il punto di vista    

MEDITAZIONE

NELLE VISCERE DI DIO[1]

di

Pino Stancari

Una lettera particolare 

Prenderemo in considerazione uno degli scritti di Paolo, la Lettera a Filemone. E’ lo scritto più breve di tutto il NT. E’ una lettera che per certi versi assomiglia ad un biglietto,  uno di quei testi, forse un po’ scarabocchiati, con cui si interviene, in rapporto ad una situazione specifica, per esprimere  la propria affettuosa partecipazione. La Lettera a Filemone ci coinvolge in una situazione particolare e  ci trasmette l’intensità della partecipazione di Paolo. Il testo è molto stringato, estremamente sobrio. Come sempre succede, le pagine di Paolo, anche se un po’ stiracchiate, anche se un po’ malconce, anche se esposte a tutti gli inconvenienti di un vissuto avventuroso, sono sempre cariche di contenuti teologici segnati da una singolare tensione pastorale.

Filemone è il nome di un cristiano. Solitamente Paolo scrive a delle chiese, a delle comunità, in questo caso scrive ad un cristiano di Colossi, Filemone.

Paolo si trova in carcere a Cesarea, tra l’anno 58 e l’anno 60.

Il caso di Onesimo

E’ successo un fatto. Filemone, persona stimabile, da anni ormai ha dimostrato di essere veramente segnato dalla novità che ha toccato la sua vita in seguito all’evangelizzazione, la sua casa è stata trasformata, la sua famiglia è coinvolta. Filemone, evidentemente un personaggio relativamente benestante, ha degli schiavi. Uno di questi schiavi si chiama Onesimo ed è fuggito dalla sua casa. La situazione in cui si trova uno schiavo fuggito è piuttosto drammatica. Fenomeni del genere erano piuttosto frequenti. Una moltitudine di schiavi fuggiti girovagava per il territorio dell’impero e andava spesso a rimpolpare le plebi degradate delle grandi metropoli. Un problema di ordine pubblico a riguardo del quale l’impero con i propri mezzi giuridici e amministrativi tentava di intervenire. Il diritto vigente prevedeva che uno schiavo fuggito, qualora fosse stato ritrovato, era passibile di gravi punizioni, fino alla pena di morte. Naturalmente non era una prospettiva scontata, perché uno schiavo che fugge è un patrimonio che viene perduto, per cui, se il padrone ritrova il proprio schiavo, recupera almeno parzialmente il patrimonio che era stato compromesso, quindi non è nell’interesse del padrone condannare a morte lo schiavo ritrovato. Se lo ha ritrovato, lo punirà, ma probabilmente lo reintegrerà nella sua condizione di servo sottoposto a lavori che l’economia della casa esige. Tuttavia in linea di principio, il padrone ha il diritto di condannare a morte il suo schiavo.

Onesimo è fuggito dalla casa di Filemone, è andato un po’ in giro per il mondo, forse ha anche combinato qualche guaio, si sarà portato dietro qualche forma di liquidazione, e man mano ha cominciato a rendersi conto che la sua situazione era poco tranquilla: si è sentito braccato, minacciato, si è messo in viaggio, si è spostato da una località a un’altra. Fatto sta che raggiunge Paolo, mentre questi si trova in carcere a Cesarea. Paolo lo riconosce, perché ha frequentato la casa di Filemone, sa con chi ha a che fare. Tra i due si stabilisce una comunicazione molto intensa e  affettuosa. Onesimo evangelizzato da Paolo, si converte, viene battezzato e si accosta a Paolo in un momento drammatico per lui, in carcere a Cesarea. Onesimo gli presta aiuto, gli dà soccorso, lo sostiene. Ad un certo momento Paolo decide di rinviare Onesimo, lo schiavo fuggito, al suo padrone, Filemone, a Colossi.

Quando Onesimo si presenta a Filemone porge la lettera che noi adesso leggiamo. Onesimo, lo schiavo fuggito in modo increscioso dalla sua casa, adesso si presenta perché proprio Paolo lo ha rinviato.

