaro e poi fatto pro-vicario  a fine Concilio. L’allontanamento di Lercaro dal soglio episcopale di Bologna  coincide con il ritiro di Dossetti nella sua comunità monastica. Vive da allora in diverse case della sua comunità, in particolare in Israele.

Nei suoi ultimi anni di vita, dinanzi ai rischi gravi  per la democrazia del Paese, la sua voce si è fatta sentire in difesa della Costituzione.

 

SU SPIRITUALITA’ E POLITICA

incontro con don Giuseppe Dossetti

 

 

E’ il testo di una intervista a Giuseppe Rossetti da parte della redazione della rivista BAILAMME  nell’estate del 1993. Lo scritto è stato rivisto dall’autore. Si trova ora in BAILAMME n. 18-19

 

Io non dico che ci sia una incompatibilità assoluta tra la fede cristiana vissuta con impegno  e con lealtà e l'impegno politico. Non c'è una contraddizione a priori. Sono convinto di questo. Ma sono anche convinto che ci sono mille e una ragione  di cautela e di condizioni difficilissime.

Una prima condizione sarebbe proprio questa: che non ci sia un proposito  di impegno politico e questo non sia in conse­guenza di un progetto o nella convinzione di una missione a fare. Nego la missione a fare. Nella politica non c'è. Men­tre abitualmente, e sopratutto nella esperienza concreta, la politica è stata pensata come una missione a fare. Secondo me questo avvelena tutto.

La seconda condizione è la gratuità , la  non professiona­lità dell'impegno. Dove incomincia una professionalità dell'impegno cessa anche la parvenza di una missione e la possibilità stessa di avere realmente qualcosa da fare. Sono allora  possibili tutte le degenerazioni.

Detto ciò ritengo, e questo è l'aspetto relativo della conci­liazione o della possibilità di mettere insieme le due cose, che possa accadere per me,  per dono fortuito in un certo senso di Dio ( Dio fa sempre dei doni che sono a modo suo fortuiti), particolarmente in politica, quasi senza coscienza e senza consapevolezza, di fare qualche cosa che non è de­stinato al puro insuccesso, anche se non deve mai essere cercato il successo personale.

Non si chiede a priori di volere l'insuccesso; può accadere che , per caso, in modo del tutto fortuito, inconsapevole accada di fare qualche cosa che ha una sua validità.

A me pare che sia accaduto così in uno o due momenti decisi­vi della mia vita e della mia azione politica. Fortuiti. Però qualche cosa si è fatto. Questo lo dico adesso, quando guardo da lontano, dopo tanti anni  di distacco e di decan­tazione.  In quei pochi anni , pochissimi dopo tutto ( com­presa la clandestinità sono stati sette o otto), in cui io sono stato in politica, ho fatto una o due  cose importanti. La prima è di avere dato un contributo decisivo, per il po­sto che occupavo, alla scelta tra  monarchia e repubblica. E' stato un contributo fortuito , legato a certe circostan­ze, a certe vicende anche della mia prima azione politica. Ho avuto un peso veramente decisivo su questo. Insieme con altri, ma direi a preferenza di altri.

Una seconda cosa, che mi pare adesso di una validità relati­va ( anche la prima è poi di una validità relativa, se la si confronta con la realtà che stiamo vivendo), è che ci voleva in quel momento un certo orientamento sociale, costruire le   prime manifestazioni di una certa socialità. In questo ho potuto fare veramente qualche cosa. Per una stagione, per caso. Per caso. In tre o quattro mesi, si è deciso la rifor­ma agraria, sopratutto nel meridione , si è decisa la cassa del Mezzogiorno. Sono cose oggi tanto discusse  e forse di­scutibili nella loro concretezza , ma tuttavia espressione di una tendenza e di una realtà che in quel momento era im­portante realizzare. Il fatto che queste cose, passate per le mie mani, hanno operato e hanno lasciato un segno , sia pure con tante strumentalizzazioni e degenerazioni successi­ve,  credo sia da attribuire all'intima intenzione di dispo­nibilità che c'era nel mio animo.

Ad un certo punto, quella stessa disponibilità, mi ha fatto capire che, per non tradirla, dovevo andarmene.

Per me è importante non negare  a priori  la possibilità di una conciliazione tra un agire coerente e profondo con la fede  e un agire politico. Ma è una conciliazione  non si­stematica, non intenzionale, non consapevole, non in funzio­ne di una missione o di un progetto definito. Quando ci si illude di questo progetto, allora nascono tutte le catastro­fi, nascono le degenerazioni, quelle a cui assistiamo in questa ultima fase della nostra storia repubblicana. Sono gli effetti di un impegno politico che non ha ubbidito a queste condizioni , alla fortuità, alla casualità , che ha preteso di fare un progetto,  sia pure un progetto di non azione o di compromissione, ma un suo progetto, un progetto  che alcuni vogliono portare ancora avanti.

