NUOVI ORIZZONTI DELLA TEOLOGIA CONTEMPORANEA

intervento di Edoardo Benvenuto a Monte Sole[1]

1993

 

  Nel 1993 Edoardo Benvenuto fu invitato  da don  Giuseppe Dossetti e dalla sua comunità monastica  a tenere una riflessione  sulla teologia contemporanea. Il testo che presentiamo riproduce quella conversazione e il dibattito che ne seguì tra i partecipanti.

Con questa testo entriamo nel “cantiere” nella riflessione teologica di Edoardo, possiamo seguire il suo cammino “in corso d’opera”, nel suo farsi e nel  suo

procedere, quasi in una confessione verso persone che stimava e a cui si sentiva per tanti versio legato.

 

premessa

 

Vi ringrazio per questo invito. Inizio subito ad entrare nell’argomento dicendo, per onestà, che non sono in grado di affrontarlo in modo organico. L’argomento doveva essere Nuovi orizzonti della teologia contemporanea, un tema che farebbe tremare le vene ai polsi di chiunque. Io posso soltanto procedere per confessione, esponendo il mio attuale sentire nel momento in cui sto tentando di scrivere un libro. E’ una confessione  che vorrei rivolgere innanzitutto a me stesso, per controllare l’autenticità di quello che, a parole, confesso di credere, e,  in secondo luogo, ad altri, che non voglio ritenere già interni alle problematiche teologiche. Sto pensando ai miei colleghi di università, a persone che conosco,  a persone che appartengono alla cultura contemporanea, non necessariamente credenti, anche se il libro segue la norma di S.Anselmo: trattare il non credente come se fosse credente, così come si deve trattare il peccatore come se fosse già convertito, in modo da suggerire una via feconda, che penetri dentro.

L’obbiettivo, tuttavia, sarebbe anche un altro: quello di recepire, soprattutto per me, l’incanto della prima volta. Obiettivo impossibile, sovrumano, ma necessario. Le cose sono dette e ridette e ripetute, sono diventate modi di dire, ovvietà. E’ possibile trovare il modo di incontrarle per la prima volta? Con l’incanto della prima volta?  Io dico di si. Ad una condizione: affrontare fino in fondo ciò che duemila anni di cristianesimo hanno da un lato conservato e custodito in modo splendido, ma dall’atro riparato, cioè l’elemento dello scandalo e della stoltezza. Soltanto se riusciamo a risvegliare in noi tutto il senso dello scandalo e della stoltezza dinanzi all’evento Cristo, credo possiamo riscoprire il fascino del primo incontro.

 

Il problema

 

Vorrei leggervi in anteprima le prime pagine del mio libro, andando poi avanti a braccio. Il libro è dedicato alla memoria di mia madre, che mi ha lasciato l’anno scorso, più o meno in questi giorni.

“E su la tomba di mia madre rimangono questi altri canti!.. Canti di uccelli, anche questi: di pettirossi, di capinere, di cardellini, d’allodole, di rosignoli, di cuculi, di assiuoli, di fringuelli, di forasiepe, di tortori, di cincie, di verdette, di saltimpali, di rondini e rondini che ritornano e che vanno e che restano”[2]

Con queste parole il Pascoli volle introdurre al suo intenso e lieve poema dedicato alla memoria della madre: un poema con costruito tutto di un pezzo su un gran disegno, ma affiorante come per cenni silenziosi da minuscoli frammenti, labili figure, humiles myricae. Le brevi gioie di un momento sereno, l’emozione ingenua che provvida si inframmezza nel corso di un greve lavoro, l’evento passeggero che distrae, deviando su di sé il pensiero: frulli di uccelli, appunto, e fragranze campestri, e lontano scampanio; ecco quel che si addice, per il poeta, a un camposanto.

Oh, sapessi anch’io deporre su la tomba di mia madre canti di vita, e sospendere, o almeno schermare per un momento, l’assillo della ragione sospettosa, il gelo della domanda spietata, tornando ancora, come un tempo, a quelle cose da nulla che erano la nostra compagnia, la fidatezza dell’intesa segreta fra noi che insaporiva ogni attimo vissuto! Ma ciò è negato. Invano potrei sforzarmi di lenire il rovello speculativo abbandonandomi all’incanto della poesia. Sarebbe un’opaca finzione, stolida copiatura. Forse in passato, chissà.. Ma la favola breve è finita e nulla, al risveglio, può riannodare il filo di un sogno interrotto. Se anche tentassi di rifugiarmi, tardivo ospite,  al tepore della care e buone immagini che avevano dato spessore di spazio e di tempo alla fede della mia fanciullezza, e mi imponessi di non uscire più da solo, allo scoperto, per restarmene invece persuaso e raccolto “sicut ablactatus in sinu matris suae” (Sal 131,2) presso il vecchio focolare, so bene che non riuscirei ad essere sincero: la mente e il cuore comincerebbero a marciare in direzioni opposte, e la sofferenza di quest’intima divisione (forse non lontana da quella preannunciata fa Gesù in Lc 21,51!) occuperebbe tutto il mio spirito, estraniandomi daccapo.

Mente e cuore divisi: non è certo un caso singolare i cui meriti parlare. Che è l’uomo se non proprio il conflitto vivente tra le ragioni del cuore che lo impregnano e quelle della riflessione critica che lo distolgono, tra il desiderio che lo nutre e il dubbio che lo consuma? Ma col mutare delle culture, delle idee dominanti la stagione del tempo, ed anche col volgere degli anni nel corso della vita di ognuno, cambiano le modalità e gli effetti di tale divisone: la spada recide smembrando quel che prima era  risentito accorpato su uno dei due poli e il fuoco divampa da ambo i lati, rugando di cenere il cammino. Così è per me. Una parte del mio cuore persevera a tenere strette e a custodire le parole più semplici della fede ricevuta, quelle che immergono il divino entro una miniatura cosmologica familiare di cielo e terra e sottosuolo; quelle che introducono l’origine e la meta, il fondamento e il significato, in un’unica vicenda ritmata al modo del tempo intermedio, secondo il prima e il poi della quotidiana esperienza; quelle che raffigurano l’infinito come gigantesco, e l’eterno come interminabile protrazione del tempo oltre l’estinguersi di ogni evento, e l’ultima destinazione come asintotico compimento di una realtà terrestre dilatata a dismisura, di pienezza in pienezza; quelle, insomma, che ci danno la forza di non desistere dalla speranza in quel che amiamo, nel prodigio ristoratore tanto vanamente atteso, incoraggiandoci a fantasticare una scena celeste parallela e simultanea, attimo per attimo, all’altra che ci incatena su questo mondo: una scena finalmente amica e tutta per noi, che solo per difetto dei sensi ci è impossibile spiegare di là dal muro d’ombra della nostra prigione mortale, per scorgere la festa che ivi si sta svolgendo, e il sorriso di coloro che invochiamo, e la conferma della loro cura, e il loro affaccendarsi volenteroso, come d’intesa tra emigranti via via giungenti in terra ignota, per le cose da nulla che ancor qui ci intrattengono nel timore e nell’impazienza di un futuro sempre ostinato e lesinare il suo avvento in attediosi passaggi, e che essi invece osservano ormai dall’altra parte del muro, tutte d’un lampo, così come alla memoria rivive e svanisce il nostro passato.