Un biglietto scritto di sua mano

Il biglietto di accompagnamento spiega come Paolo interpreta la situazione. Il biglietto Paolo lo ha scritto di sua mano. Lo dice egli stesso, il testo è qua e là un po’ traballante, perché Paolo non era un buon scrivano. Solitamente detta le sue lettere, in questo caso invece l’ha scritto proprio lui, con un testo un po’ nervoso, un biglietto, così come uno fa ogni tanto con qualche svolazzo, dei punti esclamativi, andate a capo. L’importante è riempire il cartoncino. Questo determina qualche piccola difficoltà nell’interpretazione di alcune  righe. Filemone legge e capisce quello che Paolo gli sta dicendo.

Paolo sta esercitando un potere, un potere esercitato che ha poco da spartire con quelle espressioni di autorità che noi solitamente identifichiamo con l’esercizio del potere.

1Paolo, prigioniero di Cristo Gesù, e il fratello Timòteo al nostro  caro collaboratore Filèmone, 2alla sorella Appia, ad Archippo nostro  compagno d'armi e alla comunità che si raduna nella tua casa: 3grazia  a voi e pace da Dio nostro Padre e dal Signore Gesù Cristo.

4Rendo sempre grazie a Dio ricordandomi di te nelle mie  preghiere, 5perché sento parlare della tua carità per gli altri e della  fede che hai nel Signore Gesù e verso tutti i santi. 6La tua  partecipazione alla fede diventi efficace per la conoscenza di tutto il  bene che si fa tra voi per Cristo. 7La tua carità è stata per me motivo  di grande gioia e consolazione, fratello, poiché il cuore dei credenti è  stato confortato per opera tua.

8Per questo, pur avendo in Cristo piena libertà di comandarti ciò  che devi fare, 9preferisco pregarti in nome della carità, così qual io  sono, Paolo, vecchio, e ora anche prigioniero per Cristo Gesù; 10ti  prego dunque per il mio figlio, che ho generato in catene, 11Onesimo,  quello che un giorno ti fu inutile, ma ora è utile a te e a me.

12Te l'ho  rimandato, lui, il mio cuore. 13Avrei voluto trattenerlo presso di me perché mi servisse in vece  tua nelle catene che porto per il vangelo. 14Ma non ho voluto far nulla  senza il tuo parere, perché il bene che farai non sapesse di  costrizione, ma fosse spontaneo.

15Forse per questo è stato separato  da te per un momento perché tu lo riavessi per sempre; 16non più però  come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello carissimo  in primo luogo a me, ma quanto più a te, sia come uomo, sia come  fratello nel Signore. 17Se dunque tu mi consideri come amico, accoglilo come me  stesso. 18E se in qualche cosa ti ha offeso o ti è debitore, metti tutto  sul mio conto.

19Lo scrivo di mio pugno, io, Paolo: pagherò io stesso.  Per non dirti che anche tu mi sei debitore e proprio di te stesso! 20Sì,  fratello! Che io possa ottenere da te questo favore nel Signore; dà  questo sollievo al mio cuore in Cristo!

21Ti scrivo fiducioso nella tua docilità, sapendo che farai anche più  di quanto ti chiedo. 22Al tempo stesso preparami un alloggio, perché spero, grazie alle  vostre preghiere, di esservi restituito.

23Ti saluta E`pafra, mio compagno di prigionia per Cristo Gesù,  24con Marco, Aristarco, Dema e Luca, miei collaboratori. 25La grazia del Signore Gesù Cristo sia con il vostro spirito.

I primi 3 versetti contengono l’indirizzo e il saluto introduttivo; poi i versetti 4-7 che,  come spesso succede nelle lettere di Paolo, hanno l’impostazione di un ringraziamento, di una eucarestia.

Nel paragrafo centrale del biglietto, vv. 8-20, Paolo mette a punto l’interpretazione di quel che è successo e rivolge a Filemone il suo invito affinché intervenga. Paolo si aspetta che Filemone condivida l’interpretazione con cui egli stesso si esprime.

