per una lettura di

FUNZIONI E ORDINAMENTO DELLO STATO MODERNO [1]

Premessa 

Manca ancora una edizione critica di questo testo fondamentale[2]. Cosa  intendo per ricostruzione critica? Le letture, le discussioni, i filoni culturali che stanno alle spalle di questo intervento straordinario. I resoconti della reazioni che avvennero subito dopo la lettura sono emblematici: creò sconcerto, polemica. Questa ricostruzione filologica è preliminare. Io non sono in grado, oggi,  di fare questa lavoro, insieme a voi mi limiterò a guardare questo testo come una mappa di problemi, nella speranza che la profondità delle cose messe in campo spinga poi ad una ricerca più sostanziosa.

D’altra parte senza appropriarsi delle domande che questo testo pone, è difficile anche una ricostruzione filologica dei suoi itinerari di formazione.

Vorrei dire, prima di aprire il discorso, che un’altra indagine andrebbe fatta, di grande importanza, l’indagine circa il silenzio che accompagnò questo testo nella cultura politica e giuridica  dell’Italia repubblicana. Quando lo presi in mano dai fascicoli di Justitia, era ancora allo stato grezzo di una  trascrizione improvvisata, con errori grossolani, come quello sulle “piramidi” di titolo ecc. e la citazione sbagliata della Lettera ai romani, che sono state corrette nella versione  prodotta degli Scritti politici , che ho curato per Marietti. Tale trascuratezza  non è stata risolta nè  dalla ristampa del fascicolo, sempre della rivista Justitia , e neppure nella silloge degli interventi curata dalla casa editrice Cinque Lune[3]. Ricordo queste cose non come meri incidenti editoriali, ma per sottolineare il carattere “dimenticato” di questo scritto. Io dico: rimosso, perché c’è un qualcosa di più di un lasciar perdere, mi pare quasi un nascondere. Atteggiamento questo tipico nella vicenda della ricezione di Dossetti nella cultura italiana,[4] quasi che al carattere dirompente delle sue riflessioni corrispondesse un gesto di difesa, una volontà di oblio. Ma su questo sono già tornato in precedenti discussioni e non vi insisto.[5]

Entriamo dunque in questo scritto del 1951; siamo a novembre, quando ormai Dossetti ha già deciso di abbandonare la vita politica attiva, dopo i famosi convegni di Rossena, e quello in agosto, a Camaldoli, dell’UCIIM. Questa decisione è già in questo testo. E’ una decisione che in parte si spiega con l’enorme lucidità teorica di questa pagine e della frattura drammatica e irrimediabile, che qui si espone, tra l’altezza dei problemi in gioco e la modestia della pratica politica.

 

lo Stato moderno

 

Stato e Partito sono i grandi temi della riflessione politica di Giuseppe Dossetti. Stato e Partito sono anche i grandi temi della riflessione politica del’ ‘900. Partito di massa, organizzazione del conflitto sociale, Stato. Dopo la prima guerra mondiale finisce il “mondo di ieri”, la belle époque liberale. Anche nell’età liberale lo Stato aveva avuto un ruolo determinante  nei processi di accumulazione capitalistica, di industrializzazione, di costruzione sociale dei mercati. Ma era uno Stato monoclasse, era lo Stato di notabili, con un suffragio ristretto e una società disgregata. La società era appunto società civile, dinamica e convulsa moltitudine di individui.

L’invenzione del partito politico moderno da parte del Movimento Operaio cambia non solo la natura del conflitto sociale, ma avvia radicali processi di riforma istituzionale. La crisi della prima guerra mondiale segna una cesura profonda: come governare politicamente il conflitto? Come parlamentarizzarlo, si chiedeva inquieto  Max Weber?

In Italia la crisi precipita nella dittatura: il passaggio dallo Stato liberale allo Stato democratico di massa fondato sui grandi partiti di popolo dovette attraversare l’esperienza del fascismo. Nel mondo la crisi del 1929,  il New Deal, la rivoluzione d’ottobre e la pianificazione sovietica aprivano una straordinaria stagione di creatività politica. Dall’economia politica si passava alla politica economica. Lo sviluppo capitalistico aveva bisogno per sopravvivere alle sue contraddizioni di  un governo politico. Keynes schiudeva nuove orizzonti all’economia, mentre veniva modificandosi radicalmente il ruolo dello Stato.

