GOVERNARE
LA POVERTA’ [1]
di
presentazione
di Salvatore Natoli
E
questo sin dall’esordio del libro, cioè quando la povertà emerge come
questione specifica, come una serie di eventi che diventano tema di un governo.
L’attualità
della problematica è data dal fatto che la povertà, lungi dall’essere
sparita, è un problema sempre presente nelle nostre società,
per molti versi endemico. La Procacci dice: “una costante aciclica del
sistema economico, come prova in modo paradossale il fatto che non abbia smesso
di aumentare durante la forte crescita economica degli anni ‘80, governata sì,
ma tutt’altro che sparita, anche se ha cambiato la fisionomia.”
La
questione della povertà è affrontata all’interno dell’ordine liberale e si
considerano anche le contraddizioni che, come questione sociale, essa apre
dentro l’ordine liberale e nel suo tentativo di ordinamento della società. La
povertà diventa “questione sociale” quando diventa una questione rilevante
nell’ordinamento della società. La politica della povertà, così intesa, è
non meno importante della politica della ricchezza. Da questo punto di vista si
inscrive in modo determinato dentro il capitolo della economia classica, che è
la ricchezza delle nazioni. La povertà è un afttore della ricchezza delle
nazioni. E’ quindi un problema rilevante della strutturazione della società.
Se
la questione è posta in questi termini allora diventa un problema di inclusione
dei poveri (la strategia della inclusione dei poveri nella cinta dei governati)
e quindi si sottrae alle modalità con cui prima era stata trattata, cioè si
sottrae alla sfera della carità e della repressione. In quanto sottoposta
a carità e repressione la povertà era considerata non come una
questione dell’ordine sociale, ma una questione di margine dentro la società.
Da questo punto di vista, dice la Procacci, la
povertà come questione non è un oggetto naturale, ma è l’effetto di quelle
pratiche con cui una società determinata tende a definire un campo di fenomeni
come povertà.
Fin
quando la povertà non è evocata, cioè finchè non si pensano delle strategie
che la fanno emergere, è un fenomeno che c’è nella società, ma non si
specifica in senso lato come povertà e, meno che mai, come governo della
stessa.
Secondo
la carità medioevale “I poveri sono in mezzo a voi”, ma non c’è un
problema tematizzato del governo di questa forza,
perchè nel momento in cui la povertà diventa oggetto di strategie,
diventa una forza sociale, un potenziale dentro la società.
Questo
è un tema molto importante che si sviluppa soprattutto nella prima parte del
libro. La questione sociale Foucault la fa risalire alla metà del XVIII secolo
con la scomparsa delle terre comunali in Inghilterra ed essa già si configura
come problema eminente e significativo che si stacca da un modo di concepire la
povertà in termini di ospitalità e di internamento. La povertà prima era
pensata in termini di ospitalità, di carità e faceva parte delle figure di
internamento di cui Foucault parla nella storia della follia: i vagabondi
venivano raccolti per ragioni di ordine pubblico, non solo per essere protetti,
ma per proteggere la società da loro. E’ un tema che emergerà più avanti.
Questa
figura caritatevole dell’assistenza non ha più significato perchè si risolve
in un finanziamento pericoloso - dice la Procacci - che immobilizza la
ricchezza. Bisogna valorizzare la
popolazione: da una dimensione periferica ed assistenziale delle masse povere
bisogna passare ad una che ne veda una forza valorizzabile, una forza lavoro.
Vista così la povertà non si configura più come
l’oggetto di una assistenza caritatevole, ma come un esercito di
riserva. C’è una iniziale trasformazione dei poveri in proletari. La la
figura del povero si disegna secondo due assi fondamentali in questa epoca: una
deriva sempre più marginale (cioè il povero che tende sempre più alla
delinquenza) e l’operaio in via di proletarizzazione. Quindi diciamo che la
povertà è questa zona intermedia dove qualcuno discende - l’operaio che si
proletarizza - e qualcuno si perverte - il misero che diventa delinquente.