Gli ultimi versetti, 21-25, contengono il congedo, il saluto finale, le ultime raccomandazioni.

Prigioniero di Cristo Gesù 

«1Paolo, prigioniero di Cristo Gesù, e il fratello Timòteo al nostro  caro collaboratore Filèmone, 2alla sorella Appia, ad Archippo nostro  compagno d'armi e alla comunità che si raduna nella tua casa: 3grazia  a voi e pace da Dio nostro Padre e dal Signore Gesù Cristo».

Solitamente Paolo, quando introduce le lettere, si definisce “apostolo di Gesù Cristo”, non sempre, ma spesso è così. Qui Paolo si presenta nella sua realtà di prigioniero, carcerato, una condizione di per sé squalificante, vergognosa. Eppure nel suo stato di prigionia Paolo conferma in pieno la propria appartenenza a Cristo Gesù: questo suo stato di prigionia realizza la sua missione apostolica. Là dove solitamente Paolo dice di se stesso: “apostolo di Gesù Cristo”, qui dice: “prigioniero di Cristo Gesù”. E’ un modo di presentarsi quanto mai dimesso, equivalente al comparire sulla soglia della porta di casa di Filemone come un mendicante sgradevole e spregevole. In realtà sta comparendo davanti a Filemone l’immagine, che non è un miraggio, ma una presenza viva di carne e ossa: Onesimo, lo schiavo fuggito.

La casa, la chiesa

Paolo “prigioniero di Cristo Gesù” e il fratello Timoteo, al nostro caro collaboratore Filemone. C’è una conoscenza che si è sviluppata nel corso degli anni, una conoscenza che ha comportato anche una collaborazione nel mistero. Paolo ha potuto contare su Filemone, ha approfittato di lui, della sua ospitalità, della sua generosità, non l’ha dimenticato. Filemone, sua moglie, che si chiama Appia, Archippo, che probabilmente è il figlio.  Archippo, per qualche periodo, in qualche attività missionaria, è stato accanto a Paolo. Dunque ci sono delle relazioni dirette, c’è un vissuto carico di affetti e di esperienze comuni, c’è un circuito di relazioni interpersonali. Paolo aggiunge qui: e  alla comunità, alla ecclesia. Scrive alla chiesa che si raduna nella tua casa. La casa di Filemone è una ecclesia , qui si raduna la comunità. E’ possibile che le cose vadano così. Ma qui Paolo sta citando la ecclesia , non soltanto nel senso logistico di una presenza periodica di una assemblea che si raccoglie nella casa di Filemone, ma sta citando la ecclesia nel senso che la casa di Filemone non è uno spazio privato, ma è lo spazio delle ecclesia. E’ solo un tocco, ma c’è un modo di bussare alla porta di quella casa che mette in discussione il modo di gestire la casa. Scrive a Filemone e alla ecclesia che si raduna nell’abitazione: grazia a voi e pace da Dio nostro Padre e dal Signore Gesù Cristo. E’ solo il saluto, ma è impostato uno dei temi fondamentali di questa lettera. La casa di un cristiano come Filemone è una casa che non può più essere compresa entro le misure del privato. Paolo sta esercitando il potere, il potere che compete a un mendicante come lui, prigioniero, incatenato. Sta bussando a quella casa, nei fatti Filemone ha davanti a sé il suo schiavo Onesimo, fuggito da quella casa.

Nelle viscere di Cristo

Versetti 4-7: il primo paragrafo, il paragrafo eucaristico.

«4Rendo sempre grazie a Dio ricordandomi di te nelle mie  preghiere, 5perché sento parlare della tua carità per gli altri e della  fede che hai nel Signore Gesù e verso tutti i santi».

La traduzione di questo versetto e di quello che segue è un poco problematica. Paolo apprezza sinceramente la buona testimonianza che Filemone ha dato di sé in passato e che ancora sente dire: Filemone è veramente un buon cristiano, uomo di carità, un uomo di fede. La relazione con il Signore Gesù si identifica con la relazione che impegna Filemone verso tutti i santi che sono i cristiani, con un abbraccio che intende ampliarsi smisuratamente nella direzione aperta verso il mondo.

