INTRODUZIONE
appunti
Vorrei
dividere questa mia presentazione in vista di un corso di formazione alla
politica come è questo in tre parti: una
prima parte tenterà una mappa teorica del discorso, un’altra parte cercherà
di illustrare la sua interpretazione storica, la terza è una piccola antologia
di brani che riguardano la fase.
Politica
e possibilità
“La politica non si fa con i “se”,
ma i se non avvenuti rischiano a volte il buio della storia. Le occasioni
perdute di avanzamento non solo non ritornano, ma innescano spesso pesanti
ritorni all’indietro”.
Sembra
una frase, quasi buttata nel discorso a spiegare una possibilità delusa, quella
di una riforma del socialismo reale negli anni sessanta, e invece evidenzia una
costante strategica delle riflessioni di Tronti. La storia non si fa con i
“se”, ma senza i “se” la storia rischia di diventare incomprensibile.
Cosa vuol dire? Se la storia si
distende nello scenario della necessità (tutto ciò che è reale è razionale)
la politica si colloca nello spazio della possibilità. E la possibilità accade
nel momento opportuno, nella contingenza degli avvenimenti.
Mi
sembra che il libro si muova all’interno di una idea della possibilità che
sfugge sempre all’irrigidimento del reale. Volendo usare il linguaggio di una
persona che so cara a Tronti, non c’è mai coincidenza tra verità e realtà:
c’è un rapporto interiore, agonico, mai di assimilazione. Per un credente
verità della storia e realtà della storia coincidono solo nell’ultimo
giorno, quello dell’apocalisse finale. E’ il sogno di Giacobbe. Solo un
sogno. Quella salita e discesa degli angeli tramite una scala che congiunge la
terra e il cielo, era stata qualche capitolo prima distrutta nella forma della
Torre di Babele. Sappiamo che un giorno, che non a caso chiamiamo “del
Signore”, una lunga scala consentirà di transitare dalla terra al cielo e dal
cielo alla terra, consentirà di vivere insieme verità e realtà. Un giorno. Ma
ai nostri giorni, diceva Edoardo Benvenuto, più che Betel, c’è Penuel, la
lotta di Giacobbe con Dio, che è una lotta crudele, che si conclude con una
ferita e con un nome, Israele. In questa lotta notturna con Dio, credo sia
iscritto anche per Tronti, il rapporto tra politica e possibile.
E’
certamente questo un pensiero ebraico-cristiano. La creazione dal nulla, e
quindi l’abbandono della eternità della natura, descrive la radicale
contingenza del mondo. La realtà è la concrezione di una possibilità. La
storiografia che è sempre dei vincitori, si dipana da questa rimozione del
possibile.
La
possibilità in politica, ma anche altrove, non è un reale debole o sbiadito,
ma può avere la forza di una verità che non si è realizzata nella storia. E
la storia assume allora un senso altro, un corso diverso.
La
possibilità accade nella contingenza, coglie all’improvviso la storia e la
dischiude ad esperienza inaudite.
La
politica moderna ha questo sigillo e
questo martirio della possibilità.
Politica moderna, infatti, e non antica.
“Il disegno divino di
storia della salvezza è fallito... Il grande Medioevo cristiano fu la culla di
questo folle disegno di finale città celeste, provando di tutto, da Agostino a
Innocenzo III, e non riuscendo in niente, tranne nell’accentuare, fino al
limite possibile di vita, la tragica storia della libertà umana.. La politica
nella modernità fu la vera,
legittima erede della filosofia cristiana della storia: tutta la politica, il
realismo come il messianismo, tattica ed escatologia, utopismo e pragmatismo.
Perché altrimenti le categorie del politico avrebbero dovute essere - come sono
state - concetti teologici secolarizzati? La politica contro la storia,
costretta a cercare per sé la forza contro la potenza dell’altra. E solo
quando l’ha trovata, ha occasionalmente vinto” (6)
politica
e contingenza
Mi
pare questo un altro aspetto delle riflessioni di Tronti. In parte lo abbiamo già
evocato parlando del rapporto tra politica e possibile. La possibilità non è
un destino inesorabile, un approdo garantito. E’ piuttosto l’irruzione di
evento che modifica il tragitto della storia.
“La politica non ha in sé
un disegno, se lo deve volta a volta dare, consegnandolo a un soggetto del
tempo, non ha dalla sua, mai, la ragione delle cose, sa che le stesse cose
ritornano, ma non può accettare questa condizione, è costretta a chiedere
progresso nello sviluppo, ma proprio questo depontenzia la sua forza, fino a
lasciarla disarmata, nell’immediatezza della fase, di fronte ad ogni grande
ritorno dell’epoca con i suoi invalicabili confini” (7)
Anche
quando queste mete sono state raccontata, finalisticamente descritte, esse erano
l’elaborazione di un mito, di una resistenza alla storia. Accade poi che
giunga il momento opportuno in cui un racconto mitico si faccia passaggio di
politica pratica. Allora è costretto ad essere contro se stesso, a scendere in
campo nudo contro la necessità della storia.