Con questa disponibilità a fare, quando si dà la possibilità reale di fare , senza cercarla, senza programmarla, si agi­sce. Alcune cose, che sono state nelle mie possibilità in un certo momento,  sono state fatte. E' stato un periodo molto breve, molto provvisorio , tuttavia sono state fatte, e han­no avuto una certa incidenza, che si è trascinata nel bene e nel male sino ad ora. Sono venute tante degenerazioni da quelle cose, però credevo, e credo ancora, che in quel mo­mento dovessero essere fatte, e in quel modo.

Quindi una incompatibilità assoluta non c'è, perché l'incom­patibilità, in una riflessione più profonda ancora, la do­vremmo motivare in una scissione del reale, che non è nel piano di Dio, nel piano provvidenziale del Signore che passa attraverso la Croce. Non si può teorizzare una compatibilità di principio, ma non si può neanche affermare una incompati­bilità di principio, purché non si voglia, per dirla terra terra, restare attaccati alla seggiola. Ci deve essere que­sta disponibilità a lasciarsi adoperare dalle circostanze, a lasciarsi adoperare da Dio, anche per un breve tempo, segna­to magari da un grande insuccesso.

Questo è in sintesi il mio piccolo pensiero in ordine alla mia piccola storia.  Una storia che , al di là dell'episodio politico ( che nella mia vita è stato un episodio relativo, anche se molto significativo, un episodio che non rinnego, di cui ringrazio Dio, perché mi ha arricchito di molte cose) ha ritrovato una continuità nell'esistenza , che va al di là di questi momenti, di queste interruzioni fortuite di pura grazia, per cui Dio ti  adopera. Questa grazia di Dio è chiara sopratutto se non la si cerca per niente .

Io non ho cercato per niente di entrare in politica. Lo dico sempre , ed è una verità sacrosanta: sono entrato in politi­ca attraverso una rottura di testa per un incidente d'auto. Mi hanno chiamato a Roma i grandi della Democrazia Cristiana nel luglio del 1945 per il primo Congresso Nazionale del partito. Io non conoscevo nessuno, non ero conosciuto da nessuno. Sono arrivato a Roma con ritardo, perché avevo avu­to un incidente d'auto a Grosseto. Appena arrivato Piccioni mi ha detto :" tu sarai vice segretario della Democrazia Cristiana". " Ma chi ? Io ? Ma mi conoscete ? Io non vi co­nosco, non ho mai visto De Gasperi, e voi non conoscete me."

" Sta cheto, sta cheto, stasera vedrai De Gasperi".

De Gasperi non si è fatto vedere , si è andati alle votazio­ni  e mi hanno eletto.

Quando sono tornato a casa con la testa fasciata  e mi sono presentato a mia madre , non sapevo come fare. Ho dovuto rassicurarla che non era niente, ma anche dirle che  avevo una rottura di testa ancora più grande. Lei , che è stata sempre intimissima a me, sin dal principio ha avuto orrore di quello che stavo facendo, e sapevo che l'aveva.

Ripensandoci  adesso e vedendo le cose in una prospettiva lontana, quella notorietà provincialissima  che avevo allora è servita semplicemente a prendere un uomo del Nord, come si doveva, che avesse fatto un poco di attività partigiana e che fosse così sconosciuto da non poter dare fastidio per l'eternità. Qui c'è stato l'equivoco. C'erano altri nomi, io li ho fatti:  perché non questo, non quello ? Questi altri nomi erano già noti, si sapeva di loro, invece  io ero il meno conosciuto, non sapevano di me , sopratutto non sospet­tavano che avrei creato delle grane. Le ho create davvero, con buone intenzioni certamente. Sono stato un rompiscatole. Ecco , la fortuità. Io insisto su questo: la gratuità. Ero professore, avevo il mio lavoro , ci tenevo, mi riusciva; avevo un certo successo e una certa simpatia da parte degli studenti; non avevo nessuna intenzione di fare della politi­ca la mia professione, nemmeno quando ci sono stato dentro;  per questo con grande semplicità, quando ho capito come sta­vano veramente le cose, e mi è sembrato di avere ormai suf­ficientemente meditato, li ho salutati e me ne sono venuto via. Non mi è costato niente, non ho fatto nessun bel gesto. Ho semplicemente continuato , al di là di quell'episodio, la mia vita, con lo sbocco al quale il Signore poi mi aspetta­va.