E
allora dove si colloca la povertà? Si colloca in quello spazio che sta in mezzo
tra classi pericolose e classi laboriose. Il problema fondamentale è quello di
fare in modo che i poveri accedano al diritto. Nel testo si legge: “I poveri,
malgrado la loro miseria, non possono che essere uguali”. Qui si introduce una
nozione molto importante, la nozione di naturalità.
C’è una dimensione di uguaglianza naturale fra gli uomini. Una delle
caratteristiche fondamentali della uguaglianza naturale tra gli uomini è data
dal fatto che c’è una connessione stretta tra lavoro e ricchezza. E allora la
miseria è un deficit dello sviluppo di queste capacità naturali dell’uomo,
è una patologia, perchè dal punto di vista naturale non ci dovrebbe essere
miseria.
In
altri contesti questo era avvenuto in politica:
quella invenzione astratta e formale era
però operativamente forte per generare inclusione, perchè c’è un
punto di vista minimo in base al quale tutti sono uguali. E quindi la povertà
non è un fenomeno necessario alla società, ma una sua patologia, una
distorsione perchè per natura non dovrebbe essere così.
Su
questa base i diritti degli uomini - si dice a pag.35 - non
si fondano sulla loro storia, ma sulla loro natura. Mentre la storia è
occasionale, frutto di variabili, la natura no. Se c’è la povertà qualcosa
della natura è stato distorto, non è stato sviluppato bene. E’ a partire da
qui che si sviluppa la prima parte del libro “la povertà come questione
sociale”. L’ordine naturale
diventa una categoria di inclusione massima e la miseria è la cifra
dell’allontanamento dalla natura. Questo è anche
giocato in termini strettamente politici, perchè il fatto della miseria
diventa un elemento di critica dell’assolutismo.
Il
modello che si applica alla povertà è un modello fisiocratico (se noi lasciamo
funzionare la natura come dovrebbe, la povertà non ci sarebbe), di
qui la connessione molto stretta tra lavoro, proprietà, ricchezza,
consumo. Notate un elemento
importante: la connessione tra lavoro e proprietà configura
l’abolizione della miseria in termini di realizzazione degli individui.
C’è questo nesso molto forte tra lavoro e proprietà e noi vedremo
chiaramente che se si pensa all’abolizione della ricchezza nel senso di
lasciare spazio alla individualità, proprio perchè pensata, così non riuscirà
a risolvere il problema della povertà. Comunque questa connessione c’è: il
lavoro, la proprietà e la ricchezza. La ricchezza la dobbiamo pensare in
termini molto specifici: la ricchezza è la possibilità di consumo che ha una
società, da qui tutta la celebrazione del lusso. I poveri devono essere
eliminati nel senso che devono essere trasformati in consumatori; se i poveri
non sono trasformati in consumatori, inevitabilmente il modello della ricchezza
delle nazioni fallisce. Ricordo che questa era una delle battaglie sindacali
degli anni ‘80 quando ripartì la politica dei salari. La Federazione dei
metalmeccanici diceva: “se non pagate gli operai chi consuma?, per
chi costruite le macchine?”.
Produzione,
ricchezza, consumo: nasce la
dimensione del lavoro utile. Ci deve essere una coerenza tra produttori e
consumatori, bisogna dare lavoro alla povertà. Il che comportava una critica al
salario inteso come mera sopravvivenza;
la mera sopravvivenza avrebbe certamente ridotto il consumo. Questo sul piano
politico rompeva l’alleanza fra la nobiltà e la miseria (perchè erano, da
questo punto di vista, due dimensioni che si sostenevano nel fenomeno del
parassitismo: la rendita accompagnava la povertà lasciandola durare
endemicamente e sostenendola in termini di sopravvivenza). La dinamica invece
lavoro-proprietà-consumo spezzava questa alleanza tra donatori e beneficiati.
L’economia
politica partiva dall’assunto che si produce per consumare, e supponeva che ci
potesse essere una proporzione tra produzione e consumo. Questa dimesnione tra
produzione e consumo non era data perchè c’entrava in modo decisivo la
variabile della popolazione e dello standard di consumi della popolazione. Non
è detto che l’eccesso di produzione produca consumatori, perchè ci deve
essere la mentalità e l’abitudine a consumare.