La
politica contro la storia
Un’altra
caratteristica della politica moderna è quella di essere contro la storia.
“Tutta la politica delle
grandi origini del moderno, primo cinquecento- metà seicento, pensa il mondo e
pensa l’uomo contro la storia che immediatamente la circonda. Macchiavelli
contro la storia d’Italia; Bodin e i politiques
contro la storia di Francia; Suarez e i gesuiti contro la storia di Spagna,
Althusius contro la storia del continente Europa, Hobbes contro la storia
dell’isola mondo d’Inghilterra. E qui, con la prima rivoluzione inglese,
sintesi delle guerre civili europee di allora, con la New Model Army, il primo
partito politico in Occidente, si conclude il processo di accumulazione
originaria delle categorie del politico moderno. La storia ha perso. La politica
ha vinto. Il capitalismo può nascere.” (9)
C’è
in questa riflessione di Tronti l’approdo di un lungo itinerario di ricerca,
iniziato più di venti anni fa intorno alla autonomia del politico. Sarebbe
interessante ricostruire fase per fase questo percorso che ha origine nel cuore
degli anni settanta. Vorrei citare solo qualche frase dell’antologia da lui
curata in più volumi per la
Feltrinelli, intitolata non a caso Il
politico. Sono riflessioni del 1976:
“Il politico ha una
storia. E’ la storia moderna del rapporto di potere. Ricostruire, rileggere,
accumulare materiali, mettere in fila i problemi seguendo il comodo cammino del
tempo, ripartire dai classici, non è una fuga all’indietro, è una prova, un
saggio, un tentativo di verifica di una ipotesi.. La critica marxista della
politica non ha seguito, non ha accompagnato, non ha anticipato la critica
marxiana dell’economia politica” (1)
C’è
una critica della politica moderna che il movimento operaio non è mai riuscito
a produrre. Dinanzi alla straordinaria critica dell’economia capitalistica,
non c’è una straordinaria critica della politica moderna. Questa assenza era
indicata allora come un compito urgente per non lasciarsi sopraffare da quella
normalizzazione della storia che
avrebbe definitivamente vinto alla fine del secolo. Questa urgenza nel testo del
1998 manca. La sconfitta è compiuta. La mancata critica della politica,
l’assenza di una grande
iniziativa di politica pratica, ha chiudo definitivamente una possibilità. Non
resta che comprendere questa
sconfitta. Ma non mi pare solo questa la differenza: quel legame stretto tra
storia politica e storia del capitale, che sembrava organico nel testo del 1976,
si fa qui ambiguo. Non c’è mai stata coincidenza tra politica ed economia,
tra politica e capitale, c’è stato rapporto, certo rapporto interiore, ma mai
identificazione. Nel novecento rapporto di contrapposizione.
“Un orizzonte di finale
salvezza ha sempre contraddistinto lo spazio/tempo della politica moderna.. C’è
stato bisogno della teologia politica perché la politica moderna potesse
profetizzare e organizzare il disperato tentativo di fare uscire la storia dai
suoi cardini. E infatti lo scontro è stato tra guerra della politica e
resistenza della storia.. La politica non contrastava il moderno, ma il suo
compimento. Una impresa impossibile perché il compimento era nell’inizio. I
due eventi simbolo che stanno a fondamento della
modernità, l’accumulazione originaria di capitale e la rivoluzione
industriale, segnano fasi epocali di inaudita violenza. La grandezza del
capitalismo è che su questi eventi terribili per l’uomo ha
costruito il progresso della società umana. La miseria del capitalismo
è che su questo progresso sociale ha impiantato la forma più perfetta di
dominio totale sull’essere umano, il potere liberamente accettato. Si poteva
da quell’inizio non arrivare a questo compimento? Non si poteva. Ma sia lode
alla politica per avere cercato di deviare il corso del fiume in piena”
(15-16).
Da
una parte il capitalismo: dall’accumulazione originaria, alla rivoluzione
industriale, alla globalizzazione; dall’altro la politica, il tentativo di
resistere a questo destino, di deviare il corso della storia, di schiudere
possibilità diverse al dominio incontrastato dell’homo oeconomicus, ormai giunto al suo trionfo
alle soglie del terzo millennio.
Questi
mi paiono alcuni passaggi teorici, certo non tutti, che caratterizzano il
percorso di Tronti: mi verrebbe alla fine di condensare tutta la distinzione tra
politica e storia, con altre
immagini di carattere teologico, quelle di creazione e redenzione. Una
distinzione tutt’altro che pacificata in teologia. E rimando anche qui alle
riflessioni che riprenderemo in altra occasione di Edoardo Benvenuto.
La
seconda parte di questa mia introduzione cercherà di soffermarsi su alcune
interpretazioni storiche del libro
di Tronti. Partirò da quella più generale, ma centralissima nel volume,
del rapporto tra politica e movimento operaio.