Si, una parte segreta e testarda del mio cuore insiste a voler dimorare accanto a queste immagini, e poco le importa se esse non resistano ad un esame più avveduto, lasciandosi dissolvere come i canti e la favole che circondano le culle. Qui appunto prende avvio la marcia imperiosa e sgarbata della riflessione razionale: ma il tragitto è tutt’altro che chiaro; subito si biforca ed è un andirivieni affannoso, un girare a vuoto. Solo l’inizio del cammino sembra evidente: che senso ha cercare un riparo dallo spazio che mi inghiotte come un punto nelle infinite latitudini dell’universo, e dal tempo che spegne via via  ogni mio presente nel nulla del passato, fingendo che l’agognato porto sia  invaso pur esso dal tempo e dallo spazio, e sia dunque ospite di accadimenti che si susseguono invisibilmente proprio qui e ora, da vicino, e che tornano e che vanno e che  restano, come al richiamo di chi ne invoca il soccorso? No, tutto ciò non ha alcun costrutto, neppure raggiunge la consistenza del racconto mitico. Questi infatti esibisce un contenuto determinato, idoneo ad alimentare oblique interpretazioni; la vicenda fantastica narrata dal mito con abbondanza di particolari, compiutamente definita in storie e personaggi che pur sempre replicano la loro rappresentazione su uno schermo lontano, diventa così metafora viva, parabola esemplare, segnavia rassicurante su inesplorati percorsi che il pensiero non saprebbe discernere, se non scrutando le pieghe del simbolo e i cenni dell’allegoria. Ma ben diverso è il caso di quella miniatura cosmologica che situa nello spazio e nel tempo il mio esasperato protendermi oltre il vuoto scavato dal tempo alle mie spalle e spalancato dallo spazio dinanzi a me. Qui non si dà contenuto di racconto sul quale meriti dissertare per riconoscere le tracce di quella virtuale liberazione dall’”assolutismo della realtà” che Hans Blumenberg sostiene essere la grande missione della figura mitica[3]. Qui si dà piuttosto un presentimento emotivo, ovvero uno spontaneo atteggiarsi del desiderio secondo forme che poi ricevono di volta in volta dalla mia stessa vita contenuti idonei ad animarle, a donare loro sostanza; ed è la medesima sostanza delle cose da nulla che sempre di nuovo mi distraggono dall’incubo di un accertamento decisivo, e sempre di nuovo chiedono di essere sbrigate preliminarmente, giustificando una continua procrastinazione di quell’incontro autentico con la verità. Ecco: la scena celeste che abita il mio cuore si rende complice di questa caparbia distrazione, di questo provvisorio rinvio  della scadenza irrevocabile, che ancora mi incoraggia a lasciarmi coinvolgere dalla vanità quotidiana. Anziché rendersi metafora di un luogo fantastico, finalmente affrancato dall’”assolutismo della realtà”, essa diviene lo strumento più sottile e invasivo per incatenarmi. Essa, infatti, accoglie in sé lo spazio e il tempo che disperdono e protraggono le mie cure, e li rimodella in misura, ritmi e pause che si adeguino puntualmente a quanto mi basta possedere, a quanto può resistere la mia attesa. Per questo, entro tale affettuosa cornice, tutto mi appare prossimo, come se esistesse solo per me, e i fattori annientanti il mio essere nel mondo diventano per incanto i custodi di tutto ciò che davvero mi preme: l’universo più non mi inghiotte, poiché i suoi confini cingono l’orizzonte del mio possesso; il passato più non scompare, perché preserva e dispone i suoi frammenti, sinché il loro insieme non completi il misterioso disegno che darà infine un senso ad ogni mio attimo vissuto.

Ahimè! Il solo fatto che io riesca a descrivere la ragione di siffatto prodigio sta a dimostrare che per me l’incanto è spezzato. E’ finita l’ora del “vespero vermiglio”, quando “il cipresso pareva oro, oro fino”, e la madre diceva al  figlioletto: “Così fatto è lassù tutto un giardino”. Dorma pure il bimbo, e continui a sognare i rami d’oro, le foreste d’oro. Non sarò certo io a sciupargli la visione. Ma io so di quel cipresso, e l’altra parte del mio cuore gli va accanto, impotente, mentre egli “nella notte nera/scagliasi al vento, piange alla bufera”[4] Dunque, ha da essere questa l’ultima parola, questa la verità sgombra da veli il cui incontro tento invano di procrastinare, gustando l’urgenza di cento altri impegni? Non dovrò finalmente smetterla di rifugiarmi tra le ingannevoli proiezioni dei miei poveri desideri, per riconoscere che l’immagine di quel mondo divino accordato ai tempi e ai luoghi della mia vita non è che crudele miraggio e contraddittorio imbroglio di categorie concettuali tra loro incomponibili? E non mi toccherà allora procedere oltre, per doveroso rigore, e sbarazzare memoria e fantasia da tutti quei simulacri di una celeste benevolenza e umanità, prodiga di promesse e dispensatrice di grazie, a cui la fede dà corpo e che il linguaggio religioso adorna di parole dolcissime e venerabili per tradizione, consenso, testimonianza?

Ma d’altra parte perché dovrei estinguere in me l’eco di quel Signore che mi illudevo di aver imparato a conoscere come “meraviglioso amico vivente, che soffre delle nostre pene, che si commuove delle nostre gioie, parteciperà alla nostra agonia, ci riceverà nelle sue braccia, sul suo cuore”?[5] Per dove giungere poi? Ad accalorarmi sulla differenza che passa tra l’infinito e il participio di qualche magico verbo? A contemplare estatico pronomi ed avverbi arcanamente sostantivati? A sprofondarmi nel mistero della copula verbale, tagliata via  da qualsiasi proposizione in cui essa compia onestamente il suo ufficio, e lasciata impazzire nel suo isolamento? Chi mi assicura che simili escursioni del pensiero astratto non sia pur esse fragili figure della mia fuga dall’”assolutismo della realtà”, scialbe proiezioni, su un cielo interiore, delle mie inquietudini?

 

Interrompo qui la letture delle pagine. Questa scena interiore è una faccenda molto seria. Questo riferire al divino (a Dio, ai Santi ecc.) una sua configurazione spaziale e temporale, legata al divenire, al movimento, accordata ai tempi della mia esperienza temporale, tutto questo fa parte della vita divina in noi. Quel Dio che io invoco è un Dio che deve potere intervenire e perdonare, che può abbandonare . Ma che senso ha questo coinvolgimento spazio temporale del divino, quando proprio il divino è  ciò che ci dovrebbe liberare dalla prigione spazio temporale? E’ facile dire che parliamo per figura. Voglio capire cosa significa questa figuralità che è implicita nel nostro linguaggio. Voglio capire quale sia il senso di questa figuralità che mi fa distinguere la scena celeste, alla quale io mi abbandono, perché essa ospita le parole della mia fede, da  una qualsiasi altra fandonia o favola o mitologia che, pur essa, può essere interpretata in termini figurali, metaforici, parabolici ecc.

Il discorso prosegue così.

 

L’argomento del tu quoque

 

L’alternativa che pongo potrebbe  sembrare un po’ simile a quella di Barth, nel suo bellissimo libro, La resurrezione dei morti[6]:  tra lo Scilla di una mitologia incredibile (Barth si riferiva alla resurrezione di Gesù Cristo) e il Cariddi di uno spiritualismo aggiornato, per cui la resurrezione di Cristo veniva interpretata in termini filosofici, antropologici, ecc. Barth cercava tra Scilla e Cariddi di passare nel mezzo dello stretto di Messina, per trovare un punto che non si lasciava catturare né da una parte, né dall’altra; questo punto per lui era la categoria della Rivelazione, la sola fide. Discorso fascinoso, ma, almeno per me, intransitabile.

Ma qui interviene un fatto nuovo, che proprio questi anni stanno risvegliando; potrebbe essere un segno dei tempi che sta alla teologia interpretare in modo corretto. La svolta linguistica della filosofia ci sta a dimostrare che Scilla e Cariddi (l’incredibile mitologia e lo spiritualismo astratto) non sono altro che due aspetti dello stesso personaggio. La svolta linguistica della filosofia, e quindi anche del pensiero teologico,  che ovviamente si deve avvalere di mediazioni filosofiche, ci sta a dimostrare che in realtà sia  la figurazione mitologica, popolata da volti, figure, movimenti, sia il pensiero astratto, che pretende invece di giungere ai concetti della ragione, sono entrambi immersi in un linguaggio di carattere simbolico.

Mi sono divertito nel libro a esaminare le parole della metafisica: soggetto, episteme, ipostasi, teoria... Cosa vuol dire ipo-stasi, epi-steme, teo-ria e così via? E’ sempre un prima e un poi, un sopra e un sotto. Se noi riuscissimo a mettere allo scoperto tutto ciò che ogni singola parola racchiude come metafora aggrumata e sciogliessimo queste metafore, noi verremmo a dire che ciò che sta sotto e va verso ciò che sta sopra per prendere visione e porsi accanto.. è sempre un elevare.. Cos’è questa scena, se non una scena cinematica? Provate a bloccare uno di questi cinematismi metafisici, non riuscireste neppure più a dire che si tratta di cinematismi metafisici. Se bloccate questo movimento, da intendersi come movimento locale, non il movimento nella sua massima accezione aristotelica, tutto si blocca.

Ecco qui l’animo dell’apologista che è in ciascuno di noi: tu quoque pensiero astratto. Abbiamo trovato il modo di legittimarci la  nostra scena celeste. Anche la nostra miniatura cosmologica, che sappiamo non corrispondere alla verità -  perché abbiamo bisogno di un cielo ristretto e vicino, di un sottosuolo, non possiamo abbandonarci alle latitudini del big bang ecc., abbiamo bisogno di tempi e luoghi prossimi perché il divino li ospiti  e questo appartiene non ad un linguaggio poetico e metaforico ma ad un modo di pensare -  ha altrettanto titolo teoretico di qualsiasi altro pensiero. Tu quoque, quindi, a tutto il pensiero. Siamo a posto. Ebbene, io dico di no. L’argomento del tu quoque è pericolosissimo in teologia. Ogni argomento che tende ad includere la negazione, incorporandola per trascenderla, ha fatto il suo tempo. Si tratterebbe di dire, ma sarebbe arroganza stolida da parte mia,  che ha fatto il suo tempo  il pensare della teologia contemporanea.