Viene
introdotta una considerazione molto fine intorno a Malthus: il rapporto con il
sottoconsumo. Se l’abitudine della maggioranza non è orientata al consumo (si
parla di società scozzese), ma è abituata alla frugalità, nonsi vede come
possa sostenere l’economia perchè non appartiene alla sua
logica. Se non si fanno uscire i
poveri da questo contesto, lungi dal produrre dei consumatori, destabilizziamo
la società. Se non c’è un orientamento determinato al consumo, possiamo
introdurre dinamiche viziose e pervertite dentro la società. Quindi se le
abitudini della magghioranza della popolazione restano quelle attuali, la
domanda rimarrà del tutto inadeguata ad assorbire i prodotti di una massa
considerevole di capitali.
Questo
punto di vista armonioso non può darsi a lungo. La povertà non può essere
governata in termini di mera logica economica, perchè ciò sviluppa
controfinalità. Secondo Malthus non c’è un equilibrio tra produzione e
consumo. A fronte di questa posizione ce n’è un’altra, che diventa tema
della riflessione di Sismondi, dove si parte dall’idea che il fine della
società è quello di realizzare la felicità di tutti, ma questa felicità deve
essere realizzata in tutte le condizioni. La considerazione che introduce
Sismondi è che un tempo il produttore consumava quello che produceva e il
sovrappiù entrava nello scambio; il tempo di lavoro del produttore era
alternato in se stesso: c’era un tempo per produrre e un tempo per consumare.
In una società dove c’è la divisione del lavoro questo non è più
possibile, anzi non è più la stessa persona che lavora e si riposa, se c’è
qualcuno che lavora, qualcun’altro che si riposa. Il che vuol dire che il
lavoro ha un ciclo continuo e la distribuzione del non lavoro è distribuita in
diverso modo tra le parti della popolazione. E allora le
condizioni non sono più eguali e quindi il bisogno cessa d’essere il
regolatore della produzione. La produzione non è più regolata dal bisogno, è
regolata dal profitto perchè i bisogni individuali non sono più la norma di
questo progetto di felicitazione. La norma, il regolatore comune di questo, è
il profitto e, quindi, lo scambio. Questo vuol dire che nonostante ci sia
produzione, nonostante ci sia ricchezza la povertà resta, per molti versi è
ineliminabile. Quindi la logica meramente economica non riesce a risolvere il
problema della povertà.
A
questo punto emerge una dimensione singolare che la Procacci chiama l’economia
sociale, una cultura della povertà. Questa è una dimensione significativa
e importante che porta il governo della povertà proprio al centro: si deve far
risolvere il problema della povertà, che l’economia non può risolvere,
e lo si porta ad una sfera della società che non è, in senso stretto,
neanche quella politica. Qui c’è una tensione molto forte, perchè la logica
liberale dei diritti prevede che tutti accedano al diritto, ma pensa alla
soluzione di questo problema in termini individuali, dinanzi a un fenomeno che
è massimamente sociale e, quindi, non può essere risolto in termini
individuali. Bisogna trovare un cuscinetto che freni l’impatto delle masse
sulla politica, permettendo alla politica di mantenere una logica individuale;
nello stesso tempo si tratta di neutralizzare questa spinta sociale della povertà
ineliminabile. In questo caso è necessario un modo attraverso cui la società
amministra la sua povertà, senza chiamare direttamente in causa la politica,
trasformando in fenomeno paraeconomico e parapolitico quello della povertà.
Questa è l’economia sociale. Essa rappresenta (pag.31) un nuovo modo di
prendere in considerazione le questioni economiche,
privilegia l’analisi degli effetti propriamente sociali
dell’economia. L’economia sociale nasce operando sugli effetti specifici
dell’economia. L’economia sociale più che articolarsi per scuole manifesta
sensibilità. Mentre in economia ci sono delle scuole ben definite, in posizioni
anche controverse tra loro, in questo caso ci sono delle sensibilità, dove si
possono individuare delle tendenze. Nel libro si dice che, dinanzi a questo
problema della risoluzione della povertà, questa sfera intermedia, nè politica
nè economica, serve ad evitare l’impatto diretto, la pressione: Le tendenze
delle sensibilità: una socialista, l’altra cristiano-sociale, l’altra
liberale e l’altra solidarista. Queste sensibilità occupano quell’area che
Marx chiama della “economia volgare”: essa tende a risolvere i problemi
economici non in una logica puramente economica. Marx
li critica perchè si mette da un punto
di vista di una logica economia che risolva il problema della povertà. Gli
economisti volgari vogliono , invece, controllare la povertà, attutirla, ma non
eliminarla. L’economia volgare si fa carico della povertà, ma la colloca
nella sfera degli effetti della produzione, mentre il problema di Marx è di
eliminare la povertà rendendo funzionale la produzione: una produzione che non
crei i poveri.