“Tutto il contrasto tra
capitalismo e socialismo, si può leggere come conflitto tra economia e
politica. Anche la vittoria dell’uno sull’altro si legge così. Il movimento operaio ha rappresentato questa
vocazione moderna, in fine weberiana,
alla politica. La tesi del movimento operaio come
ultimo grande soggetto della politica moderna è verificata in articulo
mortis: chiusa la storia del movimento operaio, non c’è stato più luogo
per la politica..” (41)
Nel
mondo in cui ci troviamo sembra scomparsa la politica, all’antagonismo
organizzato su progetti di società alternativi, si è sostituita
l’amministrazione dell’esistente. La vittoria planetaria dell’economia
sembra avere inabissato la politica. E questo inabissarsi della politica
coincide con la fine irreversibile del movimento operaio. E’ su questo nesso
che lavorano le riflessioni di Tronti. Nel novecento la politica è stata
espressa dal movimento operaio. C’è un rapporto interiore tra politica e
movimento operaio.
“Nel novecento è accaduto
un fatto straordinario. La classe operaia che si è fatta Stato, con la
rivoluzione diretta dal partito, ha sottratto la politica al capitale: che non
solo per questo, ma anche per questo, ha subito un quasi crollo nella grande
crisi. Per uscirne ha dovuto prendere dal socialismo, provvisoriamente, ma
strategicamente il rovesciamento del rapporto tra economia e politica...” (41)
E’
un legame anche tragico, come vedremo.
Il
grande ottocento
Si
tratta di indagare più da vicino questa vocazione eminentemente politica del
movimento operaio. Essa affonda le sue radici nell’ottocento, proprio alla
fine delle guerre napoleoniche, quando sui apre la pace dei cento anni, che
finirà con la prima guerra mondiale. Il movimento operaio assume su di sé, fin
dall’inizio, il compito immane della politica moderna, quello di trasformare
la guerra appunto in politica.
“Il compito del movimento
operaio è quello di trasformare la guerra in politica. Dopo la guerre
napoleoniche la lotta di classe “ per prima traduce la guerra in politica.
Essa ha avuto, per tutto l’ottocento, la stessa funzione di civilizzazione
della guerra che nei due secoli precedenti aveva avuto lo jus pubblicum europeum. Il primo diritto borghese prendeva atto
della guerra e la regolava, le prime lotte operaie la sostituivano e la
negavano. Siamo a questa altezza. Bisogna ridare alla lotta sociale di classe
questo significato nobile nella storia del genere umano. La solidarietà, la
cooperazione, il mutuo soccorso, nel lavoro e nelle lotte,
l’autorganizzazione, lo spontaneo sorgere dal basso di una autonoma
antagonistica concezione del mondo e della vita, quella che con una definizione
sola si può chiamare il sorgere del socialismo, è il lungo
lento passaggio storico di una lessinghiana educazione dell’umanità.
Qui la politica straordinariamente
non ha combattuto la storia, ma l’ha incorporata, l’ha integrata, l’ha
piegata a sé, l’ha fatta servire ai suoi propri bisogni.” (20)
Non
regolare la guerra, secondo il grande compito del diritto internazionale, ma
sostituirla.
C’è
una lunga prima fase che copre tutto l’ottocento: dentro il moderno, forza
interna alle sue contraddizioni, lontanissima da ogni immagine alternativa e
romantica, il movimento operaio è il grande soggetto della civilizzazione del
conflitto. E’ questo un pensiero che ritorna a spirale nel libro.
“L’opera scientifica di
Marx si trova dentro la pace dei cento anni. Marx nasce a età conclusa delle guerre civili europee, in piena
restaurazione.. Il filone classico entro cui egli colloca la presenza del
movimento operaio è la lotta sulla giornata lavorativa. Presenza organizzata in
produzione che precede e accompagna il luogo passaggio dalla manifattura
all’industria. Qui il movimento operaio assolve a quel compito specifico di
civilizzazione che è l’incivilimento moderno del rapporto sociale di classe.
Dal cartismo alle prime due internazionali, di questo si tratta. E tutto l’800
è questa crescita civile organizzata dal basso delle forme di solidarietà
sociale, contro la figura isolata, individualizzata, egocentrizzata del padrone.
Già allora il movimento operaio incontra la politica moderna, nella sua
funzione di incivilimento delle forme di guerra. Già nell’800 la sostanza
della politica moderna si fa soggetto operaio. (57)
capitalismo
e guerra
Le
cose cambiano radicalmente nel novecento. Il novecento rompe la pace dei cento
anni (1815-1914), si interrompe l’opera di civilizzazione
della politica e la guerra torna ad essere la forma dominante nello
scenario mondiale. Lo sarà fino alla fine in vari modi. Figura tragica di
questo passaggio è quella dell’operaio socialista internazionalista
costretto a difendere la propria piccola patria. “Quella persona umana
superiore che le lotte del lavoro avevano annunciato
viene rovesciata e
abbattuta.” (27) In un secolo la
storia moderna aveva prodotto il capitalismo mondo, ora la guerra mondiale
diventava la sua forma politica naturale.
(22) La vocazione non politica del
capitalismo esplode così in tutta
la sua violenza.
