il punto di vista

 

RIFLESSIONI SUL NOSTRO TEMPO

a cura di Giovanni Bianchi

Sommario

Obiettivo Gerusalemme

Intervento al congresso regionale

OBIETTIVO GERUSALEMME

“Quando il Signore Iddio decise di spandere dieci misure di bellezza sul mondo, nove di esse caddero su Gerusalemme”: questo antico detto ebraico illustra in termini poetici il forte significato evocativo che la Città Santa esercita sulle grandi culture monoteiste.

Memoria dell’ antica grandezza dei re di Israele e sede del Tempio per gli ebrei, luogo della passione, morte e resurrezione di Gesù per

i cristiani, luogo santo per i musulmani che incorporano nelle loro credenze la tradizione biblica e ritengono fra l’ altro che ivi Gesù, il penultimo dei grandi profeti, tornerà per rendere il giudizio finale, Gerusalemme è stata da sempre l’ oggetto ed il teatro di mille passioni consumatesi a volte in episodi sommamente cruenti. Dai tempi delle Crociate a quelli di Lawrence d’ Arabia fino alla Guerra dei Sei Giorni, il possesso di Gerusalemme ha regolarmente trasceso la pura e semplice dimensione strategica o geopolitica per entrare nel campo della simbologia, talché i dirigenti sionisti, pur essendo sostanzialmente di sentimenti laici, non hanno mai messo in dubbio il criterio di Gerusalemme come capitale “eterna” ed “indivisibile” dello Stato ebraico.

E in effetti, sfrondato di tutti gli elementi inessenziali (a partire da quello della proclamazione dello Stato palestinese, che come sanno per primi i governanti israeliani è un passo inevitabile), proprio il futuro status di Gerusalemme costituisce il principale impasse della trattativa in corso a Camp David.

A quanto si sa, l’ offerta maggiore che è fin qui giunta da parte israeliana è quella di una sovranità congiunta Israele – Palestina sulla parte orientale della città, quella a prevalenza ebraica, con un progressivo smantellamento degli insediamenti di coloni abusivamente proliferati nella benevola tolleranza dei Governi di destra da Shamir a Netanyahu. L’ offerta è stata comprensibilmente rigettata dai Palestinesi: comprensibilmente perché di quella parte di Gerusalemme, che in arabo è definita Al –Quds, essi vorrebbero fare la capitale del loro futuro Stato, e nessuno Stato accetta di dividere la sovranità della sua capitale con un altro Stato; al contrario Arafat ed i suoi vorrebbero che il confine fra i due Stati corresse proprio all’ interno della Città Santa, dividendo l’ unità civica delle due parti di Gerusalemme.

In questa situazione di stallo si è inserita la proposta di mediazione della Santa Sede, illustrata dal Papa Giovanni Paolo II durante l’ Angelus di domenica scorsa: conferire a Gerusalemme uno statuto internazionale sotto l’ egida delle Nazioni Unite, sul modello di quello di Berlino prima della riunificazione tedesca. In questo modo, la presenza delle due capitali sul territorio della stessa città diventerebbe un fatto accettato e garantito a livello internazionale, prefigurando un modello di “pace fredda” che se non costituisce certo l’ ideale in termini etici è comunque la forma politica del miglior accordo possibile.

La posizione vaticana non è certo maturata in questi giorni, e del resto ha sempre costituito la base –ed il principale impedimento- nelle trattative diplomatiche per il reciproco riconoscimento fra Santa Sede e Stato di Israele, che peraltro è stato raggiunto proprio sotto questo Pontificato.

Giovanni Paolo II intende visibilmente spendere il grande prestigio acquisito sia nel mondo ebraico che in quello arabo mettendolo al servizio della causa della pace, in termini di equità e di rispetto dei diritti di ognuno.

Il diritto fondamentale per gli Israeliani, come è ovvio, è quello della sicurezza dell’ esistenza del loro Stato, nato cinquant’ anni fa nella generale ostilità dei suoi vicini e sopravvissuto a molte guerre. Questo obiettivo può dirsi largamente raggiunto, poiché al di fuori di poche frange estremistiche nessuno fra gli Stati confinanti si propone più di chiamare gli arabi alla jihad per ributtare a mare gli ebrei: la stessa disponibilità degli Assad padre e figlio a trattare per la restituzione delle alture del Golan dimostra come anche da parte siriana si sia giunti ad un implicito riconoscimento dell’ esistenza di Israele.