Alla fine del secondo conflitto mondiale Stato e Partito moderno sono i protagonisti di un nuovo ciclo politico. E’ al suo interno che si collocano le riflessioni di Dossetti, riassunte  nello saggio Funzioni e ordinamento dello Stato moderno , che può essere consi­derato il testamento della sua breve vicenda politica.

*

 

Il punto di partenza delle riflessioni di Dossetti è un cam­biamento prospettico dell'interpretazione delle funzioni dello Stato. Lo Stato moderno nasce dal problema della li­bertà, mentre quello classico era sorto intorno al problema della felicità, due approcci radicalmente diversi ai fini dello Stato. Ciò che divide  profondamente le due concezioni è proprio il ruolo dello Stato: se per la prima esso deve limitarsi a garantire la libertà in una società di indivi­dui; per la seconda c'è un imprescindibile  impegno sociale dello Stato che ne fondava il senso. Il bene comune non può essere conseguito attraverso una mera garanzia di libertà per la società civile; esso deve essere una scelta consape­vole dello Stato stesso.

La distinzione tra libertà e felicità è il varco attraverso cui Dossetti si immerge nell’analisi dello Stato moderno e della sua crisi, quale si era compiutamente dispiegata nell’ultimo ventennio.  Tale crisi più che l’esito patologico di un organismo sostanzialmente sano, appariva come il risultato conseguente della sua impostazione originaria.

Cosa caratterizzava infatti lo Stato moderno? Innanzitutto la sua  assenza di finalità. Lo Stato e l'ordinamento giuridico moderno si presentavano privi di scopo, il che poi voleva dire concretamente che lo scopo o coincideva con i molteplici e infiniti scopi individuali dei singoli compo­nenti della società civile, o che lo Stato diventata scopo a se stesso. Liberalismo e totalitarismo erano parte di un'u­nica vicenda proprio perché facevano astrazione dalla con­cretezza della società. Tra Stato e individui c'era un vuo­to.

Era proprio questo il secondo carattere dello Stato mo­derno: il disconoscimento della società, dei corpi interme­di, della famiglia, delle associazioni, della Chiesa e quin­di, alla fine, degli individui stessi. L'universalità della legge si basava sull'astrazione della società. A non essere compresa era la natura complessa della società che solo consentiva di intravedere la finalità dello Stato e, quindi,  il suo essere strumento non solo di garanzia formale della libertà di competere ma di realizza­zione del bene comune. Era, per altro, una astrazione imper­fetta. Dossetti faceva notare  che c'era un diritto e una società particolare di fronte a cui lo Stato moderno s'era da sempre inchinato:

 

il diritto della proprietà privata degli strumenti di produzione e della libera iniziativa economica.. Mentre lo Stato ha negato una propria consistenza, per esempio, alla famiglia, alla categoria professionale, in genere a tutte le società intermedie, perché ha negato che esse si fondassero su elementi obiettivi e su leggi fisiche, biolo­giche, psicologiche essenzialmente legate alla natura delle cose, per contro ha sempre professato la naturalità del meccanismo economico, e perciò la immutabilità delle leggi economiche. Questa è stata la sola immutabilità che esso ha veramente riconosciuto, la sola immutabilità legata alla natura u­mana, di fronte alla quale lo Stato moderno ha piegato la sua sovranità.[6]

 

Proprio l'assenza di finalità, la vuota astrazione della sua libertà portava al crescere nello Stato moderno della   im­munità della società economica e del potere economico. L'a­nalisi di Dossetti evidenziava con estrema lucidità le forme attraverso cui si era costruita questa immunità: la preva­lenza del contratto sulla legge e il riconoscimento ai pri­vati di un potere di generare  ad libitum nuovi soggetti di diritto. Lo Stato moderno si muoveva così drammaticamente tra due astrazioni contrapposte: l'astrazione dello Stato come sola figura etica rispetto al "particulare" della so­cietà civile e l'astrazione dell'economia come  potere sciolto dalla sovranità dello Stato. Ciò aveva effetti dirompenti su due versanti: quello della sintesi politica e quello della rappresentanza. La prima era nella sostanza impossibile:

 

Col liberalismo.. gli organi costituzionali dello Stato - per lo più a si­stema parlamentare - hanno lasciato alle diverse forze sociali di aggiustarsi da sole in una pace instabile e minata, imposta dal più forte al più debole.[7]

 

La seconda si era di fatto ridotta ad essere rappresentanza di fatto di una sola parte:

 

Stato rappresentativo, nella sostanza, della sola borghesia, anche senza bisogno di ricorrere alla diagnosi che ne farà cinquant'anni dopo Carlo Marx. E tale, nella sostanza, è rimasto questo Stato rappresentativo soltanto del terzo Stato, anche dopo decenni, quando si arrivò al suffragio univer­sale. E' rimasto tale non foss'altro che per la prevalenza che sulla forma del meccanismo rappresen­tativo ha finora esercitato l'unico potere immune, anzi predominante, sull'ordinamento giuridico: il potere, come si è detto,  della società economica, della organizzazione dei detentori dello strumen­to di produzione.[8]

 

Dossetti recuperava aspetti non marginali della critica di Marx allo Stato borghese, che si era ridotto ad essere una sorta di "comitato d'affari" delle forze economiche capita­listiche. Solo che mentre per Marx questa  era conseguenza necessaria dello sviluppo della lotta delle classi che si sarebbe risolto con la fine dello Stato; per Dossetti, inve­ce, ciò era il risultato di quella drastica riduzione dei fini dello Stato, connesso ai fondamenti liberali della sua modernità. Lo smarrimento del primato della società e del fine dello Stato non a caso aveva prodotto   la mancanza di una pubblicità responsabile, che portava ad un necessario trasformismo:

 

in effetti il sistema di governo parlamentare opera, almeno sino alla guerra mondiale, attraverso il giuoco di gruppi se­miinstabili, non differenziati da  precise distinzioni ideologiche o programmatiche, per lo più te­nuti insieme da legami o da interessi non dichiarati (rapporti personali, di clientela, di sette, eccetera) destinati a scomporsi o a ricomporsi per altri legami volta a volta non dichiarati e spes­so assolutamente  imprevedibili. Il sistema di governo parlamentare opera cioè  sostanzialmente  at­traverso un meccanismo ancora oligarchico, non espresso, non controllabile, e perciò non responsabi­le di fronte a vaste ed organiche parti delle masse elettorali.[9]

 

 il partito

 

  “Vaste e organiche parti” , dice Dossetti, cioè  il problema fondamentale del partito: partito popolare di massa, con precise distinzioni ideologiche e programmatiche, portatore di un progetto di società. Il partito politico era lo strumento principe perché la politica si trasformasse in una competizione organizzata e consapevole, perché la politica potesse porre il suo primato sui problemi del governo dello sviluppo. Ma proprio per questo diventava fondamentale il problema dello Stato.

 

*

 

Dossetti ha dinanzi a sé lo scenario di una società  cresciuta attraverso  l'allargamento del suffragio, l'orga­nizzazione dei grandi partiti di massa, il movimento sinda­cale; una società che si ritrovava, per così dire, "senza Stato", o con uno Stato residuale, sia sul versante della rappresentanza che su quello dell'organizzazione: 

 

Da molti anni è  ben chiaro che si tratta di una crisi del sistema costituzionale nel suo insieme, perché esso è  strutturalmente legato a un suffragio ristretto, o a un suffragio formalmente allar­gato, ma non sostanzialmente operante attraverso gruppi politici vasti e stabili, cioè  differenzia­ti per ideologie, programmi e interessi, e tendenti alla formazione di una opinione cosciente e alla guida di una presenza e partecipazione continua di larghe masse popolari nella vita statale. E' cri­si inoltre del sistema costituzionale perché questo sistema è stato strutturalmente predisposto sul­la premessa di un contrappeso reciproco dei poteri e quindi di un funzionamento complesso, lento e raro, come quello di uno Stato che non avesse da compiere che pochi e infrequenti atti sia normativi che esecutivi, perché non tenuto ad adempiere un'azione di mediazione delle forze sociali esistenti e in contesa tra loro, e tanto meno tenuto ad adempiere un'azione continua di reformatio, di propul­sione del corpo sociale.[10]