“Il processo di
concentrazione monopolistica, la finanziarizzazione del rapporto di capitale, il
brutale colonialismo e quindi l’imperialismo del capitalismo, sono una grande
mutazione antimoderna. Una regressione della civilizzazione, anche se poi sul
lungo periodo diventarono un motore di questa.. (57)
il
movimento operaio e la guerra
E’
in questo frangente che si colloca l’esperienza comunista del movimento
operaio.
“Il movimento operaio è
stato costretto a farsi leninista e comunista, a farsi Stato con la rivoluzione.
La politica moderna è stata costretta a continuare la guerra con altri mezzi, e
dopo due guerre calde ha imparato a farlo con la guerra fredda. Questa
costrizione di breve durata ha inciso sul breve periodo. La classi subalterne
vocate per natura e per storia alla pace, nelle loro rivolte, hanno dovuto
rispondere con la rivolta alla violenza: in un caso con la forza della
rivoluzione alla violenza della guerra.. (57)
E’
un compito immane: trasformare la guerra in rivoluzione.
“La forma comunista del
movimento operaio ha colto per prima la svolta della politica del 900. Lenin
quasi solo, vide l’amico nemico nell’alternativa tra guerra e rivoluzione.
Meglio subire un trattato inglorioso che continuare l’inutile strage. Contro
la guerra come storia europea, la politica come rivoluzione russa. Il comunismo
nel 900 nasce qui.. I comunisti sono gli unici che hanno tentato di realizzare
il socialismo. In una paese solo, in un mondo nemico, a partire da condizioni in
gran parte precapitalistiche. Le altre forme di movimento operaio non l’hanno
nemmeno tentato (61)
Trasformare
la guerra capitalistica in rivoluzione operaia: questa l’occasione storica, la
straordinaria contingenza dell’epoca. Averla colta, tentata, è stato il
merito del comunismo; aver fallito questo tentativo è stata la sua tragedia e
insieme la tragedia dell’intero novecento.
Si
colloca anche qui, in questo
contesto drammatico, il rapporto strettissimo che lega le forme del comunismo
alle forme della guerra, la creatività e i limiti del suo concetto di
rivoluzione.
“Si è realizzato un lungo
continuativo stato d’eccezione, che va dalla guerra civile degli anni venti
alla guerra fredda degli anni cinquanta. Il tentativo comunista di realizzazione del socialismo è stato questo:
governo politico non di una normalità, ma di una eccezionalità storica. E
nello stato d’eccezione sovrano è chi decide.. (45)
La
rivoluzione comunista del novecento si trova tutta iscritta
nella esperienza della guerra.
“La rivoluzione
proletaria del 900 si trova dentro la grande guerra, la costruzione del
socialismo in un solo paese si trova tra le
due guerre, l’unica riforma possibile del socialismo, la destalinizzazione, si
trova nella guerra fredda. Questi sono i tre episodi decisivi..”
Se
la guerra indica uno stato d’eccezione, la grande politica del novecento ne
esprime il livello più alto. La grande politica del novecento nasce dallo stato
d’eccezione, mantiene lo stato d’eccezione, per durare quel tanto che serve
alle forze di un ordine nuovo di stabilizzare il progetto politico. Fuoriuscire
dalla guerra, ma mantenere lo stato d’eccezione: questa l’intransitabile
aporia della politica nel novecento.
Si
tratta per noi di indicare più da
vicino questi passaggi.
“Il fallimento del
socialismo in Russia ha una data molto precoce. Coincide con il fallimento della
rivoluzione in Occidente. Quando Lenin lancia la geniale iniziativa della NEP,
era già consapevole di questo fatto. Cerca di distendere sui tempi lunghi la
rottura improvvisa dell’Ottobre. Il capitalismo non va
subito abbattuto, va prima piegato a servire il processo di accumulazione
originaria delle condizioni economiche del socialismo. Questo è il compito del
potere politico che guida, orienta,
controlla, tiene in mano il filo
del movimento....(27)
E’
la grande intuizione di Lenin: sviluppare il capitalismo per costruire il
socialismo, dare tempo alla rivoluzione, stabilizzare il governo politico
sull’economia. Primato della politica voleva dire mantenere lo stato
d’eccezione della guerra, ma trasformandolo in grande iniziativa politica. Una
lezione che dalla Russia passa anche all’America.
“Keynes,
almeno quello che ispira il new deal ,
ci sarebbe stato senza Marx, ma non senza Lenin. La mano politica che conduce il
capitalismo fuori dalla crisi segue i movimenti di quella che voleva condurlo
allo sviluppo. Il colpo di genio è qui nel Lenin uomo di governo.. (27)
Tra
le due guerre civili mondiali, il compito del comunismo fu quello di trattenere
la durata della rivoluzione, dargli tempo, allargare le esperienze, imporre il
primato della politica. “La grande politica è questa: organizzare il
conflitto senza scatenare la guerra (47)
Questo
è il grande orizzonte della politica del novecento, il movimento operaio impone
il primato della politica, esso insieme organizza il conflitto e lo sottrae alla
logica della guerra: guidare il capitalismo al suo superamento, farne uno
strumento della rivoluzione proletaria. Questa la sfida.