Per i Palestinesi il problema è diverso, giacché essi vivono la loro condizione come quella di eterni profughi, scacciati dalle loro case con l’ avvento dello Stato d’ Israele ed ospitati assai poco generosamente dai loro fratelli arabi. Dagli accordi di Oslo in poi sono stati fatti diversi passi avanti, ma sta di fatto che a tutt’ oggi l’ Autorità nazionale palestinese ha un controllo molto limitato del suo stesso territorio, non dispone di forze armate vere e proprie ed inoltre è costretta a subire continue limitazioni nel tentativo di collegare fra di loro la più fortunata Cisgiordania e la derelitta striscia di Gaza, terra di disoccupazione e disperazione, potenti addittivi all’ integralismo di Hamas.

E’ chiaro che la posta in palio a Camp David non è quella di conservare la pace contro il rischio di nuove guerre sul modello tradizionale, o di una nuova Intifada. Il rischio piuttosto è quello di un ritorno di fiamma deghli atti di guerriglia sul territorio israeliano, che inevitabilmente produrrebbero un’ aspra reazione dello Stato ebraico,

 

con conseguente caduta di Barak e dei laburisti e ritorno al potere della destra nazionalista del Likud in stretta alleanza con gli integralisti religiosi, quelli dalle cui schiere uscì l’ assassino di Ytzakh Rabin.

Gerusalemme è dunque il nodo principale, e la capacità di compromesso (nel senso alto della parola) che i negozianti sapranno profondere sarà la misura della possibilità o meno di arrivare ad una pace condivisa e buona per tutti.

Dopo tutto, la parola Gerusalemme proprio questo significa: “città della pace”.

 

Giovanni Bianchi

 

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(Pubblichiamo il testo dell' intervento di Giovanni Bianchi al II Congresso regionale del PPI della Lombardia (Bergamo, 1 luglio 2000) che lo ha eletto Segretario politico regionale con circa il 90% dei voti)


"Il faut forcer l' aurore a naitre en y croyant"