 

La vicenda della teologia contemporanea

 

Allora devo aprire una parentesi, entrando nel tema.  C’è stato un  congelamento forzoso (dalla Aeterni Patris alla Pascendi) del pensiero neoscolastico; quando è crollato questo congelamento, si è aperta l’esigenza formidabile  di allacciare un rapporto vitale  con il pensiero moderno. Non è soltanto una vicenda cattolica, legata al tramonto del neoscolasticismo, essa ha delle radici più remote: ripetere l’operazione di Tommaso, o se vogliamo di tutti gli altri teologi; prendere una mediazione filosofica pre-cristiana e interpretarla come fornitrice di “semi di verità”, che la Rivelazione feconda e porta a pienezza.

Questo era possibile finché la filosofia voleva dire Socrate, Platone, Aristotele. Già con Plotino è un po’ difficile a dirsi. Ma con la mediazione post-cristiana si può reiterare una simile integrazione? E’ possibile ripetere il gesto di Tommaso? La risposta è no. Se prendo come riferimento Kant, Hegel, Heidegger, non posso ignorare che essi sono nati in terra cristiana, sono a tutti gli effetti espressione di una cultura post-cristiana. Post-cristiana non nel senso del superamento del cristianesimo, ma che è venuta dopo. Il rapporto con queste mediazioni filosofiche non può più essere quello che dal tempo di Ireneo, di Giustino era pensato con l’immagine dei “semi di verità” che vanno a maturazione. Queste mediazioni filosofiche devono diventare dei criteri ermeneutici, dei modi di attualizzare il messaggio di fede. Prendono loro la regia.

A questo punto che cosa succede? Dinanzi  a una posizione che appare post-cristiana ma negativa, poniamo quella di Heidegger in Essere e Tempo, al primato del niente, alla domanda fondamentale: perché l’essere e non il niente,  quale è stata l’operazione  di Rahner?  Di capovolgere l’immagine: perché il niente? Tutto l’argomento heideggeriano varrebbe lo stesso se si sostituisse al niente il tutto, alla negatività assoluta la positività assoluta. La sintassi rimane identica, quello che cambia è l’elemento semantico. D’altra parte è anche difficile  fissare questo niente semanticamente. Ecco dunque l’iterazione di quello che ho detto, il tu quoque. Tu quoque, mio oppositore appartieni alla medesima logica, io perciò ti battezzo e uso questa tua  mediazione, che avevi pensato in senso contrario, come la migliore attualizzazione per il nostro tempo. Lo stesso aveva fatto Bultmann. Il gioco è sempre lo stesso.

Hegel è il caso più emblematico, da Hegel nasce Maeinecke, Goeschel che pensavano di utilizzare  il sistema dialettico hegeliano per la demonstratio magna. A furia di tesi, antitesi, sintesi si riusciva a dimostrare il sacro cuore di Maria. Dall’altra parte, per gli stessi motivi, con la stessa sintassi, Feuerback, Marx ecc.

L’argomento del tu quoque a che cosa porta? Porta ad affermare una equivalenza sintattica, un isomorfismo sintattico tra la tesi e la sua antitesi e quindi tenta di uscire fuori dall’obiezione, includendola.

Io oso dire che una teologia che si accontenti di un isomorfismo sintattico con le posizioni contrarie alla fede, è una teologia che non serve a niente. Perché se io riesco a dimostrare che appartengono alla medesima classe di equivalenza le immagini del “vespero vermiglio” e l’immagine di quel  povero cipresso che nella “notte nera scagliasi al vento”, io debbo prendere come riferimento  tra le due immagini quella del “cipresso che nella notte nera scagliasi al vento e piange alla bufera”.

Tra le immagini comprese entro una medesima classe di equivalenza, io non posso fare a meno di confrontarmi con l’immagine che più di ogni altra mi porta a prefigurare questo esito fondamentalmente scettico a cui porta l’argomento del tu quoque. L’argomento del tu quoque realizzato mi porta a dire: tutto fa brodo. Io debbo scegliere tra le immagini quella che me la anticipa.

 

Al di là della scommessa pascaliana

 

A questo punto  voglio ancora elaborare questa mia scelta della immagine tenebrosa. Io credo che sia venuto il momento di rovesciare la faccenda del “parì” pascaliano, della scommessa. Di quel Dio che si mette come posta di gioco d’azzardo, non mi importa niente, e spero proprio che non esista. Secondo la scommessa pascaliana potrei dire: non so se ci sia Dio o il nulla, però è più conveniente scegliere per Dio, perché nel caso della mia vittoria, dimostra la mia avvedutezza; nel caso della mia sconfitta, ciò dimostra l’orrore del disegno divino, il gioco assurdo e feroce che Dio avrebbe proposto all’uomo. O Dio è diverso da un qualcuno che si spartisce il campo dell’immaginabile con il nulla e se ne sta raccolto da un lato; ovvero Dio è qualcuno che mi si manifesta anche là, sulla soglia di quell’abisso orrido, immenso in cui l’uomo leopardiano, anela e corre, “ove ei precipitando il tutto oblia”[7]. O sta anche lì, oppure di quel che Dio che sta soltanto a fare da premio al gioco d’azzardo non mi importa niente.

Questo sta a significare un’altra cosa, con riferimento al discorso dell’isomorfismo sintattico: state attenti voi teologici che  tendete a dimostrare isomorfismi sintattici con la fenomenologia husserliana, con il marxismo o con la  filosofia linguistica; quel Dio che ottenete è  esattamente un Dio ambiguo; ciò che paga la vostra operazione è il volto di Dio, e voi non potete giocare sul volto di Dio.

 

L’idiota del Macbeth

 

Torno all’ipotesi: debbo scegliere l’immagine più feroce. Quale immagine? Per esempio di fronte a quel discorso dei cinematismi metafisici io sono imprigionato nello spazio e nel tempo; la mia mente, sia che immagini scene celesti con Santi e Dio ecc., sia che immagini cose che stan sotto o stanno sopra ecc., è sempre imprigionata in questo mondo spazio temporale. A chi siamo simili? Ce lo aveva detto Shakespeare nel V atto del Macbeth: la vita è la favola narrata  da un povero attore idiota con enfasi di gesti e di suoni e che alla fine non significa nulla. La trovo un’immagine straordinaria. Mi devo confrontare con questa immagine. Enfasi di gesti e di suoni. Sono i cinematismi, sono le nostre scene celesti, che alla fine non significano niente.

Bisogna stare attenti alla ragione per cui questa espressione  macbethiana turba. Almeno a me turba. Ogni volta che la ripeto, come ho fatto adesso,  sentivo dentro di me un qualcosa, un cruccio profondo: e se poi non significasse niente? Questo turbamento va coltivato in  ciascuno di noi. Perché c’è un modo per escluderlo: cioè appassionarsi ai suoni e ai gesti dell’idiota, i quali non sono affatto gesti e suoni sconnessi, anzi, sono un vero capolavoro di connessione e possono risolversi in ragionevolezza. Ma ad una semplice condizione: di non considerare che la sua favola cessi, quando egli ha terminato e la morte lo ha distrutto, ma che la favola continui e quindi non sia da considerarsi la favola singola, nel suo senso, ma un insieme di favole, narrate da idioti, che continuano e che diventano civiltà, comunità, nazioni, vita.

 

Una parentesi

 

Dio perdoni coloro che nell’ambito del movimento legittimo per la vita fanno l’esaltazione della vita e non del vivente. Dio li perdoni! Ho aiutato le mie nipotine, che dovevano scrivere una tema di religione per un concorso in cui non saranno certo premiate, dove con pompa di immagini veniva detta la meraviglia della vita, del DNA, della sua durata ecc. La vita, che meraviglia! Questo per giungere a delle conclusioni giuste, che non bisogna consentire l’aborto, l’eutanasia ecc. Con questi argomenti? Con questi argomenti? Ma quale argomento ci può essere a favore della vita, di questi grossi insiemi,  se io non mi occupo del senso ultimo della vita del singolo vivente? E’ soltanto nella prospettiva della resurrezione che la vita vale essere vissuta. La vita che conta è quella che è indipendente dall’evento della morte. In questa prospettiva questo bio-logismo sta diventando una trappola mortale. Mortale. Non parliamo delle teologie ecologiche, dove vien teorizzato che bisogna parlare dell’ecos e non dell’uomo. Nel recente Congresso dell’ATI, per fortuna, c’era padre Muratore che è stato corretto nelle sue posizioni. Io e Ruggeri eravamo d’accordo nel conservare l’antropocentrismo. Il discorso invece tendeva ad oltrepassare l’antropocentrismo in funzione di queste ...