L’economia
sociale, scrive la Procacci, appare come
una formazione discorsiva composita e si inscrive entro una triplice
concettualizzazione: la filantropia, l’economia e la tradizione di polizia.
L’asse della loro alleanza è rappresentato dall’elemento morale. Abbiamo
una sorta di moralizzazione della povertà. Cosa vuol dire? Vuol dire che la
povertà crea sostanzialmente malessere dentro la società. E qui c’è tutto
il discorso del povero legato al pericoloso, all’aggressivo, al delinquente,
anzi addirittura il povero è visto e considerato come l’energia naturale allo
stato puro, non addomesticato dalle istituzioni.
Questa
situazione ha caratteristiche di natura repressiva, ma anche una dimensione di
moralizzazione della società: se la
miseria è veicolo dentro la società di malessere e di delinquenza, in un certo
senso deve esere limitata. Così si comincia a definire dentro l’economia
sociale quello che in senso moderno possiamo chiamare il “servizio sociale”.
Notate: non nella logica del diritto, ma nella logica del servizio. La società
deve essere risanata, placata. Nella logica del diritto invece la povertà
dovrebbe essere eliminata. Qui la si assume come un fatto. L’economia sociale
lavora dentro una realtà che è pericolosa. L’istanza è più di
moralizzazione della società nel suo complesso, quindi di rendere innocua, meno
melefica la povertà. Questa moralità è pensata in termini di scienza: il
rapporto tra il fisico e il morale dell’uomo non ha caratteristiche etiche, ma
ha caratteristiche scientifiche, nel senso che si parte dall’idea che la
immoralità nasce da condizioni oggettive di disagio che bisogna risanare. E’
l’idea di una igienizzazione della società. C’è tutto un lavoro sul
territorio per considerare gli ambienti dove vivono i poveri, come vivono:
l’igiene anche dentro le fabbriche, il grado di pulizia degli ambienti di
lavoro. Nell’800 si pensò al libretto di lavoro, una specie di anamnesi della
vita lavorativa, allo stesso modo con cui si faceva una storia clinica della
malattia. In questo caso la fabbrica comincia a sviluppare una dimensione di
controllo interno di polizia. La natura
del controllo è poliziesca, ma senza l’intervento dello Stato: lo Stato
delega a livello di organizzazione del lavoro il suo intervento di polizia.
Questa igienizzazione ha anche un potere di orientamento, come in genere le
polizie, perchè , come noto, le polizie non sono soltanto repressive, ma
hanno un potere di controllo elevato. La morale, insomma,
si presenta come forma di igienizzazione. Se volessimo parlare in termini
contemporanei: meccanismo autoimmune di sviluppare capacità di difesa dalle sue
aggressioni esterne, dai suoi fenomeni tossici. Questo esige di sviluppare
sempre di più l’istanza del servizio. In questi termini come si definisce il
problema della miseria? Non
l’eliminazione delle disuguaglianze, ma l’attenuazione delle differenze.
Si parte dal dato che la povertà non si toglierà mai dalla società e, a
partire dal laboratorio della miseria, si prepara l’intero corpo sociale alla
trasformazione dei costumi. La povertà è l’indice di ciò che la società
non deve essere e, quindi, diventa un grande laboratorio conoscitivo delle
patologie della società al fine di produrre nella società una forte
integrazione.