INTERVENTO AL CONGRESSO REGIONALE


1. Questo Congresso arriva in un momento forse infelice dell' anno, appena prima della lunga pausa delle vacanze estive, e soprattutto arriva alla fine di un anno difficile, un anno di sconfitte elettorali del centrosinistra all' interno delle quali la parzialissima ripresa in termini di voti del PPI costituisce un dato tutto da verificare, per vedere se si tratta di un dato confortante per il futuro o di un puro e semplice fuoco di paglia foriero solo di pericolose illusioni. Da ciò qualche amico ha tratto la conclusione che forse questo Congresso non era da celebrare, che esso andasse rinviato a tempi migliori non solo sotto il profilo meteorologico. La mia sensazione è invece che il Congresso andasse invece svolto ora e qui, proprio perché la gravità della crisi in atto impone al PPI di ridurre al minimo possibile il rischio di logoramento che è sempre insito in situazioni che si prolungano per troppo tempo. Sicuramente va dato atto all' amico Galbiati e ai suoi collaboratori di avere retto con onore le maggiori responsabilità del partito in frangenti difficili, ed in questo senso credo meritino il nostro ringraziamento. Certo però il Congresso, per essere realmente utile alla causa del consolidamento e del rilancio del Partito, deve avere delle caratteristiche ben precise: la prima è quella di essere un Congresso aperto, nel senso letterale della parola. Aperto alle candidature, aperto alle suggestioni, alle idee, anche alle provocazioni che si ritenessero necessarie per dar la sveglia ad un clima forse un po' troppo intorpidito. Credo non interessi a nessuno limitarsi a fare del pattinaggio nelle sale alquanto polverose di via Leopardi, nel momento in cui invece è necessario aprire tutte le finestre per immettere aria nuova e togliere -appunto- un po' di quella polvere. La seconda condizione è che quello di oggi sia realmente un Congresso di idee, un momento in cui ci si confronta sui programmi e sulle proposte per il rilancio dell' idea popolare -prima ancora che del Partito popolare- in terra lombarda: guai a noi se alla fine ci accorgessimo che le eventuali articolazioni al nostro interno derivano invece da personalismi, risse intestine, divisioni sulle appartenenze dell' altro ieri o sulle supposte filìe odierne. Tutto ciò renderebbe davvero inutile il nostro convenire di oggi, e credo che rischieremmo così di dar ragione a chi non vede capacità di futuro in questo nostro Partito.
2. Ponendo davanti a voi la mia candidatura a Segretario regionale del PPI, desidero definire un tema, lanciare due slogan ed evidenziare un' esigenza. Il tema, evidentemente, è quello che dà senso a questo Congresso e, per quel che mi concerne, ad una mia eventuale Segreteria: che cosa può significare, oggi, l' essere popolari in un contesto come quello lombardo, così come c' è stato riconsegnato dalle elezioni del 16 aprile? I due slogan sono conseguenti: il primo recita: "voltare pagina", e quindi lasciarsi alle spalle la fase dei rimpianti, delle gelosie e delle nostalgie, affrontando i problemi per quello che sono e sapendo che noi non dobbiamo presentare all' opinione pubblica una DC ristretta ma un Partito nuovo. Il secondo slogan è: "dare un nuovo ritmo", che significa cambiare il passo, conferire un nuovo dinamismo ed una nuova visibilità ad un Partito che ai più sembra essere una stanca sopravvivenza del passato. L' esigenza, chiara ed ovvia agli occhi di tutti coloro che hanno a cuore la sorte del popolarismo, è quella di fare squadra, di mobilitare ogni energia disponibile di iscritti, simpatizzanti, amministratori pubblici di maggioranza e di opposizione al fine di creare una compagine politica determinata a battersi per affermare le proprie idee.
3. Nel documento di sostegno alla mia candidatura ho scritto di considerare come elementi capitali per la vita del Partito oggi quelli dell' identità e della coalizione. Elementi distinti ma indissolubili, nel senso che letteralmente, nel contesto bipolare -che non è un assoluto ma è quello in cui ci è dato di vivere oggi, e non possiamo certo, ricordate l' ammonimento di Moro ?, saltarlo a piè pari- pensare l' una cosa separatamente dall' altra è a dir poco impossibile. La nostra identità dunque, un' identità visibile sul territorio, riconoscibile nelle sue caratteristiche fondamentali a partire da un' ispirazione cristiana originale, non ridotta, come pretenderebbero alcuni che per questo si sentono molto "europei", alla garanzia dell' ordinamento sociale vigente. Al contrario, come ci ricorda il card. Martini, il cristiano in politica non è chiamato ad essere solo e sempre l' animatore della "gamba moderata", ma è piuttosto colui che reinterpreta con originalità le istanze che salgono dalla società civile. In questo senso, noi dobbiamo essere capaci di parlare tanto con il popolo delle partite IVA che con il popolo di Seattle, sapendo bene che fra i primi c' è una gran massa di proletariato intellettuale per la quale la parola magica "flessibilità" è solo un triste eufemismo di "precarietà", e che fra i secondi non ci sono soltanto lunatici luddisti, ma persone serie preoccupate per lo sviluppo ineguale del nostro pianeta. In questo senso, in un contesto di coalizione (l' altro cardine, come si diceva), l' aggregarsi su progetti chiari e condivisi è possibile se ognuno è certo della sua identità, ed in questo senso l' identità popolare, a fronte della confusione intellettuale e politica della sinistra storica, può assumere una vera e propria funzione di traino del centrosinistra. Però dobbiamo essere noi i primi a crederci.
4. La difficoltà maggiore nel lavoro quotidiano del Partito regionale sta nell' incerta percezione del suo ruolo da parte dei territori: è un dato di fatto che, venendo meno le tradizionali distinzioni politiche interne ad un grande partito come la DC, si è assistito in questi anni ad un ripiegamento sulla dimensione territoriale, considerata più rassicurante, e ad un disinteresse nei confronti dei livelli superiori, anche per un giudizio di reciproca ininfluenza. Proprio per questo, credo invece che si debba ricostruire un profilo di identità regionale che si esprima al di là di un rapporto meramente rivendicazionistico verso piazza del Gesù (che non è affatto la stanza dei bottoni, anche perché tutte le volte che qualcuno prova a pigiare uno dei bottoni superstiti si accorge che non succede niente perché i collegamenti sono stati recisi molto tempo fa), ma sappia dare una direzione precisa a quei molti che, senza saperlo, attendono anche in Lombardia l' affermarsi di una politica veramente popolare.