“Finché infatti, nel
grande novecento, la politica, con guerra e senza, ha tenuto il primato
sull’economia, l’esito finale dello scontro è rimasto incerto. Speranze
messianiche di trasformazione degli antichi rapporti sociali nutrivano il cuore
delle masse e l’intelletto delle persone. La politica era quello che deve
essere per cambiare le cose, una passione collettiva, qualcosa di più dell’io
penso. La politica che nel novecento delle guerre si è fatta rivoluzione ha
tentato questo sconfitto assalto al cielo.. La sostanza some soggetto è stata
afferrata e trasformata in soggetto collettivo consapevole di sé, classe con
coscienza di classe, che, liberando la propria parte, dava la libertà alla
totalità umana. Non la dichiarazione dei principi: tutti gli uomini sono liberi
e uguali, quindi anche i servi, anche gli schiavi, anche i sottomessi. Questo è
il paradigma emancipatorio universalistico delle rivoluzioni borghesi. Il
contrario. Liberati gli oppressi, gli sfruttati, i subordinati, tutti saranno
liberi. Solo liberando quella parte, ci sarà un’umanità libera. Grandiosa
apocalittica visione della storia universale, dal punto di vista di una
parzialità politica, con i segni della rivoluzione proletaria. Il comunismo del
900 è questo autosommovimento delle coscienze, emerso, esploso, e poi radicato,
in una volontà politica organizzata (51)
Primato
della politica imposta dalla classe operaia, ma primato della politica vissuto
anche dal capitale. Ci si può giustamente domandare:
“Si è proprio sicuri
che ci sarebbe comunque stato il welfare
state senza il terrore
suscitato dalla minaccia di una dittatura del proletariato?? Ci sarebbe stato
capitalismo riformatore senza la presenza politica, in mezzo alla storia del
900, della Russia sovietica? (62)
La
storia della cittadinanza sociale è una storia tutta politica: antagonismo di
classe e irruzione delle masse
nello Stato. La costruzione dello Stato sociale nasceva da un enorme problema
politico: è stata una vittoria del capitalismo democratico, una risposta
sindacale a un problema politico.
la
guerra fredda
Ma
prima di passare alle domande sulla
sconfitta del movimento operaio, conviene soffermarci sull’ultima forma che ha
assunto la guerra nel ‘900 , la guerra fredda.
“Originale concetto
storico quello di guerra fredda: guerra armata, non guerreggiata. Guerra senza
guerra, non per volontà dei popoli.. ma per virtù di una entità tutt’altro
che astratta.. la bomba atomica (46)
E’
questa una delle analisi più originali delle riflessioni di Tronti.
“Dopo la seconda guerra
mondiale capitalismo e comunismo ne escono rafforzati, ognuno nella propria
naturale vocazione, l’uno all’economia, l’altro alla politica”.
E
tuttavia proprio qui, in questi anni, si colloca il crollo del comunismo. Alla
grande iniziativa politica subentra la concorrenza economica, tecnica,
scientifica; alla riforma del socialismo la sua chiusura istituzionale.
Colpevole, in questo, per tanti versoi, anche la sinistra europea.
“Chi mise in crisi il
comunismo fu la guerra fredda. La politica della distensione fu grande politica
capitalistica. Forse l’ultima. Quello stato di confronto senza guerra e senza
pace fu micidiale per i sistemi
socialisti. Il socialismo sottratto al conflitto politico
e costretto alla competizione economica, lì ha perso. Quando non c’è
più politica contro l’economia, il capitalismo vince sempre (54)
Forse
dopo il 1956, alla morte di Stalin, era possibile mettere in moto il processo
rivoluzionario in occidente, costringere l’URSS a riaprire i giochi
all’interno del suo apparato di potere. Forse. Con gli anni sessanta la
partita è ormai chiusa definitivamente. La catastrofe è avvenuta; ciò che
viene dopo sono solo gli effetti di un fallimento. Il crollo del comunismo non
si situa nell’89, ma negli anni sessanta.
Il
fallimento del comunismo
Perché
questo crollo del comunismo? Una prima constatazione: il comunismo vince
nell’età delle guerre e perde quando essa finisce.
“Il comunismo non è
sopravvissuto all’età delle guerre civili mondiali. Esploso qui dentro, nato
in virtù di esse, con esse era vissuto e con esse aveva vinto.” “Il tragico
del politico del novecento non è quello di essere entrato nell’età delle
guerre civili mondiali, ma di non esserne uscito. Di non esserne uscito con una
grande politica alternativa alla guerra. Il capitalismo probabilmente non poteva
farlo. Troppo organico ad esso l’idea e la pratica della guerra tra gli
uomini. Ma perché non l’ha fatto il socialismo?”
Questa
domanda ricorre assillante
nelle riflessioni di Tronti: perché il comunismo ha fallito?
“Impossibile politica
moderna. Essa è arrivata a compimento con l’eroico tentativo del movimento
operaio. di farsi Stato. Il che voleva dire: l’apocalittica decisione delle
classi subalterne da farsi classe dominante. Solo la politica moderna poteva
forzare questo intransitabile passaggio... Ma in movimento operaio non si
è dato una filosofia della politica per l’altra sua faccia, come espressione
di irresistibile potenza, forza organizzata per una condizione di conflitto
permanente, dalla base società all’alto del potere. (34)
Il
limite del comunismo è un limite politico.