Non si può sostenere una compatibilità di principio tra e­sperienza di fede e politica, nè una incompatibilità assolu­ta; ci può essere invece  un servizio episodico, più o meno lungo, ma sempre limitato nell'arco dell'esistenza. 

La realtà dei politici di professione, che sono tali da trenta o quarantanni, credo che non la si possa ammettere. Non si tratta  di una ragione moralistica, ma di un princi­pio. Dio non può volere che noi siamo immersi sino a questo punto nel contingente. Dio ha un altro disegno su ciascuno     di noi, qualunque sia la nostra attività. Su certe "indi­spensabilità" così protratte io non credo, lo dico con molta sicurezza. La vita politica è una vita molto dispersiva. Ho fatto una grande fatica per tenermi in mano.  Sono episodi personali, ma che parlano, proprio  per questo, da sè.  La vita politica è un servizio totale, globale, estenuante, con orari impossibili; anche se si disciplina seriamente, ri­chiede una disponibilità ad lavoro che è logorante, logoran­te lo spirito. Accadeva,  faccio un esempio, che il buon Go­nella fissasse la direzione del partito alle dieci di sera; si cominciava e si andava avanti sfiniti,  fino alla quattro del mattino, in una stanza piena di fumo, in cui tutti fuma­vano e io solo non fumavo, ma respiravo da tutti i pori il fumo che gravava nella stanza. Ero estenuato anche dal meri­to dei problemi trattati. Al mattino andavo a messa, l'unica cosa che potevo fare era di piantarmi lì, nel banco, e a­scoltare. Magari ascoltavo anche due o tre messe, ma proprio come un somaro, come il giumento del salmo. Pur tenendomi in mano così, non potevo resistere per molto tempo; a meno di non prendere tutto con una superficialità suprema. Allora si può vivere anche degli anni in politica, ma non si fa più politica.

Il pensiero , la responsabilità, il tormento, il ritorno continuo sui problemi supremi, tutto ciò si incrocia, si ac­cavalla. Il Signore si può servire per un momento di noi. Dobbiamo appunto pensare che Lui fa come con i limoni spre­muti, ci butta poi nel cestino. A questo dobbiamo essere prontissimi. La politica, per contro, educa a un bisogno di fare, a una necessità di comandare, ad una mentalità che sancisce il primato dell'azione e della gestione, che è con­traddittoria con una vita spirituale comunque concepita. Però nonostante tutto dico: non c'è incompatibilità di prin­cipio tra fede e politica, può accadere che  a volte siamo chiamati a fare politica, in una circostanza, in un determi­nato momento, per un certo breve periodo, episodicamente. E' un servizio che in un certo momento può esserci chiesto, purché noi siamo ben convinti che il servizio deve poi dura­re poco. Ci sono amici in parlamento, che hanno pensato il loro servizio, anche per confidenze che ho avuto, come un servizio quarantennale.

Rispetto alla grande battaglia che si combatteva in quegli anni,  io ho perduto. Non è questo che conta. Io ritengo che, per certi aspetti, anche politici, quello che è stato fatto, abbia avuto una certa efficacia in un certo momento. Non è stata la delusione per l'insuccesso personale a con­vincermi  che dovevo andarmene. Questo l'ho detto più volte, e lo confermo oggi più a ragion veduta. A convincermi che dovevo andarmene sono stati  dei giudizi storici su una cer­ta  situazione della politica in Italia. Essi non riguarda­vano soltanto l'inefficacia della politica che si stava fa­cendo e alla quale non  credevo di poter consentire. Vedevo già allora con chiarezza dove si  poteva andare a finire, perché certi pericoli, che adesso sono diventati delle cata­strofi, li avevo visti nettissimamente nel 1946.

Quando ho lasciato l'attività politica nel 1951 ero convinto che non si poteva operare diversamente  in quelle condizioni del nostro Paese e del mondo cattolico italiano . L'ostacolo maggiore  stava in una certa cattolicità che c'era in Ita­lia;  i motivi dell'insuccesso fatale  venivano da lì.