Il
triangolo che si viene a costruire è il nesso tra tutela, polizia e
prevenzione. Tra le figure della moralizzazione della società fondamentale è
la assistenza, che si colloca nello spazio “nè dono nè diritti”, con delle
capacità autoorganizzative della società stessa. Il sapere dell’ordine
sociale diventa il luogo proprio di questa moralizzazione. Sapere l’ordine a
partire dal disordine e, quindi, produrre un ordine di società autoimmune, che
costantemente dissineschi dentro di sè tutti i fattori che sono germi di
distruzione e di corruzione. L’economia sociale è’ un nuovo soggettto posto
a metà strada tra lo Stato e gli individui, capace di riassorbire nel suo
registro di legittimità i disordini e le divisioni sociali. E’ una dimensione
non politica che dissinesca il politicamente pericoloso.
Questo
meccanismo finirà poi per impattare fortemente la politica, soprattutto nella
seconda metà dell’800, quando maturerà un progetto liberale classico:
siccome l’uomo è libero attraverso il lavoro e attraverso il lavoro produce
proprietà, se noi vogliamo allargare davvero questo modello di diritti a tutti,
dobbiamo mettere tutti nelle condizioni di
poter lavorare. Se lo Stato liberale non mette tutti nella condizione di poter
lavorare, questo diritto rimane formale, ineseguito. Il problema della povertà,
se si vede nella luce del diritto, impatta immediatamente la politica. E allora vengono fuori tutte
questioni importanti: se il lavoro è il solo mezzo legittimo per
assicurarsi la sopravvivenza, allora
non si può affidare alla sorte. Quando il diritto al lavoro diventa
un’istanza di tutti, è necessario che ci sia un programma politico che tolga
questa aleatorietà.
Nel
libro ci sono molte considerazioni interessanti sull’apertura degli ateliers.
Anche questi possono essere pensati nella doppia forma: è lo Stato che dà una
forma di assitenza generalizzata (e quindi daremo un giudizio negativo), oppure
è un modo attraverso cui davvero di crea lavoro per quelli che sono fuori dal
lavoro? Questa è la questione. Accanto
alla dimensione del diritto al lavoro è connessa strettamente quella del diritto all’assistenza. Una
assistenza che non sempre è prodotta dallo Stato. Questo modello di economia
sociale si perfeziona in strutture
e organizzazioni più articolate che sono le associazioni. La risposta alle
istanze politiche non viene dallo Stato, lo Stato non è capace di allargare i
diritti, però nella società si istituiscono istituzioni di forma parapolitica
che disimpegnano questo. Quindi abbiamo lo svilupparsi grandissimo nel corso
dell’800 e del ‘900 delle associazioni. La società, cioè, si associa con
caratteristiche molto politiche, perchè queste sono pressioni sociali sullo
Stato: non è più la
moralizzazione, sono organizzazioni che premono sullo Stato. In senso lato non
sono associazioni operaie e la difesa delle forme di lavoro e
il modo di acquisire lavoro è anche un modo per regolare la povertà. Il
sindacato era, da un lato, tutela, da un altro aveva una funzione contrattuale,
ma il sindacato era anche un cartello
contro il crumiraggio, perchè altrimenti avrebbe avuto un esercito di riserva
che avrebbe impoverito complessivamente tutta la base dei lavoratori.
L’avversario non era solo il padrone, avversari erano tutti quelli che non si
sindacalizzavano e di fatto facevano il gioco del padrone. La società si
articola in queste formazioni. Vediamo come a questo punto il liberalismo mostra
una sua strutturale, interna crisi, una sua contraddizione perchè non riesce a
realizzare in concreto quella libertà degli individui che tematizza in
astratto. Il problema della democrazia si formula inevitabilmente come
inclusione delle masse. Quindi a fronte dell’allargamento vero e concreto dei
diritti si sviluppa il tema del dovere del cittadino: tutti i cittadini hanno il
dovere di ridistribuire la ricchezza dentro la società. Perchè il liberalismo
diventi qualche cosa di concreto, cioè democrazia, perchè tutti abbiano
accesso al lavoro, è necessario che non si pensi questo individualmente, perchè
individualmente non si può risolvere il problema. Ci deve essere un dovere di
tutti i cittadini nei confronti di tutti. Su questo si sivluppano poi le grandi
lotte ottocentesche. Questi sono gli elementi strutturali sui quali si sviluppa
la tematica fondamentale dello stato sociale moderno. Coinvolgimento di tuttala
società con diverse responsabilità per una reale redistribuzione del diritto:
quindi il problema della povertà diventa nel corso dell’800 e del 900 un
problema fortemente politico.