E’ un altro dei temi fondamentali di questa lettera. La signoria di Gesù coincide con la epifania della fraternità.

«5perché sento parlare della tua carità per gli altri e della  fede che hai nel Signore Gesù e verso tutti i santi».

Filemone ha già dato buona prova di sé. Paolo ci tiene a fare presente come Filemone, così sincero e così generoso nella relazione con il Signore Gesù, è cristiano che ha impostato la sua vita come apertura ad ogni relazione con i vicini e con i lontani, con gli altri cristiani e con i non cristiani, con gli uomini di questo mondo, una relazione sapiente nel promuovere il bene che è opera di Dio.

E il v. 7 aggiunge:

«7La tua carità è stata per me motivo  di grande gioia e consolazione, fratello, poiché il cuore dei credenti è  stato confortato per opera tua».

Il titolo di fratello, deve essere spostato alla fine del versetto: “poiché il cuore dei credenti è stato confortato per opera tua, fratello!” Il v- 7 si chiude con questo vocativo: fratello! La tua carità è stata motivo di grande gioia. Il cuore (in greco: le viscere) dei credenti è stato confortato per opera tua, fratello. Se Filemone non se ne fosse accorto, Paolo ci tiene a spiegargli che così stanno le cose: vedi che la tua relazione con il Signore Gesù si esprime come capacità di consolare le viscere dei fratelli, come capacità di accogliere la presenza altrui. E’ ben di più di una presenza nel senso empirico, è la presenza di gente in cammino, di situazioni che si stanno svolgendo e  illuminando nella vita di tutti e di ciascuno. La storia degli uomini è ormai attraversata dalla rivelazione della signoria di Gesù e la vita di ogni uomo è ormai convogliata verso la casa, quella casa è che è il grembo di Dio, le viscere di Dio. E’ il grembo della paternità, le viscere del Padre, così come si sono spalancate dinanzi a noi e come prospettiva ultima della storia dell’umanità e per la vita di ciascuno: il cuore dell’onnipotente, la casa.

Ebbene, tu Filemone hai consolato il cuore dei credenti, fratello! Paolo lo chiama fratello, e lo chiama fratello proprio in relazione a una casa, in relazione a una paternità, a delle viscere, a un grembo.

Inutile, utile

E a questo punto, v. 8, ha inizio lo svolgimento centrale della lettera e Paolo qui ormai  affronta direttamente la questione riguardante il caso di Onesimo.

«8Per questo, pur avendo in Cristo piena libertà di comandarti ciò che devi fare». Paolo dice: io potrei intervenire con la autorità che mi compete. In realtà non si è presentato come apostolo, ma come prigioniero. Avrei in Cristo piena libertà di comandarti ciò  che devi fare, ma non lo faccio. Paolo esercita il suo potere in una maniera che è alternativa rispetto all’imposizione di una norma dall’alto. Per quanto, ci tiene a precisare, lo potrebbe fare, ma non lo fa.

«9preferisco pregarti in nome della carità, così qual io  sono, Paolo, vecchio, e ora anche prigioniero per Cristo Gesù».

Non mi rivolgo a te facendo appello alla mia autorità, ma mi rivolgo a te come un povero vecchio e per di più, carcerato. Questo sono io. In realtà ha davanti a sé Onesimo.

«10Ti prego dunque per il mio figlio che ho generato in catene, 11Onesimo,  quello che un giorno ti fu inutile, ma ora è utile a te e a me».