 

l’osservatore silenzioso

 

Si, perché, effettivamente, in questo modo i gesti dell’idiota non contano più nulla. Il fatto che ogni idiota faccia i suoi gesti e i suoi suoni e alla fine questi non significhino nulla,  viene redento dal fatto che altri comincino a fare gesti e suoni e l’insieme, non si sa bene cosa potrà essere,  si conserva. Si procrastina la verifica del non significare nulla, dimenticando il singolo, cioè dimenticando la resurrezione, dimenticando l’evento singolare della resurrezione.

Per ciò dobbiamo custodire, far vivere in noi quel turbamento che ci sorge dall’espressione  shakespeariana, la quale è dovuta ad un “osservatore silenzioso”, che è in noi. E’  interessante considerare questa figura dell’”osservatore silenzioso”. Non è lo scienziato. C’è uno splendido trattatello epistemologico di Daniello Bartoli, del 1667, che, secondo me, anticipa e supera le più recenti acquisizioni dell’epistemologia scientifica di Popper, Feyerabend ecc., si trova a prefazione ad un trattato sul problema del vuoto torricelliano, che in quel tempo aveva suscitato metafisiche rivali. C’erano i democritici ( “ecco, abbiamo dimostrato che esiste il vuoto”) e c’erano invece gli aristotelici, per cui non era possibile che il vuoto esistesse ( erano vapori di mercurio che provocavano certe cose). La tensione e la pressione disputandi qual di loro sostenga l’argento vivo nei cannelli dopo fattone il  vuoto”: questo il titolo del  trattato del Bartoli. La prefazione è una cosa stupenda. Sapete cos’è lo scienziato di fronte alla scena della vita? E’ quello che non si lascia incantare dagli attori e dalle marionette che ci sono sopra, ma guarda come è fatto il teatro; se sono marionette, va a cercare i fili per vedere in che mani vanno a finire; guarda le macchine sceniche. Non si lascia incantare dall’idiota, ma è così intento a vedere come questo idiota riesce a maneggiare e a muoversi, che alla fine, avendo trovato questa cosa, è contento. Non si pone il problema che poi non significano nulla.

Ma non è neppure il filosofo. Dice Bartoli: il filosofo è un grande costruttore di paesaggi. Applicato al nostro caso, il filosofo è colui che vede i gesti dell’idiota e si immagina quale dovrebbe essere dietro il paesaggio che darebbe loro senso.

Questo “osservatore silenzioso” che alla fine accetta che i gesti e i suoni dell’idiota non significano nulla, è un qualcosa di ben più sottile, di più profondo, di intimo: sono io stesso nell’atto in cui questo pensiero e questa affermazione mi viene alle labbra. Io stesso. Ma in che senso? Non il “me” che fa parte della scena ed è un idiota tra gli altri; è quell’ “io stesso” che (ecco un altro segno dei tempi che la teologia farebbe bene a studiare) la filosofia contemporanea in qualche modo insegue, perde, riacchiappa e poi riperde. E’ l’ “io attuale” di Gentile, è il “trascendentale” di buona parte  della filosofia, è l’”operatore dell’epochè” fenomenologica husserliana, ecc. E’ un aggirarsi dei percorsi del pensiero contemporaneo rispetto all’accertamento del fatto che, quando io parlo, il mio parlare si distingue dall’oggetto del mio parlare. Tant’è che di questo mio stesso parlare posso fare oggetto, ma in quel momento mi devo mettere in uno strato discorsivo superiore, che parla di quell’oggetto di cui stavo parlando.

E’ bellissimo questo strato superiore che sfugge e che però mi appartiene, anzi è l’intimo me stesso. Questo dovrebbe indurre a un modello di pensiero diverso.

Tutta la teologia contemporanea - dal  metodo dell’immanenza alle sue varianti -  ha sempre pensato, in virtù dell’argomento del tu quoque e dell’isomorfismo sintattico che era necessario pensare, l’uomo come Tantalo: tenta di afferrare l’assoluto, ma quello si ritrae e si nega. E’ questa una immagine forte della teologia contemporanea, anche se ambigua quanto mai, perché non è affatto certo che esista un termine che si ritragga e si neghi; potrebbe esserci semplicemente questa tensione inappagabile. Questo termine è comunque  teologicamente connotato.

Perché non dovrebbe valere, invece, l’altra immagine: non l’uomo come Tantalo, ma l’uomo come Proteo? Quel “me” che sempre mi sfugge e che non riesco a identificare, perché non appena lo identifico, diventa un “me” oggettivato. Provate a rovesciare l’immagine di Tantalo con quella di Proteo: cambia tutta la sintassi teologica. Proteo, come diceva Agostino, nessuno lo poteva fissare, se non divino iussu.  Ecco, questa immagine non di un Dio che si ritrae e si nega, ma di un “io” che si ritrae e si nega. Rispetto a che? Rispetto a un Dio che insegue, che mi avvicina sempre di più e, rispetto al quale, noi non riusciamo ad acconsentire a che Egli ci prenda nel suo seno, e quindi ci ritraiamo e ci neghiamo. Sono sempre immagini, come i cinematismi ecc. ,  però sarebbe bello esplorare le valenze speculative delle une e delle altre.

 

Insormontabili aporie

 

Quest’ “osservatore silenzioso”, che io identifico semplicemente con il discorso attuale, pretende di non arrestarsi dinanzi al alcun paesaggio filosofico, vuol pervenire alla fine, e alla fine afferma che  la vita non significa nulla.

Ora una caratteristica del discorso attuale è che esso pretende esigenzialmente la verità. Quando io parlo, è sempre implicito che io vi chieda di credere a quello che dico come vero. Non è detto che sia vero, però ogni giudizio su quello che dico, se sia vero e falso, riguarda un giudizio complessivo sul mio discorso. E’ quindi una oggettivazione dello stesso.  Ma nel momento in cui apro bocca, appare una pretesa alla verità. Dunque, anche l’ “osservatore silenzioso” pretende alla verità nel dire che la vita non significa nulla. Qui l’altro argomento vittorioso. La verità comunque la si prenda, anche dal lembo più oscuro e buio, mi porta al di fuori delle ombre, mi fa toccare qualcosa che veramente sia. Proprio nel processo che mi porta ad affermare che nulla significa, che, infine, al termine dei gesti e dei suoni resterà soltanto il “vuoto dei vuoti”, proprio questa affermazione totale, la più negativa immaginabile, questa almeno deve essere vera, proprio per poter rappresentare l’insignificanza del tutto. Ma, se è vera, che cosa vuol dire? Che tutto potrà essere vano, inghiottito nel “vuoto dei vuoti”, ma non questa verità. Alla fine io posso dire che la realtà dell’uomo è un mero nulla, ma proprio perché lo voglio dire, lo posso dire, questa verità, la verità di questo nulla è tutto. Ecco lo scacco matto  inferto alla posizione shekespeariana.

L’ho citata perché è fondamentalmente quella di buona parte della filosofia contemporanea, la quale sorprendentemente e curiosamente  sta inseguendo, vieppiù da vicino,  tematiche teologiche. Questo è un tempo molto vicino a quello in cui viveva Agostino, e prima ancora; quando un platonismo stava penetrando nei penetrali del dogma... Bisogna stare molto attenti a questa vicinanza pericolosa, ma feconda.

Se leggete l’ultimo libro di Vitiello, mio amico,  Topologie del moderno[8],  nihilista a non finire, ci si accorge come, proprio attraverso il passaggio estremo per Nietzche, Heidegger ecc., giunge alla fine alla ripresa di questo tutto. Non fosse altro che nella sola verità che afferma il nihilismo universale, ma che, però, si riempie di connotati, perché deve farsi carico del tutto, per dire che è nulla; e questo farsi carico del tutto già gli dà molte valenze e molte forze. Questa è la via di Cacciari, con i suoi percorsi misticheggianti o neo-scellinghiani. Tutta la generazione dei miei amici filosofi, che si occupano di queste cose, è emblematicamente raccontata da quell’ “osservatore silenzioso” che, alla fine,  raggiunge pure un qualche lembo di verità e allora ricostruisce tutto da capo.

Del resto, non è questo un qualcosa che rassomiglia molto alla teologia negativa? Pensate al famoso discorso di Eckhart sul distacco: il riposare sul puro nulla che immediatamente è la massima vicinanza con il Dio che si rileva. Il rifiutarsi all’essere attaccati a questo e a quello.. Non so se sia del tutto vero.. Comunque è un percorso classico della teologia medievale e post-medievale.