“E’ mancata una critica
marxiana della politica moderna che
stesse all’altezza della critica marxiana
dell’economia politica. Così si è regalata la libertà dei moderni
alla tradizione liberale, la sovranità popolare alla tradizione democratica, e
si è rimasti con in mano nemmeno una idea ma solo una pratica di potere
assoluto, da Stato moderno degli inizi, una cattiva sintesi, primitiva, di
Principe e Leviatano. Nessuna condizione storica contingente nella costruzione
del socialismo poteva giustificare questo.. Era il movimento operaio che
doveva farsi Stato, cambiando così, rivoluzionando, per questo solo fatto,
l’idra moderna di potere (34) Perché
questo passaggio non abbia funzionato non è chiaro.. (36)
Il
movimento operaio assume in modo
acritico il rapporto tra politica e potere: eredita, non crea; ripete, non
innova. E questo fin da Marx.
“Marx non colse il
carattere specifico moderno della politica. Fece correttamente critica
dell’ideologia e si fermò lì. Grande anticipatore del capitalismo futuro non
vide il futuro della politica. Gli sfuggì l’età della guerra come
ordinamento concreto provvisorio del mondo di domani.. E’ assente nel suo
pensiero la possibilità di un crollo della politica...”
E’
il lato oscuro, acerbo, arcaico della politica operaia.
“La classe operaia in Occidente non è riuscita a
emanciparsi dalle sue origini subalterne per diventare classe dirigente,
dominante in modo nuovo, egemonico. Si è fatta sindacato, si è fatta partito,
non si è fatta Stato”. (60)
E’
nella sua incapacità di durata, nella sua fragilità, nel suo rapido
dissolversi, che si misura tutta la debolezza della politica operaia.
“La politica
rivoluzionaria avrebbe dovuto trattenere e al tempo stesso liberare: trattenere
forze, liberare soggetti... (37) Il movimento operaio è stato sconfitto anche
perché si è lasciato chiudere su un tempo troppo breve di storia, non ha
saputo rovesciare contro la storia moderna la carica dei bisogni umani inevasi
della storia lunga, forse non ha potuto prendere respiro, immergersi nel passato
di tutte le rivoluzioni degli oppressi del mondo e di qui spingersi non
nell’attesa, ma nella preparazione e nell’organizzazione
dell’avvento di un futuro riscatto” (41)
E’
possibile oggi analizzare tutta l’arcaicità che non ha consentito al
movimento operaio di tenere sui
tempi lunghi la sua iniziativa politica.
“Si può dire così: il
partito non ha riconosciuto nel socialismo autonomia allo Stato, e non ha
riconosciuto nel capitalismo autonomia alla classe. Ma la politica moderna era
proprio questo gioco di autonomie, del sociale dal politico, del politico dal sociale, dell’economico da tutti e due,
dell’istituzionale dal giuridico.. differenze da governare attraverso lo
strumento del partito, grande soggetto della mediazione , o soggetto della
grande mediazione, tra masse e Stato. (64)
Possiamo
concludere così questa analisi del fallimento del comunismo:
“il socialismo non è riuscito ad essere altro dal comunismo di guerra.
E la identificazione, ufficiale, del movimento comunista con questo socialismo,
è stata micidiale.”
Il
comunismo italiano
Se
questo è stato l’itinerario del socialismo, non va nemmeno taciuto un
tentativo diverso, più complesso, di pensare la sua durata nella storia e
contro la storia. Il riferimento esplicito è al comunismo italiano.
“La forma
occidentale del comunismo
tendeva a configurarsi come civilizzazione della rivoluzione, sua incultarazione e
complessificazione, sua moderazione, moderna ritraduzione soggettiva della ormai
arcaica troppo necessitata rottura del 1917. Non il gradualismo delle riforme,
ma il processo della rivoluzione, ovvero il processo rivoluzionario anche
attraverso il gradualismo
riformatore.. La rivoluzione che
nel suo movimento, ad ogni passaggio, si
fa carico della ricerca del consenso e fonda culturalmente ognuno di quei
passaggi in una mobilitazione intellettuale e popolare, dove attinge forza e
organizza istituzioni, per vincere le resistenze, esercitare egemonia, esprimere
decisione. Un grande progetto di prassi
collettiva guidata dall’alto. Il limite è stato forse di non averlo a
sufficienza elaborato teoricamente con gli strumenti di pensiero del 900.”
(70)
intransitabili
vie
Cosa
si poteva fare e non si è fatto? Agire e far propria, torcere in favore del
proprio progetto, l’autonomia della politica.
“ Il capitalismo teme la
forza, ed è capace di subirla. Per sopravvivere come sistema economico, si
adatta a qualsiasi sistema politico. Questa era l’epoca del secondo novecento
a cui bisognava costringerlo. Le società capitalistiche riconoscono
l’autonomia del politico. Cercano di utilizzare la politica, ma la politica può
utilizzarle. Solo l’amico nemico sia dentro il socialismo, sia dentro il
capitalismo, poteva riaprire un discorso e un percorso d’epoca.”.