Qui c’è un gioco di parole perché Onesimo in greco vuol dire “utile”, “benefico”, “favorevole”. Paolo dice: un giorno ti fu inutile, certo ti fu motivo di danno, ma adesso è utile a te e a me. «Io l’ho generato in catene». Onesimo è stato evangelizzato, è stato battezzato da Paolo, mentre era prigioniero a Cesarea. Qui c’è un ulteriore gioco di parole, i due aggettivi: inutile e utile nel v. 11 sono acrestos (pronuncia: acristos), per dire inutile, eucristos (pronuncia: eucristos) per dire utile, l’assonanza che non è nel lessico, ma è nella pronuncia, l’assonanza allude al titolo messianico: Cristos. Si legge nel greco allo stesso modo anche se la scrittura è diversa. Inutile: acristos, utile: eucristos. C’è una utilità che non è più quella relativa al nome di Onesimo, lo schiavo. C’è una utilità che è immediatamente evocativa di un riferimento a Gesù, alla signoria di Gesù, in rapporto a una casa che ha l’ampiezza del grembo paterno. 

Lui, il mio cuore

Noi ci aspetteremmo che Paolo invitasse Filemone a riconsiderare le sue concezioni di ordine giuridico, il valore dei suoi diritti di capo famiglia, di proprietario, che lo invitasse mettere in discussione il valore specifico di quell’istituto che nel mondo antico ha una sua vistosa e drammatica consistenza: la schiavitù. E invece Paolo, qui come altrove, quando affronta problemi del genere, non imposta il problema in questo modo, non elabora una dottrina sociale, non spiega a Filemone che bisogna abolire la schiavitù, non impone a Filemone la procedura innovativa e rivoluzionaria di liberare gli schiavi. E’ anche vero che nel corso di pochi decenni o di qualche secolo la evangelizzazione determina un sovvertimento completo degli equilibri sociali del mondo antico: questo è verissimo. Ma l’evangelo non passa attraverso l’impostazione di una dottrina che presume di essere attualizzata. Il potere che Paolo sta esercitando ha un’altra natura, ha altri mezzi. Davanti a te c’è Onesimo, e Paolo dice a Filemone: vedi, fratello mio, lui è mio figlio.

E prosegue: «12Te l'ho  rimandato, lui, il mio cuore». Anche qui in greco è: viscere. Mio figlio, l’ho generato. Te l’ho rimandato e quando tu lo ricevi, vedi che tu ti stai affacciando su quello spazio viscerale che è il cuore con cui ho potuto accoglierlo e, certamente, insieme con Onesimo, ho accolto una testimonianza dell’amore di Dio che santifica questo uomo. Io l’ho accolto e adesso te lo rimando.

E prosegue:

«13Avrei voluto trattenerlo presso di me perché mi servisse in vece  tua nelle catene che porto per il vangelo».

Onesimo si è dato da fare accanto a Paolo, e Paolo ha avuto bisogno del suo soccorso, è un carcerato! Onesimo  è un uomo che ha delle qualità, per questo quando è fuggito Filemone c’è rimasto male. Ha perso un bene prezioso da cui la vita e l’attività della sua casa traevano un vantaggio non indifferente. Paolo dice: io avrei dovuto trattenerlo presso di me, perché mi servisse in vece tua nelle catene che porto per il vangelo. In tanti altri modi Filemone ha già aiutato Paolo, quindi Paolo poteva anche presumere che tutto sommato potesse essere un modo per tranquillizzare Filemone e per dargli a distanza la notizia di aver potuto sovvenire alle necessità dell’apostolo in un momento così disgraziato per lui. Ma non ha fatto così, ha preferito rinunciare a questo beneficio, ha preferito rimandarlo.

«14Ma non ho voluto far nulla  senza il tuo parere, perché il bene che farai non sapesse di  costrizione, ma fosse spontaneo».

Sembra una provocazione. E’ una provocazione! Io te l’ho rimandato apposta: sei tu che devi accoglierlo, se vuoi dimostrare ancora una volta il tuo interessamento e la tua generosità nel sostenermi, anche economicamente, come in passato; questo deve avvenire non per costrizione, ma spontaneamente.

Una relazione di eternità 

«15Forse per questo è stato separato  da te per un momento perché tu lo riavessi per sempre; 16non più però  come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello carissimo  in primo luogo a me, ma quanto più a te, sia come uomo, sia come  fratello nel Signore».