 

L’infinitamente piccolo

 

Soluzione perfetta? A costo di sembrare assurdo dico: no. Questa soluzione la rifiuto totalmente, perché sarebbe  il modo peggiore di tradire l’elemento dolente, tragico, ma grande e importante, redento, il volere stemperare la tragedia ai confini del tutto. Non voglio dire che valga anche teologicamente e metafisicamente il detto “mal comune mezzo gaudio”, ma posso dire che la vera tragedia è sempre metaxu, è sempre in mezzo. Ciò che afferra nel lutto è vedere che la vita continua, quando per me tutto è cessato. Se tutto cessasse, vorrebbe dire che è un evento nuovo, ma è invece questo perdurare della grevità, questo procrastinarsi della dissipazione e distrazione dei gesti dell’idiota, quando per me tutto è finito, che fa problema.

Se voglio arrivare ad una proposta teologica che afferri nel cuore, che risvegli quel senso di scandalo, di stoltezza, di meraviglia e di incanto, debbo prendermi cura del metaxu, della situazione intermedia, di quell’intermedio che io sono e nel quale soltanto vive il dolore, la tragedia. No, dunque, al garbuglio delle speudodialettiche totalizzanti, di realtà e verità, che affliggono  buona parte delle teologie più attente al versante storico contemporaneo.

Mi spiego. Ricordate la frase: la realtà dell’uomo è nulla, ma questa è la verità del tutto. Da ciò verrebbe fuori: realtà e verità come  proiettate su due lati opposti. In  tutte quelle pseudoteologie della pace, che erano correnti, una delle frasi più celebrate era questa: se la realtà dell’uomo è la guerra, la verità dell’uomo è la pace. Di nuovo verità e realtà che si contrappongono, da contraria a contraria. Non solo, ma la tesi cattolicissima, che oggi si sta avanzando, secondo me molto preoccupante, dove ancora  la separazione dialettica di realtà e verità, viene sollecitata per imbastire un sillogismo di questo tipo: nella creazione fu iscritta la verità dell’uomo ( Gen 1.26, l’uomo ad immagine di Dio), ma la storia del peccato ha separato la verità dell’uomo dalla sua realtà, ponendole in contrasto; Cristo è colui che realizza la riconciliazione tra verità e realtà, è, quindi,  colui che rivela l’uomo all’uomo, dunque, anche colui che fonda ogni valore umano (pace, giustizia, solidarietà ecc.), che non potrebbe avere altro fondamento che questa rivelazione e redenzione, e questo porta a tutte le politiche che noi conosciamo in campo politico e sociale.. (Se avete intenzione di erigere un rogo, ditemelo prima, così scappo...)

No, tra verità e realtà c’è una differenza infinita, ma proprio per questo infinitesima. C’è un pensiero stupendo di Simone Weil che vale la pena di citare, perché potrebbe  essere l’origine di un nuovo pensare: “tra un ordine superiore e uno inferiore, essendo quello superiore infinitamente superiore, quello superiore lascia la sua traccia nell’inferiore nella forma dell’infinitamente piccolo”[9]. Nella forma dell’infinitamente piccolo. L’ebrea Simone Weil aggiunge: “Esempio: Gesù, punto di tangenza tra Dio e l’uomo”. Punto di tangenza. Pensate che la teologia degli anni post-conciliari ci aveva assuefatto, anche nelle parole di persone sante e buone come Ranher ecc.  a riflessioni come queste:  “non si rende certo onore a Dio a pensare che egli abbia concentrato il suo intervento in un certo luogo e in un certo spazio, perché l’azione di Dio nel mondo deve valere semper et ubique”. Non avevano capito che è esattamente il contrario. L’azione nel mondo semper ed ubique configura il mondo in quanto mondo, ma non la tangenza  tra il mondo e ciò che è infinitamente superiore. Questa tangenza è infinitesima.

La domanda di Lessing: come mai quell’uomo? E’ lì la spiegazione, non la spiegazione finta:  da quel momento in poi tutta la teologia è afflitta dalla domanda di Lessing , come mai quel Gesù?, per un disegno che coinvolge la totalità. La soluzione sempre ritrovata è stata quella di interpretare Cristo come il significante di una  verità totale. Questo a partire da Hegel che diceva: si, è l’esempio nel pensiero rappresentativo di ciò che poi il pensiero assoluto dimostra.

Altro esempio (altro rogo, forse?): quando si parla di Cristo sacramento di Dio. Gesù Cristo non è affatto un sacramento, non ha nulla a che vedere con la categoria del sacramento. Abbiamo sempre bisogno di legittimare “quello” sotto forma di metafora, di parabola, di esempio, rispetto a qualche cosa d’altro che deve  essere semper et ubique. No, state attenti: l’elemento che caratterizza la verità sulla realtà, proprio perché la verità sulla realtà è infinitamente superiore, è l’essere infinitamente piccolo.

 

Metaxu

 

In cosa consiste poi fondamentalmente questo rapporto tra verità e realtà? Dovrei aprire una parentesi troppo lunga. E’ una questione  di carattere un po’ tecnico. Che differenza passa tra “la neve è bianca” e la proposizione “è vero che la neve è bianca”. Buona parte dei filosofi inglesi direbbero che non c’è nessuna differenza. Il concetto di verità è un concetto ridondante, che serve semplicemente.. In realtà c’è una differenza sottilissima. Quando io dico: “è vero che la neve è bianca”, io affermo che la proposizione “la neve è bianca” “deve” essere affermata e non “può” essere negata. Dovere e potere sono verbi modali e acquistano senso non in relazione al mondo dei fatti, ma in relazione a quello che Leibiniz chiamava le “realizzazioni di mondi possibili”. E’ soltanto in relazione ad un mondo possibile che io posso capire il concetto di potere, volere, necessario, gratuito ecc. Allora è qui la differenza: mentre la realtà coinvolge il mondo dei  fatti, la verità coinvolge il mondo dei fatti arricchito da un tangente insieme di mondi possibili. La proposizione vera, il vero, include il possibile nel suo seno, mentre il reale lo ha esterno a sé. E’ una infinitesima differenza, che però va studiata,  perché lì si gioca il tutto. E’ vero: la realtà dell’uomo è la morte  e la verità dell’uomo è la resurrezione. Ma dobbiamo capirlo nell’attenzione. Attenzione a che cosa? Al metaxu, alla medietà della nostra situazione.

La medietà della nostra situazione è quella che prende un volto proprio perché nessuno di noi è l’ “osservatore silenzioso”, proteso all’infinito rigore. Ognuno di noi è rigoroso fino a un certo punto, ad un certo momento si distrae. E’ in questa concretezza del distrarsi prende  un volto il mondo che abbiamo dinanzi. C’è un pensiero di Wittgestein che è stupendo, il 4.56 del Tractatus . Egli studia il concetto di solipsismo e dice: “se noi rigorizzassimo il concetto di solipsismo fino in fondo ci accorgeremmo che esso coincide con il perfetto realismo”. Il perfetto rigore ci toglie quei paesaggi filosofici separati che configurano la visione del mondo, la visione del mondo che noi abbiamo nella nostra distrazione, nella nostra dimenticanza temporanea, che però ci caratterizza.

Dobbiamo essere attenti a un altro segno dei tempi del moderno, che è l’emergere delle scienze della complessità (Prigogine, Morin, ecc., con l’attenzione ai fenomeni complessi, come i moti vorticosi, i processi irreversibili, i processi caotici ecc.); qui  emerge fondamentalmente questa idea: il mondo, come noi lo vediamo, è il referente di una situazione epistemica imperfetta. Se noi potessimo accedere al punto di vista di Dio, quello leibiniziano, perderemmo la visione dei fenomeni, che invece per noi sono una realtà, ma sono una realtà speculare all’imperfezione epistemica. Pensate a tutte le scienze probabilistiche. Che cosa è il caso, se non una questione che non riguarda l’oggetto, ma la mia incapacità di conoscere le cause di una certa evoluzione. Questa mia situazione, questa mia impossibilità di pervenire alle cause, viene amplificata e diventa “il caso”. Il caso e la necessità stanno oggi governando l’orizzonte di interpretazione di molte parti della scienza. Vedete, sono entificazioni di situazioni epistemiche.

 

La parola

 

Ma c’è un altro esempio che vorrei dare. Come progredisce il pensiero? Mediante la dimenticanza. Pensate al sillogismo. A è B, B è C, dunque A è C. Qual è l’elemento che fa sì che questo non sia una tautologia? E’ il fatto che nella conclusione il temine medio non c’è più, me lo dimentico. In realtà dovrei dire nella conclusione:  ergo A è B e B è C ecc. Per poter avanzare è necessaria la dimenticanza. Questa capacità di dimenticare è simile al mettere in motto quei meccanismo di cui parlavo prima.