Si
trattava di
“Imporre-gestire uno stato
d’eccezione senza guerra, dopo le guerre, con la politica, continuando il
grande novecento e portando a compimento l’epoca. Questo destino era iscritto
nel comunismo della rivoluzione. Dentro la prima grande guerra e contro di essa.
La colpa dei comunisti e di non aver assolto al proprio destino. (72)
Questa
terza parte della mia presentazione consisterà
in una sorta di piccola antologia di brani tratta dal secondo saggio del volume
di Tronti. Qui le sue riflessioni si rivolgono all’attualità politica. Mi pare questo
un modo per sperimentare quanto abbiamo detto precedentemente sui
problemi attuali della fase.
Il
discorso di Tronti parte
dalla constatazione della crisi che
investe due strumenti fondamentali
della politica moderna, il partito e lo Stato.
Quel primato della politica che aveva caratterizzato il grande novecento
aveva come suoi riferimenti di fondo il partito di massa e lo Stato.
L’equivoco
di un mondo unificato e complessificato
“Invece
di capire la nuove forme della divisione del mondo, le frontiere attuali della
di radicalizzazione della storia, le figure contemporanee dello spirito di
scissione.. si acquisisce passivamente l’idea vincente di un mondo, di una
storia e di un uomo, riunificati e solo complessificati. Nessuna proposta seria
di partito della sinistra può darsi facendo proprio questo orizzonte subalterno
di cultura politica” (95)
l’impresa
partito
“Queste
due cose, l’impresa che si fa direttamente partito, per un momento addirittura
governo, e i gestori dei propri affari nella società civile che si fanno
direttamente rappresentanti del popolo in parlamento, fanno più critica degli
esiti possibili delle democrazie contemporanee di quante possiamo farne noi con
le nostre lagne teorico-stioriche.” (97)
un
incontro tardivo
“Democrazia
progressiva era il programma di Togliatti e di Dossetti. Storia cristiana,
tradizione socialista e politica comunista, allora lì, era il luogo di un
incontro strategico. E’ uno dei tanti paradossi con cui l’impeto della
storia si diverte a scompaginare le fila della politica; quelle componenti
popolari hanno finito per incontrarsi adesso, quando ormai sono senza più
popolo” (97)
il rischio di non essere eredi
“La
DC muore con Moro, il PCI muore con Berlinguer. La crisi dei grandi partiti è
molto anticipata, la percezione di essa molto attardata. L’iniziativa
giudiziaria e la rivolta leghista fanno vedere il fenomeno. Ma chi lo fa
esplodere è la fine dell’assetto bipolare internazionale. Fino al 1991 il
castello precariamente regge. E’ dopo che crolla. Il problema di oggi non è
perché siano trapassati quei partiti. Il problema è perché non abbiano
depositato un’eredità storica. Il tema dei passaggi d’epoca è sempre
infatti, per le formazioni politiche, quello dell’eredità. Più, molto di più,
che quello dell’innovazione. E’ grande politica quella di chi nella necessaria distruzione anche del proprio passato
guadagna posizioni nel rapporto di forza con l’avversario. E gestisce il
mutamento in questa prospettiva. L’uso della crisi per lo sviluppo è il
paradigma principe su cui si misura la qualità del politico. E non c’è
nessun sistema, né di idee, né di Stati, così malandato da poter essere
abbattuto pacificamente: se non per tragici errori soggettivi.. Un conto
è un cambiamento della propria forma, un conto è la rinuncia alle
ragioni della propria esistenza. Queste stanno nella storia viva e non si
aboliscono per decreto dall’alto. E non è vero che comunque esse ritorneranno
a farsi sentire sotto nuove vesti. La verità è che si possono perdere. Il
dramma è che si sono perse. Così accade che si smette di essere e poi non si
sa che fare. E, certo, diventa difficile organizzare il partito, se non c’è
più da organizzare una parte. (98)
un
non luogo
“L’attività
di governo è in mano a manager di vario livello. Perché il governo è
ormai un non luogo, effimero transito per le idee di società che lì non si
fermano più, come non di ferma il flaneur nei passages
metropolitani. E questo perché? Perché ci sono ancora partiti di governo, ma
non si sono più governi di partito”
partito
e stato
“Tra
monarchie assolute e regimi
rivoluzionari, tra dittature bonapartiste e restaurazioni aristocratiche, fino
alle prime forme istituzionali borghesi, lo Stato si fa regolatore
dell’accumulazione capitalistica e garante sociale della rivoluzione
industriale. Il partito politico prende in consegna questa storia egemone dello
Stato e la continua con altri mezzi.. I partiti del movimento operaio stanno
dentro questa storia, quelli riformisti e quelli rivoluzionari, di massa e di
avanguardia, costruttori di welfare o del socialismo in un paese solo.. insomma
il destino del partito è il destino stesso dello Stato, e della politica
moderna. Improbabile un ritorno in grande dello Stato nella sua forma
tradizionale. Impossibile dunque il recupero della forma del partito quale si è
sviluppata tra ottocento e novecento. La crisi della politica sta qui. La
centralità dei governi ne è la conseguenza. Essi occupano spazi vuoti. E
assolvono a funzioni richieste.. Maggioranze politiche parlamentari eleggono e
sostengono consigli di amministrazione dell’azienda paese. Burocrati
competenti cercansi per gestire la cosa pubblica, cioè per far quadrare il
bilancio, cioè per rientrare dai debiti, cioè per rispettare le compatibilità,
sociali e internazionali, entrare in Europa, uscire dalle emergenze, primo tempo
della manovra, mettere a posto i conti, secondo tempo della politica, si vedrà.