Qui
si pone la conclusione del libro: la
povertà non è più, forse, una questione sociale. La storia del welfare ha
davvero realizzato l’inclusione, ha davvero eliminato la povertà? Se il
welfare si pensa come assistenza non è più sostenibile. Abbiamo i problemi
realtivi al prolungamento dell’età media, ci sono dei problemi per cui questa
dimensione dei doveri sociali deve essere ridefinita.
La
cosa rilevante del libro è come si
definisce la povertà nella nostra società. Se la logica dell’esclusione si
può pensare in termini unicamente di reddito -
visto che l’inclusione si è realizzata nella nostra società - oggi,
quando si definisce la povertà, si definisce in termini diretti, si parla di
soglia, soglia di povertà. Ma possiamo dire che il reddito sia sufficiente per
definire l’ordine di esclusione o di inclusione? Nel senso che al di sotto di
un certo reddito si può parlare di assistenza? I partiti conservatori dicono
che al di sotto di un certo reddito si deve parlare di assistenza. Una parte
interessante del libro dice che l’welfare americano è stato di questo tipo.
L’America non ha mai avuto welfare, ma ha sostanzialmente assistito i drop
out della società, non ha avuto welfare nel senso del diritto al lavoro
come abbiamo detto prima.
Per
esempio nella nostra società si può ragionare in termini di povertà se si
pensa all’accesso che i soggetti hanno all’informazione o alla cultura come
un bene fruibile che diventa anche un bene economico.
Qui è citato Sen, il quale, quando parla della felicità pubblica,
definisce la felicità come una possibilità di avere nel carnet della propria
vita non solo denaro, ma anche l’accesso ad altri tipi di realtà e di
scambio. Noi abbiamo anche degli esclusi di questo tipo. Di fronte a questa
dimensione ormai irrefutabile della articolazione della società in ampliamento
dei diritti, e quindi una definizione delle compatibilità a livello alto, c’è
invece un governo della società che, grosso modo, funziona come
un governo senza società, nel senso che si dà largo spazio alle
cheances individuali. La povertà la si gestisce allocandola in ambienti di
sopravvivenza.
Qui
c’è una riflessione interessante: l’urbanizzazione
della povertà, quelle che nel nostro linguaggio vengono dette le periferie.
Il problema non è di far accedere tutti alla cittadinanza, ma di sostenere la
povertà nelle periferie. Questo è un altro modo classico per placarla. Al
cittadino che sta in quel luogo viene dato quel servizio: c’è un sostegno
secondario e marginale che stabilizza la marginalità e non è, invece, un
accesso generalizzato ai diritti. Se parliamo di luoghi possiamo parlare di
urbanizzazione dentro la città, ma anche nello spazio mondo abbiamo dei luoghi
dove si alloca la povertà e lì resta.
A
conclusione la domanda che io pongo è questa: in una inclusione ampiamente
avvenuta, qual è la natura dell’esclusione? Quali sono i parametri di
riconosciblità dell’esclusione? Abbiamo visto come nel corso dell’800,
quando il problema della povertà diventa politico, la politicizzazione della
povertà dà ragione a Marx: le masse premono per entrare, in qualche modo
scardinano e portano a casa risultati, nel momento in cui la povertà è
localizzata ha più la possibilità di entrare, oppure la nostra società
oramani ha cercato di neutralizzare la
povertà non togliendola, ma stabilizzando in essa delle sacche endemiche di
miseria, che possono essere neutralizzate, ma non possono scardinare l’assetto
del sistema, a maggioranza inclusa?
Questo
è un problema che ci riguarda in modo particolare.
Risposte
dell’autrice, Giovanna Procacci, alle domande poste.