Ecco il punto. Forse, dice Paolo, le cose sono andate così per una misteriosa e sapiente provvidenza di Dio. Proprio per questo Onesimo è fuggito da casa tua, anzi è stato separato da te per l’intervento di qualcun altro. E’ proprio la provvidenza di Dio che ha rubato il tuo schiavo. E sai perché? Per ridartelo, ma per ridartelo in vista di una relazione tra di voi che non è più funzionale agli equilibri domestici, ma una relazione che ha un valore di eternità, per sempre. Questa relazione che ha valore di eternità è relazione di fraternità. Paolo non sta elaborando una dottrina: ritorna in casa tua il tuo schiavo, ma è fratello nel Signore. Molto di più che schiavo. Paolo non sta rivendicando un diritto di emancipazione per lo schiavo. Paolo sta provocando Filemone nella apertura di cuore in rapporto a un fratello, e  nella apertura di una casa, in rapporto alla famiglia umana che è generata a vita nuova nel grembo paterno di Dio. Paolo si comporta così con Filemone avvertendo tutta la fragilità della sua posizione: Filemone può intervenire con Onesimo, e può intervenire drasticamente! Paolo evidentemente ha fiducia, in qualche modo si sente rassicurato, Filemone si adeguerà al suggerimento che riceve, ma nella stretta oggettività dei fatti Filemone potrebbe anche punire il suo schiavo, potrebbe ucciderlo. Paolo sta dicendo a Filemone: tu hai dinanzi a te il tuo schiavo, tu hai dinanzi a te Paolo. Tra te e lo schiavo ci sono io, se hai qualcosa da rimproverargli (e certo Filemone qualcosa da rimproverare al suo schiavo fuggito ce l’ha), ci sono io. Il  potere di Paolo non è il potere di chi domina la situazione, è  il potere di chi si presenta nella debolezza istituzionale di uno schiavo.  

koinonos

«17Se dunque tu mi consideri come amico (in greco: koinonos)». Abbiamo incontrato il sostantivo koinonia, nel versetto 6. Qui è l’aggettivo corrispondente. Se tu mi consideri come amico, se dunque io sono uomo di comunione per te, se è vero che io sono rivolto verso di te con quella capacità di accoglienza che mette in risalto come tu sia in cammino per crescere, per maturare, per fruttificare nell’amore di Dio e del prossimo

«17Se dunque tu mi consideri come amico, accoglilo come me stesso».

Questo è il potere di Paolo:  se accogli me accogli lui, e se hai qualcosa da dire a lui dilla a me, e se dev’essere punito lui, punisci me, e se vuoi condannarlo a morte, tu condanna a morte me. Rispondo io per lui. Questo è il potere dell’apostolo che evangelizza. Non sta imponendo una regola, ma sta scavando nell’animo, nel cuore, nelle viscere di Filemone uno spazio di amore, sta scavando nella casa di Filemone, lo spazio della chiesa, esercita il suo potere apostolico, evangelizza. Scava nella casa di Filemone lo spazio della chiesa.

«18E se in qualche cosa ti ha offeso o ti è debitore, metti tutto  sul mio conto».

E’ una questione di ordine redentivo:  c’è qualcuno che paga di tasca propria il prezzo relativo a disfunzioni che sono nella responsabilità altrui. Il redentore è colui che ricompera quello che i suoi cari hanno perduto, colui che paga con il suo quello che altri hanno sperperato. E insiste:

«19Lo scrivo di mio pugno, io, Paolo: pagherò io stesso».

Attraverso Onesimo che entra in casa tua entro io, ma sta entrando in casa tua la potenza della redenzione, la potenza di Dio, che così si è rivelato a noi, spalancando il suo grembo e con la missione affidata al Figlio che ha pagato per noi e così ha instaurato la sua signoria.

«19Lo scrivo di mio pugno, io, Paolo: pagherò io stesso. Per non dirti che anche tu mi sei debitore e proprio di te stesso!». Mi sei debitore. Io mi presento in casa tua con dei debiti, quelli contratti da Onesimo, mi presento in casa tua garantendoti che ti rifonderò i debiti, ma anche tu in realtà, sei debitore nei miei confronti.