Anche nella Chiesa non mi facevo illusioni. Per la mia pro­fessione di canonista sapevo cosa era la Chiesa e cosa  po­teva essere in determinate situazioni. Non c'è stata delu­sione, neanche lì, neanche  nella Chiesa. Ne prendevo atto con semplicità, e non mi stupivo di niente. Di fatto non mi sono mai lamentato con nessuno. La decisione di smettere o­gni attività politica è  venuta dalla convinzione che biso­gnasse operare più profondamente, a monte, in una cultura del tutto nuova e in una vita cristiana coerente. Poi il  passaggio è stato radicalizzato; è passata anche la cultura  e rimasta solo la vita cristiana.

Spesso questo rapporto tra fede e politica diventa laceran­te. Capisco come da una parte si senta una responsabilità immediata che non si può lasciare, dall'altra ci sia l'ur­genza di una scelta diversa. Anche io, quando sono stato membro della commissione della Costituente, ho sentito que­sto bisogno. Fatta la Costituzione me ne volevo andare, però ho ricevuto l'imposizione di proseguire, di rinnovare il mandato, che non ho tuttavia portato a termine.

Viviamo in una crisi epocale. Io credo che non siamo ancora al fondo, neppure alla metà di questa crisi. Sempre più ci sto pensando. Sono convinto che lo scenario culturale, in­tellettuale, politico non ha ancora  esplicitato tutte le sue potenzialità. Noi dobbiamo considerarci sempre di più  alla fine della terza guerra mondiale; una guerra che non è stata combattuta  con spargimento di sangue nell'insieme,  ma che pure c'è stata in questi decenni. Questa guerra è in qualche modo finita, con vinti e vincitori, o con coloro che si credono vinti ed altri che si credono vincitori.  La pa­ce,  o un punto di equilibrio, non è stata ancora trovata in questo crollo complessivo. Il mondo è crollato  oggi più che non  dopo il 1918 o il 1917. Si pensi alla Russia: cosa è accaduto della Russia ?  Ha perduto la guerra e si trova in condizioni peggiori di quelle del momento del suo disfaci­mento nel 1917, anche  strategicamente e territorialmente. E' è stata amputata più gravemente che nel trattato di Brest Litovsk, con conseguenze indicibili, indescrivibili. Gli Stati Uniti cosa hanno vinto ? Non si può dire che siano  vincitori. E' crollato il mondo avversario senza che l'Occi­dente se ne rendesse conto e senza che preparasse niente. Durante i due primi conflitti mondiali, nella fase finale delle operazioni militari, c'è stata una preparazione  della pace,  tanto nel 1917 che nel 1943-44; oggi niente  di simi­le, niente è stato preparato, tutti sono stati sorpresi e tutti sono stati sconvolti.

La democrazia americana è finita; anche se ha vinto, non può proporre niente, e sino a oggi  non ha  proposto niente. Lo sconvolgimento è così radicale che noi non sappiamo quello che sarà domani, quello che sarà nel 1994, che sorprese a­vremo. C'è un rimescolamento completo di situazioni, siamo ritornati in Europa a prima del 1914. Il rimescolio dei po­    poli, delle culture,  delle situazioni è molto più complesso  di quello che non fosse nel 1918.  E' un rimescolio totale. In più c'è la grande incognita dell'Islam, una incognita in qualche modo imprevedibile.

Noi cerchiamo di rappresentarci questo sconvolgimento totale  con dei modelli precedenti, quelli del 1918 , quelli della pace di Versaglia, quelli del 1944-45, quelli di Yalta, ma  sono tutti non proporzionati, perché il rinnovamento è assai più radicale.  Siamo dinnanzi all'esaurimento delle culture. Non vedo nascere  un pensiero nuovo nè da parte laica, nè da parte cristiana. Siamo tutti immobili, fissi su un presente,  che si cerca di rabberciare in qualche maniera, ma non con il senso della profondità dei mutamenti. Non è catastrofica questa visione, è reale; non è pessimista, perché io so che le sorti di tutti sono nelle mani di Dio. La speranza non vien meno, la speranza che attraverso vie nuove e imprevedibili si faccia strada  l'apertura a un mondo diverso, un po­chino più vivibile, certamente non di potere.

Questa speranza , globale in un certo senso, è speranza per tutto il mondo, perché la grazia di Dio c'è, perché Cristo c'è , e  non la localizza in niente , tanto meno in noi. L'unico grido che vorrei fare sentire oggi è il grido di chi dice:  aspettatevi delle sorprese ancora più grosse e più globali e dei rimescolii più totali, attrezzatevi per tale situazione. Convocate delle giovani menti che siano predi­sposte per questo e che abbiano, oltre che l'intelligenza, il cuore, cioè lo spirito cristiano. Non  cercate nella nostra generazione una risposta , noi siamo veramente solo dei sopravvissuti.

 

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