 


5. Ma perché questa non sia una affermazione puramente volontaristica è necessario investire fortemente in almeno tre fondamentali dimensioni. La prima è quella dell' organizzazione, che non può certo essere intesa secondo i canoni tradizionali: il vero problema oggi non è quello di avere funzionari che mandano avanti la baracca, ma di organizzare la presenza territoriale su tematiche di interesse generale, individuando i punti di eccellenza e quelli di debolezza del sistema, valorizzando le energie migliori e facendone un punto di aggregazione e di stimolo per la crescita complessiva del Partito e per l' incontro con persone nuove. Per questo credo molto nellì' organizzazione del lavoro interno del Partito per dipartimenti, che non debbono essere intesi come deleghe o, peggio ancora, come semplici sinecure da esibire a titolo di prestigio: si tratta piuttosto di creare occasioni di lavoro e di impegno, facendo crescere la cultura della progettualità contro quella dell' improvvisazione. Strettamente connessa alla dimensione organizzativa è quella della comunicazione: ho già detto in altra sede di non amare molto quei politici la cui funzione primaria pare essere quella di dichiarare su qualunque cosa a qualunque ora del giorno. E' chiaro però che fare cose belle ed interessanti è inutile se nessuno viene a saperlo: il nostro obiettivo deve essere quello di una comunicazione di sostanza che sappia cogliere e dar risposta alle esigenze dei cittadini, traducendole in progetti fattibili e non in sterili lamentazioni. Ma al fondo sono convinto che la vera dimensione di base, quella che regge le altre due, è quella della formazione: non si tratta solo della traduzione cattolica dell' antico invito di Lenin a "studiare, studiare, studiare", ma è un' esigenza reale della nostra epoca, che privilegia la superficialità ma nello stesso tempo sente il bisogno di andare più al profondo. Certo, molti di noi, anche fra i più giovani, hanno corso il rischio di bruciarsi in un generoso slancio di partecipazione che talvolta ha fatto premio su di una preparazione ancora incompleta. Nello stesso tempo, è anche vero che il ridurre la politica ad un sistema di pensiero ha un effetto paralizzante, nel momento in cui essa è invece movimento di idee e di interessi, e rischia di rendere astratto ed inefficace l' approccio. Noi dobbiamo puntare -e non è una frase fatta- ad una formazione nell' azione, ad un apprendimento di nozioni che si applichi nell' attività politica quotidiana, soprattutto in quella di base. Si è molto parlato negli ultimi anni del fallimento di quelle scuole di formazione alla politica che erano state promosse da numerose Diocesi italiane, a partire da quella di Milano, a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta: credo che una delle cause sia stata nel fatto che queste scuole trasmettevano sì utili nozioni storiche e politico-amministrative, ma mancavano di un pensiero militante che desse loro un' anima, e che soprattutto si comunicasse ai partecipanti facendoli partecipi di un progetto complessivo. La nostra formazione dovrà certo essere qualitativamente di alto livello sotto il profilo tecnico, ma dovrà anche riflettere il progetto complessivo dei Popolari per la Lombardia, ed anzie essere essa stessa luogo di elaborazione della nuova idea popolare.
6. Desidero soffermarmi ancora una volta sul tema dell' ispirazione cristiana, perché vedo bene come su di esso rischino di crearsi molti equivoci: non si tratta qui di rieditare un clericalismo di vecchia maniera, ma di avere chiare delle coordinate di base. Esistono valori specificamente cristiani che sono anche universalmente umani, e noi crediamo che il principio della sacralità della vita umana dal suo concepimento fino alla sua fine naturale sia uno di questi, come pure la centralità della famiglia e la preesistenza dei corpi sociali rispetto allo Stato. Ma l' ispirazione cristiana ha anche una sua dimensione più radicale, che ci dice dei nostri limiti e delle questioni su cui non è possibile transigere, pena la nostra mancanza di credibilità. Credo che il migliore esempio in questo senso lo abbia dato Thomas More, uno dei pochi uomini politici ad essere stati canonizzati, quando disse al suo ex amico Richard Rich, che aveva reso una falsa testimonianza contro di lui ricevendone in cambio dal Re la nomina a Procuratore generale del Galles, questa frase memorabile: "Oh, Richard, è già un cattivo affare per un uomo perdere la sua anima per il mondo intero, ma per il Galles !…". Noi potremmo dire: per un assessorato, per un posto di sottosegretario, per qualche strapuntino di sottogoverno: il limite degli uomini è anche il limite della politica, ma è proprio il rispetto di questo limite che dà senso, per un cristiano, al suo fare politica.

 

 

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