Non posso sviluppare questo problema e mi rendo conto che la stanchezza vostra sta giungendo all’estremo. Ma il passaggio successivo è questo: prendersi cura del metaxu. Ma chi si prende cura del metaxu?  E’ la parola. La parola è sempre metaxu. Perché? Perché l’assoluto rigore è il non dire. Una dimostrazione assolutamente rigorosa è quella che non dice assolutamente nulla. Essa mette tante ipotesi ed ottiene tanti risultati e tutti collegati insieme e alla fine il vero rigore consiste nel non dire. Tutti i sistemi assiomatici  sono ordinati in questo modo. Quand’è che è perfetto un sistema assiomatico? Quando io metto tanti assiomi sufficienti per far si che tutte le possibili conclusioni sono implicite in quegli assiomi. Quindi sono un dire nulla. Il dire è uscire fuori dal rigore, è altro rispetto al non dire rigoroso, è il prendersi cura di quella dimenticanza che mi faceva progredire nel sillogismo; è l’impegnarsi su quella referenza di una situazione epistemica imperfetta. La parola coglie tutto questo dentro di sé.

Per questo, con grande effetto scenografico, alla conclusione di questo capitolo del prossimo libro, ritorno all’elenco del Pascoli, quello iniziale, ricordate? Cosa c’è in realtà? In che modo si distingue questo elenco di uccelletti? In che modo si distingue il forasiepe rispetto al passeraceo dentirostro che sta nell’albero della classificazione degli uccelli di Porfirio? Quell’uccelletto fissato in un certo ramo dell’albero di Porfirio è rigoroso, e infatti non vola più, è un cartellino.. Invece il forasiepe ha tutta questa ariosità, questa forza, questo non rigore. Cosa vuol dire forasiepe? Qualche contadino aveva osservato che forava le siepi; non è certo una definizione rigorosa sul piano dell’ornitologia.

Voi capite che qui si ritorna al discorso: parole di fede e concetti della teologia. Parole di fede: quelle che  abitano in quella scena interiore, quella scena celeste, che sono parole, ma possiedono questa forza grandissima: da un lato deboli e stolte agli occhi di una conoscenza speculativa, dall’altro così potenti da poter fare una cosa che dirò tra breve. Le parole della fede e quella scena interiore, quella scena che abita in noi e che popola di spazio e tempo il divino col quale noi agiamo in compagnia. Quella scena è essa stessa custode del metaxu, così come è custode delle parole della fede. Adesso possiamo capirne il senso più in profondità e l’analogia potrebbe essere tratta appunto dai sistemi assiomatici di cui parlavo prima. Sapete come sono costruiti? Il sistema assiomatico di David Hilbert per la geometria è costruito così: si parte da semplici parole, non si definisce cos’è il punto, la linea, un piano; si procede con dei puri simboli ( X,Y, Z ecc.); si definiscono poi delle regole, che sono regole di composizione di questi enti linguistici, e a furia di applicare queste regole e questi assiomi, ecco che, poco per volta, questi segni linguistici godono di proprietà formali che sono esattamente quelle che la mia mente intuitiva attribuisce ai concetti di punto, linea, piano ecc. Il sistema assiomatico ha questa caratteristica: si parte dalla parola e si arriva al concetto. Attenzione, però, perché non appena io mi pongo il problema di allacciare il concetto autocostruito dal sistema assiomatico col concetto intuitivo, in quel momento, ho un solo modo di procedere: riconoscere nel concetto autocostruito del sistema assiomatico un modello linguistico, cioè una norma di operare e non un episteme. Dunque, nel momento in cui allaccio  il rapporto tra sistema assiomatico e il  linguaggio ordinario che mi accompagna con i suoi concetti intuitivi, ecco che quel concetto ritorna a parola. Non una parola  espressiva, ma una parola dispiegatrice, che toglie le pieghe delle metafore aggrumate che sono il linguaggio ordinario.

Allora passando dall’esempio analogico al tema che mi interessa: parole delle fede nella loro scena, nella loro miniatura cosmologica e concetti della teologia nei loro sistemi: sono proprio così, è lo stesso rapporto. Quella scena, quella miniatura cosmologica, le parole della fede non vanno disprezzate, non sono figure, ma hanno lo stesso ruolo del linguaggio ordinario, che necessariamente accompagna la costruzione del sistema assiomatico. Badate che anche il sistema assiomatico più rigoroso, purché non sia un puro geroglifico, deve avere qualcuno che indichi: leggi qui, aossa di là ecc. La compagnia del linguaggio ordinario è sempre presente; la scena cosmologica custode del mio metaxu, è colei che mi consente di costruire il sistema “assiomatico” del pensiero teologico-metafisico, ma, al suo compimento, di restituirmelo in forma di parola. L’itinerario va da parola a parola. Ecco la méta di questo mio percorso in teologia: raggiungere la dimensione di “parola”  dei concetti della teologia. Non quindi un concetto che si vanta davanti a Dio -  l’essere sussistente rispetto al Dio di Abramo di Isacco e di Giacobbe -, ma l’essere sussistente che si dimostra parola utile per quell’Altro, la parola della fede, abitante nella miniatura cosmologica che ha questa debolezza e questa stoltezza, ma ha la potenza di ridurre a parola i concetti più augusti della teologia, che però devono rimanere.

 

conclusione

 

Qui intuite le giravolte di pensiero, la scena cosmologica debole e stolta e il messaggio, che   a sua volta figura  immagine e parola di Atro, che la nostra fede confessa; la stoltezza e la debolezza della predicazione, che però è più forte della sapienza degli uomini, infatti la sapienza umana non ha conosciuto Dio.

Dove però questo non significa il togliere via, con una operazione fideistica e imperiosa, tutto il contributo che il pensiero teologico ha dato, anzi. Soltanto che il pensiero teologico, le meditazioni filosofiche non debbono più essere, secondo la tesi che sostengo,  l’orizzonte della precomprensione, ma devono essere la pianura dell’espressività; mi devono aiutare a dire, a parlare, a proclamare, ad annunciare.

Tutto questo discorso che ho fatto non è altro che la scoperta dell’umidità del pozzo; se voi vi leggete il De libero arbitrio  di Agostino, libro II, 2,2,6, trovate esattamente questa cosa. Nisi crediteritis non intelligetis.. Ma state attenti che non dovete fermarvi al “credere”, perché il Signore non ha detto che la vita eterna è questa: che crediate, ma che intelligatis, che capiate. Infine: abbiate fiducia perché chi cerca trova, a chi bussa sarà aperto.

Tutto quello che ho detto non è stato altro che  una volgarissima presentazione o preludio a questi passi di Agostino.

 

 

DIBATTITO

   

Giovanni Paolo Tasini:

Può approfondire  il senso delle mediazioni?

 

Edoardo:

La mediazione attraverso il linguaggio teologico formalizzato ha l’effetto di dispiegare ciò che nella metafora è aggrumato e quindi insidioso e ambiguo. La figuralità è una gran cosa, ma può essere ambigua e soprattutto può essere povera. Ma c’è un altro fatto. Il moto è pendolare: da figura a pensiero astratto a figura. In questo moto pendolare, nel passaggio al pensiero astratto, accade una cosa importantissima. Mentre la figura primigenia, quella non ancora pensata, non ancora assoggettata alla fatica del concetto, la parola della pigrizia del mattino, è una parola che ha l’ordine della possibilità esterno a sé; la parola della sera, quella che proviene dalla fatica del concetto, è una parola che include in sé stessa l’ordine della sua possibilità. Questo l’ottiene proprio da quel bagno attraverso il polo opposto del pensiero. Non è una cosa da niente, è recuperare il concetto vero di essere. L’essere è ciò che ha in sé, come dimensione immanente, il possibile. Per questo si può dire: l’essere può, vuole, l’atto dell’uomo è libero, l’atto di Dio è gratuito. Invece nell’ordine della mera  figuralità, quella della pigrizia del mattino, vale l’ottica attuale, che è dominante nel nostro tempo -  della pigrizia del mattino, si spera, forse anche della sera, ma insomma sempre pigrizia - , e cioè il ritenere che il possibile sia dato dal fatto che quella realtà ha tanti mondi possibili ai quali riferirsi. Il possibile, cioè, come dimensione esterna all’essere, e l’essere come una variabile che, a secondo che appartenga a tutti i mondi possibili, diventa necessaria, se appartiene a alcuni solo di essi, diventa contingente  e così via..

 

Carbone:

Il discorso teoretico tu lo fondi  sulla verità che questo nulla è tutto..

 

Edoardo:

Si. E’ una sua declinazione un po’ paradossale e simbolica.

 

Carbone:

Noi abbiamo avuto questo problema quando ci siamo chiesti nel fare la lectio: perché non leggere la Bibbia e basta? Perché passare allo studio, alla comprensione del testo, per poi di nuovo tornare alla Parola?