Da quanto appunto non si danno idee alternative di Stato? Da quanto gli
schieramenti non si distinguono più
per il senso diverso che danno alla politica? Qui è intervenuto un guasto
profondo, difficile da riparare.. (104)
Lo
Stato non è già più concentrazione di potere e monopolio della violenza. Non
ha forma né per l’una né per l’altra. Le masse politicizzate organizzate
in partito che facevano la categoria politica di popolo, sono diventate gente
apolitica fatta di non individui privatizzati e manipolati.” 105
il
mercato e la politica
Questa
centralità del mercato elettorale nel sistema politico, questa riduzione a
conquista del consenso dell’agire politico, è il male oscuro delle democrazie
moderne. Per questa via i regimi democratici diventano regimi oligarchici
allargati.. Il partito oligarchico degli eletti diventa il partito del leader da
eleggere, il partito di tutti diventa il partito di nessuno, un non partito, che
viene scelto per un giorno, ma che non chiede - non deve chiedere! -
appartenenza quotidiana. Il partito è il voto. I veri poteri forti sono i
sondaggi di opinione. C’è solo un altro potere che fa testo: l’andamento
della Borsa... La confusione tra partito politico e coalizione elettorale, la
tentazione di fare di quest’ultima un soggetto politico, sta dentro una idea
subalterna di partito, un’idea egemonica di opinione pubblica, cioè una idea
passivamente neutra della politica. (106)
senza
le masse e senza lo Stato: quale politica?
La
politica ha perso, nella seconda metà del secolo, quasi insieme, le due
soggettività storiche, che le permettevano l’uso di una
propria forza: le masse e lo Stato. Come e con che cosa sostituire questi
soggetti forti, queste forze soggettive? Ecco il compito vero che ha di fronte
la sinistra (110)
prediche
parrocchiali
Riforma
dello Stato sociale, andare oltre lo stato sociale, senza intaccare
l’universalismo dei diritti, privatizzare tutto assicurando la pubblica
assistenza ai ceti più deboli: prediche parrocchiali progressiste. Si pensa di
parlare in modo nuovo di politica, espungendo dal discorso il tema del potere.
Risultato: il potere che si esercitava senza la politica, adesso si esercita
contro la politica (113)
politica
e complessità
Se
si dice che il partito deve galleggiare sull’increspatura delle onde della
complessità sociale, allora tanto vale rinunciare all’idea di partito e
pensare ad un’altra cosa. Il partito che voleva
stare tra le pieghe della
società, ci stava in realtà con una forza organizzata. Io dico che compito del
partito oggi è quello di semplificare politicamente la complessità sociale.
Semplificare vuol dire mobilitare. Non è complessificando la realtà che si
produce iniziativa politica. Complessificare per conoscere non per agire. Mai
come adesso bisogna saper distinguere i due piani della cultura e della
politica” 115
dividere
l’uno in due
La
politica non ci sarà mai, forse non ci sarà più, se non si torna a dividere
l’uno in due, al di là di tutte le apparenze sistemiche.. Due schieramenti
politici, o si motivano su due grandi interessi parziali, in concorrenza per chi è più capace
di curare, da quel punto di vista, l’interesse generale, e confliggono
e si contrastano su questo, oppure sono ognuno una finzione formale e insieme
predispongono una alternativa virtuale. Una reale alternanza politica chiede
grandi alternative tra modelli di società. La definitiva scomposizione del
centro politico chiede la scomposizione politica del centro sociale, di
quell’aggregazione vischiosa, quotidianamente compromissoria, di interessi
corporativi tra loro solidali che producono consenso umorale a che li
rappresenta così come sono. Lo stesso moderatismo va inseguito e rappresentato
come tale, o non va piuttosto
dissolto e radicalizzato in opzioni democratiche alternative?.... Scomporre
l’idea di gente, dividere il pensiero unico, rinviare corpi, ceti, individui
ai grandi interessi, riaggregare la società sui due poli, è quello che fa, che
può fare, che deve fare la politica. La sua vera riforma è questa. Di qui
soltanto diventa possibile il recupero della sua autorità. 117
quale
società
Quando
si conviene tra schieramenti politici concorrenti al governo della società che
c’è una, e una sola, forma possibile di organizzazione sociale, che cos’è
questa se non una soluzione totalizzante del problema politico?