Questo
libro parla del governo delle povertà quindi affronta le pratiche di governo,
che notoriamente non appartenevano al movimento operaio. Non affronta le
resistenze, le culture, i contromovimenti, anche se nel libro c’è una forte
presenza di questi movimenti, che sono quelli che creano le situazioni di
conflitto e, quindi, amplificano la necessità di governare, di ammonistrare la
questione. Non li tratto come attori principali delle pratiche che analizzo. Io
avrei voluto fare una genealogia del capitalismo invece che a partire dalle sue
politiche della ricchezza, a partire dal suo uso della povertà, dalla sua
politica della povertà. Se non ci fosse movimeno e conflitto le cose
potrebbero andare molto più tranquillamente. Da che cosa nasce il conflitto, il
conflitto che impone la necessità di governare? Il conflitto di cui parlo nasce
da questa divaricazione fra diritti, fra uguaglianza formale, giuridica tra i
cittadini (tutta l’espansione e la costituzionalizzazione dei diritti di
cittadinanza che appunto rendono i
poveri uguali) e, invece, il mondo delle uguaglianze o disuguaglianze positive,
concrete, sostanziali, cioè di mezzi economici, sociali, culturali per vivere,
sperimentare questa propria cittadinanza. Mi interessava vedere come questa
divaricazione producesse anche intelligibilità politica, comprensione politica
nuova, innovazione politica.
La
cosa che ho scoperto, scrivendo il libro, è che la povertà è stata
all’origine di molta innovazione politica nella nostra società. La nostra
società oggi non sarebbe quella che è, se non avesse dovuto scontrarsi con un
problema specifico di povertà. Nelle società liberali, in cui c’era
egualitarismo giuridico formale, il problema della povertà rappresenta una
contraddizione particolare in quanto apre problemi di diseguaglianza in un mondo
di eguali. Questo è il punto. Conta o non
conta questa uguaglianza quando dobbiamo avere a che fare con la disuguaglianza?
Oppure diciamo che siamo tutti eguali, poi ce lo scordiamo e ci mettiamo a
lavorare sulle disuguaglianze come se niente fosse? L’analisi che io ho fatto
dice invece che quella uguaglianza conta e quindi il problema politico della
gestione della povertà nel mondo moderno occidentale liberale è legata a
questa contraddizione politica fondamentale. E’ da questo punto di vista che
la povertà ha prodotto innovazione politica: non solo non erano esclusi, come i
mendicanti, i vagabondi di prima, respinti ai margini della società, non solo
erano cittadini, ma il problema che rappresentavano, cioè il problema
della disuguaglianza, era un un problema cruciale su cui costruire
l’ordine sociale. Cruciale perchè era la disuguaglianza fra eguali. Bisognava
cioè costruire un ordine sociale di tipo gerarchico che organizzasse bene le
disuguaglianze a partire da premesse egualitarie. Questa è la contraddizione di
fondo che rende il problema della povertà particolarmete denso di significato e
capace di produrre innovazione politica. E mi sembra che questa innovazione
non sia mancata. Questa innovazione io la colloco essenzialmente in una tensione
politica fra modello liberale (quello dei diritti che si allargano, della
uguaglianza giuridica) e invece
qualcosa che vagamente potremmo chiamare democrazia, comunque strategie di
socializzazione del rischio, strategie di solidarietà sociale, strategie di
costruzione di problemi collettivi, di problemi sociali, che è di tipo
anti-individualistico. Quindi non è vero, come oggi si tenta di far passare nel
modello neo-liberale, che il liberalismo ha prodotto per conto suo tutta una
serie di strutture politiche, di istituzioni, di modi di pensare la politica che
a noi oggi sembrano normali, abituali, ma che sono nate in chiave antiliberale.
E’ storicamente provato: tutte le grandi leggi sociali che passano in Europa
negli anni fra la fine del XIX secolo e i primi dieci anni del XX secolo nascono
contro i liberali. In Francia, p.e. la discussione parlamentare sulle leggi per
il risarcimento degli incidenti di lavoro si protrasse per 18 anni. A volte
pensiamo che solo i nostri politici non riescono a fare le leggi in tempi
brevi.....