Volevo anche uno schema  applicativo di questo tuo discorso al panorama teologico italiano. Quali teologie  cadono sotto lo schema della realtà come tutto e della verità come tutto.

 

Dossetti:

Lo farei dopo. Parliamo prima un po’. In questo spazio la Parola con la “p” maiuscola come si pone e  come funziona? E’ ancora un punto di ritorno dei sistemi assiomatici, oppure è qualche cosa di estraneo? A monte o a valle?

 

Edoardo:

E’ molto bella questa domanda. Esattamente su questa domanda voleva essere scritto un capitolo successivo, di cui ho lo schema e che si chiama Parola ed Icona. Parola e Figura. La Parola con la “p” maiuscola dobbiamo intenderla come il referente reale di tutto ciò che  figuralmente vado dicendo del discorso attuale su parola, figura, concetto..

 

Dossetti:

E’ un referente innominato, per ora..

 

Edoardo:

Però viene chiaro alla fine. L’ordine della figura è intrascendibile, ci sono tutta una serie di passaggi che dimostrano che deve essere così, proprio a partire dal Salmo di stamattina: “ Oculos abent et non vident.. ” Deriva dalla visione del Dio ebraico e cristiano questo bisogno di conferire questa dimensione figurale alla realtà. L’ordine della figura è intrascendibile, la figura è parola di fede, la storia della salvezza è abitata dalla figura ecc. Ma il ruolo del logos è riconoscere la figuralità della figura..

 

Dossetti:

Del Logos..

 

Edoardo:

Di ogni logos.  Il  logos  è quello che  mi consente  di non scambiare per realtà indipendente, opaca e autosufficiente quello che vedo, ma riconoscerne invece la sua inserzione in un sistema di significanti  e quindi la sua trasfigurazione  a figura.

Il Logos con la “l” maiuscola emerge allargando la visuale al tutto. Il Logos “della vita” che è  nel medesimo tempo “Icona di Dio”. Questa è la duplice dimensione del Cristo. È  il Logos che diventa il fondamento dell’operazione di ogni logos umano, che, se obbedisce alla pedagogia che gli è imposta, disvela la figuralità della figura. Ne è il fondamento, disvelandosi esso stesso come Icona di Dio.

Forse non ho risposto alla sua domanda per dire la Parola come il tema della rivelazione, però il tentativo era qui di capire lo schema  del mio ragionamento: al termine,  tutto diventa figura, ma sulla base di un Logos che tutto abbraccia, disvelandosi esso stesso come figura. Qui compete la  “l” e “i” maiuscole per Logos ed Icona, che trattiene questa duplicità della natura di Cristo, nell’unicità della sua persona.. Sono due momenti fondamentali : “della vita”, del reale, quindi la verità del reale; ma che nel medesimo tempo è “Icona di Dio”, la visibilità di Dio e non, quindi, sacramento, non mistero. E’ esattamente l’opposto.

 

Umberto Neri

L’itinerario andrebbe per una certa trascendenza, comunque presente, per il fatto proprio che è del metaxu, del frattanto della parola. L’itinerario sarebbe: dalla  parola al concetto (esplicazione, dispiegarsi della parola) per poi, inevitabilmente, il ritorno alla parola, alla parola nuovamente sostanziata, che, a sua volta, produce un nuovo dispiegarsi ed esige un nuovo ritorno. Questo è l’itinerario. Perché io non posso fermarmi sul piano del dispiegarsi? Perché inevitabilmente il piano del dispiegarsi impoverisce quella ricchezza che, nella parola, è tutta contenuta. Questo mi interessa moltissimo per il passaggio che si può fare, per analogia, ma di una analogia che porta tutto su un piano di infinito, rispetto alla parola di Dio. Dio non può comunicarsi altro che con le parole. Questa parola di Dio contiene, per analogia rispetto alla nostra parola, la realtà in modo infinito. Su questo non si è mai, a mia conoscenza, riflettuto abbastanza nella storia della teologia. La natura propria del Verbum Dei consegnato nelle Scritture, che certo è parola di uomo, ma non nel senso che ne abbia la limitazione, perché in sé, oggettivamente Verbum Dei , e quindi contiene, rispetto a quella ricchezza pure inesauribile di verità che ha la stessa parola umana,  infinitamente di più, contiene tutta la realtà, per natura sua, perché Verbum Dei. Ciò ci  rimanda poi alla elaborazione, alla esplicazione illuminata dell’intellectus fidei, ma che, a sua volta, non può essere l’orizzonte nel quale termina la teologia e, meno che mai, l’ambito nel quale si pone l’annuncio, anche se è termine di comunicazione, perché si deve sempre ritornare, dopo averla così esplicata, alla Parola, sapendola più ricca e infinitamente sostanziata.

L’irriducibilità della parola, sia mattutina o serotina, è estremamente importante, perché definisce il procedimento teologico, oltre che  il modo con cui si pone l’annuncio nella Chiesa.

 

Edoardo:

Sono perfettamente d’accordo. Mi ero dimenticato,  a complemento di quello che lei ha detto, di dire che solo attraverso il polo dell’elaborazione concettuale, del sistema teo-ontologico, posso recuperare la dimensione dello scandalo e della  stoltezza. Lo scandalo e la stoltezza esigono il doppio riferimento. Dio è stolto, ma nell’orizzonte della sua infinita saggezza. La parola diventa l’espressione forte di questo evento, che è  quello della riduzione a nulla di tutto, ma  proprio grazie alla permanenza di quell’altro orizzonte che vede Dio sapiente e il mondo stolto. Paolo rovescia: il mondo sapiente e Dio stolto.  Uno non riuscirebbe ad avvertire lo scandalo se non ci fosse quest’altro riferimento. Ecco come è necessario, molto importante questo materiale che ancora tende a  vantarsi dinanzi a Dio e, infatti, il catarghein lo investirà. Ma è molto importante perché  è il mantenere desto quello scandalo e quella stoltezza..

 

Umberto Neri

Lei non ha mai nominato Kierkegaard. Non le pare che egli abbia esercitato nei confronti del legalismo un tipo di critica analogo a quello  che stiamo facendo?

 

Edoardo:

Si

 

Umberto Neri

Questo ritrovarsi dell’individuo e del frattanto..

 

Edoardo:

La differenza è più sentimentale che concettuale. Ritengo che sia compito del pensiero razionale riconoscere che l’impostazione di cui abbiamo discorso è la massimamente razionale. Non si tratta di sostituire ad una dialettica logica quella del salto. No, perché la ragione mi impone che sia così. Si tratta di una ragione che non deve essere, come dire,  macroscopica nei suoi gesti, per cui non capisce.. , deve essere una ragione talmente fine da  avvertire come ognuno dei passaggi detti non ha un’ombra di cedimento verso una opzione previa, se non a dimostrare che quella opzione previa si richiede..

 

Carbone:

Ora  l’applicazione allora  all’orizzonte teologico italiano, con qualche esempio e con qualche nome. Quali teologie vengono sbaragliate con questa impostazione? Qual è la linea da perseguire?

 

Edoardo:

Credo ci sia  da fare una analisi, forse un po’ banale, di questi ultimi anni di teologia. Siamo reduci da una stagione molto importante che va dalla fine degli anni trenta agli anni settanta. Ci sarebbe tutto un discorso storiografico da farsi, e se qualcuno di loro lo facesse, sarebbe meraviglioso. Questa stagione  in qualche modo dilava le demonizzazioni e i germi che  il modernismo aveva espresso, tenendo conto che è inutile dispiacersi se molti modernisti sono finiti male, perché, come diceva Manzoni, “i violenti e i soperchiatori non sono rei soltanto del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui inducono gli animi degli offesi”. Se qualcuno si è pervertito, bisogna vedere se qualche intransigente fesso e malvagio, pur ad maiorem Dei gloriam,  non l’abbia indotto a certi atti.

Noi veniamo da questo periodo importante, che è stato contrassegnato da alcune scelte: l’eredità dello spiritualismo cristiano, fondato sul metodo dell’immanenza di Blondel; l’eredità dell’unico neo-tomismo intelligente, che era quello di Marechall, col recupero del concetto di trascendentale kantiano e così via; la riflessione anti scolastica in merito alla distinzione natura-sovranatura; l’eredità della riflessione caselliana ecc.

Questa miscela esplosiva di sollecitazioni ha dato luogo ad una fioritura straordinaria (De Lubac, Ranher, Schillebeechk, von Balthasar ecc.), caratterizzata dalla ricerca, che apparteneva allo spiritualismo cristiano, di una  riconciliazione con pensiero moderno. Tale riconciliazione era ancora pensata col modello di una utilizzazione delle  filosofie moderne come momento della pre-comprensione.