«20Sì,  fratello!». Ritorna quel vocativo: fratello. Già, nessuno di noi appartiene a se stesso, ciascuno di noi è debitore ed è debitore di se stesso alla pazienza, al coraggio alla sapienza, alla cordialità con cui gli altri lo accolgono, lo riconoscono, pagano il prezzo della sua vita. Nessuno di noi paga il proprio conto. Ciascuno di noi paga il conto degli altri, ciascuno di noi è debitore nei confronti di quanti hanno l’amicizia, l’atteggiamento fraterno di cui c’è bisogno perché il proprio conto sia pagato. Io non pago il conto della mia vita, qualcun altro me lo paga. E qualcun altro si affida a me nell’attesa che io contribuisca a pagare quel conto, il suo. E così, di debito in debito e così nel contesto di una circolazione di eventi redentivi là dove nella chiesa ormai, tutto diviene sacramento di Gesù, fratello nostro e Signore nostro, che ci viene incontro attraverso ogni inutile creatura di questo mondo e che attraverso ogni inutile creatura di questo mondo ci spiega come siamo debitori per essere accolti nella nostra vita. Si fratello, sono proprio io, dice Paolo, e mi presento a casa tua.

«Che io possa ottenere da te questo favore nel Signore; dà  questo sollievo al mio cuore (in greco: viscere) in Cristo!».

Il cuore di Paolo sul cuore di Cristo, le viscere di Paolo sulle viscere… dà questo sollievo al mio cuore in Cristo. Accogli me, riconosci me. Pagherai tu questo debito. In realtà, mentre paghiamo i debiti gli uni degli altri, siamo coinvolti in quella relazione di fraternità che ci spiega come siamo sacramento di quell’opera redentiva che si è compiuta una volta per tutte nel nome di Gesù. La relazione tra Paolo e Filemone si è potenziata di valore sacramentale, nel contesto di questa relazione Onesimo ha trovato il suo posto:  l’inutile, che in realtà è proprio utilissimo a noi, a me e a te! Là dove sperimentiamo l’inutilità altrui scopriamo quale dono ci viene elargito per l’eternità, il dono di un fratello. Tutto si inserisce ormai nello spazio immensamente capiente che è il grembo di Dio, la casa del Padre, e la vita di un uomo, la casa di un uomo, la storia di un uomo, la fatica, il lavoro di un uomo. Tutto questo diviene capacità nuova di affidarsi alla accoglienza altrui e, contemporaneamente, capacità nuova di accogliere la novità di un fratello.

Paolo sta esercitando il suo potere e sono adesso gli ultimi versetti della lettera, vv. 21-25, che ricapitolano ogni cosa.

«21Ti scrivo fiducioso nella tua docilità, sapendo che farai anche più  di quanto ti chiedo».

Probabilmente Paolo allude alla emancipazione dello schiavo, ma non la pretende, non è in questa direzione che insiste. E invece aggiunge:

«22Al tempo stesso preparami un alloggio, perché spero, grazie alle  vostre preghiere, di esservi restituito».

Che è come dire: vedete che io verrò a trovarvi nei panni di un Onesimo qualunque. Fin dall’inizio Paolo aveva apprezzato Filemone per la sua capacità di esprimere accoglienza, adesso verrà a trovarlo.

«23Ti saluta Epafra, mio compagno di prigionia per Cristo Gesù,  24con Marco, Aristarco, Dema e Luca, miei collaboratori».

E’ interessante, a conclusione della lettera, questo richiamo a nomi di cristiani che evidentemente anche Filemone conosce e servono a testimoniare una realtà di chiesa itinerante, dispersa e pure determinata nella comunione fraterna per il servizio della evangelizzazione.

«25La grazia del Signore Gesù Cristo sia con il vostro spirito».



[1] Lectio tenuta il 6 giugno del 2000

 

  riflessioni  
  agenda - iniziative  
  appunti sparsi  
  meditazione  
  la vetrina del libro  
  chi è dossetti  
  bailamme  
  contattateci