Quindi sia politicamente (nel senso che c’è opposizione liberale) sia nei fondamenti, queste concezioni di tipo sociale hanno una origine fondamentalmente antiliberale. Il conflitto che io guardo è il conflitto tra questi due poli: uno di liberalizzazione, di emancipazione individuale, l’altro di socializzazione. Sono due poli in tensione fra di loro e naturalmente la realtà politica che mano mano ci si trova davanti è una realtà di compromesso, in cui si tratta di trovare delle forme compatibili. Non sto dicendo che il processo di costruzione sociale della risposta alla povertà ha avuto storicamente la capacità eversiva di far saltare il modello liberale, però ha sicuramente costretto il modello liberale a venire a patti con delle istituzioni, delle istanze politiche che mai si sarebbe sognato di produrre da solo o di accettare quando gli venissero proposte. Una fra queste, molto importante: il diritto sociale. Una persona ha questo diritto non in quanto individuo, ma in quanto appartenente a una categoria, a un gruppo, a una entità collettiva. Il diritto sociale all’assistenza nella situazione in cui uno cade in condizioni di povertà è un diritto sociale che stabilisce che l’assistenza è un diritto non è carita, quindi occorre individuare quali sono le strutture pubbliche, le risposte pubbliche di gestione. Uno per organizzare una risposta pubblica non può contare sul senso di carità. In termini di strutture pubbliche, di politiche pubbliche si tratta di sostituire un accesso a questa poitica non in termini di carità, ma in termini di diritto: io ho diritto ad essere assistito, come ho diritto al congedo per maternità ecc. Ho diritto soggettivamente, per me, ma questo diritto io lo ho soltanto in quanto in quel momento la mia condizione mi inscrive nel collettivo delle future madri. La società ha riconosciuto un valore sociale a tal punto da investirci pratiche, prezzi e diritti. Allora vuol dire che il fondamento sulla base del quale io posso reclamare l’accesso a un servizio sociale, anche se è un servizio che ricade su di me personalemente, non è individuale. Quindi il diritto sociale è il risultato di un processso di socializzazione del diritto che la teoria liberale ha sempre tentato di rifiutare. Non a caso, adesso, in fase neoliberista, i diritti sociali sono sotto attacco. L’idea fondamentale del diritto liberale è che soggetto di un diritto è solo un individuo, in nome delle sue preregative individuali, del suo essere persona. Naturalemte poi questi diritti individuali cambiano in una società, a seconda delle fasi che si attraversano, però sono diritti individuali. Il diritto sociale introduce una rottura in questa logica individuale. Perchè introduce questa rottura? Perchè cerca di risolvere il problema politico di come trasformare, di come rendere indipendente la politica verso la povertà dalla carità. Perchè rendere indipendente la politica della povertà dalla carità? Perchè la carità è imprevedibile, è soggettiva, non ci si può fare affidamento, non si può costringere la gente ad essere caritatevole. Si può solo sperare che lo sia. E poi anche perchè la carità è un approccio di tipo individuale alla povertà. Su questo c’è stato un cambiamento fondamentale: perchè nascano delle politiche sociali che affrontano fra i temi politici la povertà (cosa che la società moderna industriale liberale ha avuto la necessità di fare da subito) è necessario costruire un programma collettivo globale della povertà, dire che la povertà ha delle condizioni sociali e quindi la soluzione della povertà può essere sociale. Questo è il grande passaggio: i mendicanti, i vagabondi, oggetto di carità e di repressione, erano sui margini della società, mentre i poveri moderni vengono inclusi, inglobati nell’ordine sociale, ma in più il povero moderno è un povero di massa. Tutte le descrizioni del XIX secolo descrivono il povero urbanizzato che non è mai solo, ma vive sempre in una situazione collettiva di povertà, nei quartieri poveri della città, intorno alle prime situazioni industriali. Il povero moderno è un povero massificato. E questo vuol dire che la povertà è costruita come una realtà collettiva e non più guardata in faccia, negli occhi di ogni povero, come rimane caratteristica del rapporto caritatevole che interviene a sollevare una condizione. Qua non si tratta di sollevare condizioni, non c’è umanità da questo punto di vista, c’è beneficenza pubblica.