Che cosa è successo in questi anni? I paradigmi maturati hanno dimostrato tutta la loro ricchezza e, a causa dell’isomorfismo sintattico di cui parlavo prima,  la loro debolezza. Si sono in genere tutti ribaltati, generando la tesi e l’antitesi al loro interno.

Basti pensare alla Theologie nouvelle, che nasce  per una univocazione di natura e sovranatura: ogni qual volta riconosci la natura, quella è già sovranatura;  quindi  se si vuole neo-pelagianesimo, massima secolarizzazione ecc. E’ bastato un battito d’ali per ribaltare la faccenda: se soltanto la sovranatura genera la natura, dove non c’è la fede, dove non c’è Cristo, non c’è neanche la natura; quindi massimo integrismo. Ma questo cos’è se non neo-giansenismo?

Lo stesso vale per  dimensione sacramentale. L’avere detto che la Chiesa era sacramento, anziché corpo mistico; l’aver voluto ricondurre tutto  al principio dell’arbitrarietà del segno, dacché la dimensione semantica, pure efficace,  era più lieve rispetto alla fondazione ontologica, ha prodotto una utilizzazione di quelle problematiche in chiave progressiva, che adesso stanno, invece, ritornando in chiave sempre più coartante: un sistema sacramentale che coinvolge tutto, dalla natura inanimata al resto. Poi completa.. li clou finale .. Badate che il clou finale diventano gli atti di culto, che è un po’ la montagna che partorisce il topolino, rispetto all’atto finale  che dovrebbe essere.... Cristo non è sacramento, sei costretto a renderlo sacramento, ma allora, siccome vale il principio della transitività del segno (se A è segno di B e B è segno di C, puoi usare indifferentemente A o B per indicare C), succede che  poiché la Chiesa è sacramento di Cristo, Cristo è sacramento di Dio, alla fine viene fuori la surrogabilità di Cristo con la  Chiesa. Se tutto si iscrive nell’ordine dei significanti, i significanti sono transitivi, c’è l’equipollenza  dei significanti, se no non sono più significanti e qui siamo di nuovo alla crisi..

L’altra crisi è legata al discorso che ho fatto prima di tutto questo pastrocchio di teologie pseudociali, pacifiste ecc. dove lo schema è sempre quello, un sillogismo. La maggiore del sillogismo dice il valore X (pace, solidarietà, lavoro, ecc.) inerisce alla natura integra dell’uomo, sulla base del fatto che l’uomo è fatto ad immagine di Dio; la minore  del sillogismo dice che la storia umana dimostra che questo valore è trasgredito, ma siccome appartiene alla natura integra, quindi all’essenza stessa dell’uomo, ecco che l’uomo è diviso da se stesso e quindi incamminato necessariamente in una cultura di morte. La conclusione è: ma Gesù Cristo è il realizzatore della verità originaria  della creazione e quindi Lui diventa il rivelatore dell’uomo all’uomo... Dopo l’ascesa al cielo spetta ai successori,  e quindi alla Chiesa, rivelare l’uomo all’uomo ecc. Il rischio di un paradigma di questo tipo è  che alcuni movimenti, come CL, l’hanno formalizzato; l’hanno  formalizzato con citazioni papali, sì da coinvolgere anche la cattedra di Pietro in queste scempiaggini.

 

Umberto Neri

Una ulteiorità rispetto al Cristo. Il Cristo è garante dei valori; e vale in quanto garante dei valori, invece della signoria di Cristo come ultimo orizzonte..

 

Edoardo:

Si, perché quello che loro dicono è la riduzione di Cristo a fatto Cristo. Quello che noi confessiamo è la verità dell’evento, la verità escatologica, fuori dal tempo. Invece, avendolo loro ricondotto Cristo  a puro fatto, come fatto nasce e perisce. L’alternativa allora è questa, teorizzata da Giussani: o quel fatto è finito e ne resta la memoria nella parola, ma questo sarebbe protestantesimo, oppure quel fatto continua e continua nei cristiani. La Chiesa ha una funzione cristopoietica. E’ tremendo. Sono quelle cose che purtroppo un po’ per le disattenzioni teologiche, un po’ per l’ostilità contro la teologia dell’attuale pontificato, sono passate a delle correnti ecclesiali. Per fortuna nessuno legge..

 

Umberto Neri

Sono posizioni molto più diffuse di quanto possa sembrare, arrivano fino a programmazioni catechistiche..

 

Edoardo:

Questi sono i nodi gravi. Se dovesse rimanere la situazione così come è oggi, se queste imprecisioni - che sono sempre infinitesime, ma noi non dobbiamo temere gli errori grossolani, quelli cadono da sé, la cosa peggiore è l’errore infinitesimo, che può essere micidiale - dovessero restare ( pasticci nei sacramentaria, le aberrazioni in theologie nouvelle, e poi questa faccenda dello Spirito che non guida la verità tutta intera, ma la realtà tutta intera)  è evidente il rischio gravissimo per la Chiesa.

 

 

Carbone:

Genesi 1,26 è il testo più citato nei documenti di questo pontificato..

 

Edoardo:

E’ sempre quello. Perché? Perché l’operazione è politica. I vecchi pontefici, di venerata o non venerata memoria,  avevano un’ottima endiadi: le leggi (diritti) di natura e le leggi del Vangelo. Era messa la Natura e la Rivelazione. Tutto veniva fondato su questo doppio registro: se si trattava di legislazione civile,  era diritto di natura; se erano questioni di carattere ecclesiale era il Vangelo. Era un gioco saggio. Adesso di natura è difficile parlare, è una categoria un po’ in disuso, se non recuperandola  attraverso l’ecologismo, ma sono quelle sineddoche che non funzionano e allora ecco la categoria della creazione. La creazione si pone come qualcosa che precede l’elezione  di Israele, quindi appartiene a tutto il genere umano. Questa potrebbe essere la ragione per cui viene sempre citato Gen. 1,26, piuttosto che qualche testo più significativo della rivelazione successiva. Gen. 1,26 potrebbe avere la valenza di essere intermedio tra il diritto di natura (che tuttavia dovrebbe essere fondato ontologicamente e di questo non si parla) e la rivelazione, che, però, non è accettata da tutti e quindi la legislazione statale non deve riguardarla.. E’ una questione delicata, non si può risolvere con una battuta. Anche Gesù, quando risponde sulla questione del divorzio, si richiama a Gen. 1,26 “in principio..” come a un qualcosa che impegna dall’origine, all’interno di una visione creazionale. Il fatto è che poi l’elemento della creazione viene così riempito di ogni cosa... Qui c’è il veleno della theologie nouvelle...

Si usa uno splendido testo  della Lettera di Marcellino di S.Agostino, che dice. Invece, tutt’altro: “Hoc agit spiritus gratiae ut imaginem Dei in qua naturaliter facti sumus instauret in nobis”. Molti dicevano: vedete che l’ordine naturale comprende l’immagine di Dio. Ma attenti, il discorso di Agostino non si capisce da questa semplice citazione, ma si capisce benissimo se uno legge per intero quest’opera. Il concetto di Agostino è questo: ci fu l’ordine della creazione nella quale noi, per natura siamo stati creati ad immagine di Dio. Ma lo Spirito della grazia opera in questo, che quell’immagine circondante, circoscrivente l’uomo, si è invece instaurata in noi. E’ un rovesciamento topologico: non è l’uomo che appartiene a questa immagine di Dio, ma è Dio che si fa interno all’uomo. Tutta la Lettera a Marcellino è giocata su questa infinita differenza. Utilizzare quella frase per dire l’opposto ricorda un po’ quell’altra operazione per cui Gesù è venuto per ristabilire l’ordine della creazione.

In questo tempo la teologia è un po’ alla macchia, non si vedono correnti nuove, ci sono queste sciocchezzuole  dell’ecologismo, oltre l’antropologismo.. C’è, invece, un gran lavoro nella parte esegetica, biblica, ma lo seguo meno, anzi non lo seguo affatto.



[1] Trascrizione della conversazione. I paragrafi sono redazionali.

[2] G.Pascoli, Conti di Castelvecchio, Rizzoli, Milano,  1983, prefazione pag. 57

[3] H. Blumenberg,  Arbeit am Mythos, Frankfurt/M.1979; trad. It., Bologna 1991

[4] G. Pascoli, Fides, in Myricae

[5] G.Bernanos, Journal d’un Curé de Campagne, trad. Ita. Milano 1946, pag. 37

[6]  K.Barth, La resurrezione dei morti, Marietti, Genova, 1984; titolo originale Die Auferstehung der Toten, Zurig, 1953

[7]  G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, in Canti

[8] V. Vitiello,  Topologia del moderno, Marietti, Genova, 1992

[9]  S. Weil, L0mbra e la grazia, Rusconi, Milano, 1991 pag. 174