 

Le considerazioni di Dossetti partivano dalla percezione dei mutamenti profondi che avevano investito le strutture dello Stato e il suo stesso ordinamento giuridico. Dopo la crisi del '29 si era entrati in una fase  di sperimentazione di nuovi rapporti tra Stato ed economia, tra Stato e società. Il New Deal di Roosevelt e i piani quinquennali sovietici, Keynes e Beveridge indicavano lo schiudersi di un'epoca nuo­va. Il parlamentarismo ottocentesco, il mito dello "Stato minimo", che si limitava a garantire le regole del gioco era ormai un ricordo del passato. Era cresciuta una  responsabi­lità sociale dello Stato, tanto più irrinunciabile per chi vedeva come compito della politica la realizzazione del bene comune. Dossetti analizzava alcune di queste trasformazioni.

Innanzitutto era enormemente cresciuta la mondializzazione dell'economia, che aveva moltiplicato le imprese internazio­nali  nei settori strategici dell'industria. D'altra parte tra le due guerre mondiali era emerso con chiarezza il pro­gressivo deperimento dello Stato nazione e della dimensione di "popolo". Il mondo bipolare, lo scontro tra i grandi im­perialismi avevano prodotto inoltre una internazionalizza­zione delle classi. Ma trasformazioni non meno significative erano intervenute nello stesso ordinamento giuridico e nell'opinione pubblica. Il concetto stesso di proprietà pri­vata, questo dogma dello Stato liberale, aveva perso la sua aurea di sacralità. Dossetti citava lord Beveridge: "Qualcu­no come Beveridge perviene a non comprendere nell'elenco delle libertà fondamentali del cittadino (libertà personale, di religione e di culto, di opinione, di associazione) la proprietà dei mezzi di produzione".

La proprietà privata, quella non legata all'uso e alla per­sona, era diventata quasi un impaccio allo sviluppo dell'e­conomia e dei nuovi rapporti sociali.

Il diritto alla proprietà privata era sempre stato ribadito dal magistero ecclesiale. Alla fine degli anni trenta e so­prattutto negli anni quaranta si era fatto sempre più strin­gente il riferimento di tale diritto alla persona. Ciò  de­lineava in modo netto anche i limiti di tale diritto, in quanto lo concretizzava attraverso una duplice responsabi­lità: quella dell'uso personale e quello della sua dimensio­ne societaria. Dall'individualismo proprietario si doveva passare all'essenziale responsabilità sociale della pro­prietà. Questa particolare accezione del diritto di pro­prietà privata (assai diffusa nei programmi della Democrazia Cristiana e nel dibattito alla Costituente) si incontrava  in una  particolare congiuntura storica per cui essa cessava di essere il mitico motore dello sviluppo. La crescente so­cializzazione dell'economia, il ruolo di regolatore sociale dello sviluppo assunto dallo Stato avevano ridimensionato l'ossessione ideologica del diritto di proprietà privata. Nel contesto di uno sviluppo sociale consapevolmente orien­tato dallo Stato, la proprietà privata tornava ad essere e­spressione della libertà della persona, ad esaltare cioè più il suo "valore d'uso" che il suo  " valore di scambio". Gli stessi meccanismi del mercato regolato gli avevano tolto quell'aura demiurgica con cui continuava ad essere guardata da parte liberale che faceva coincidere l'individualismo proprietario con l'essenza della natura umana.

 

  il nuovo Stato

 

Dossetti delineava il profilo del nuovo Stato che nasceva sulle macerie di quello liberale. Esso si caratterizzava in­nanzitutto per un esplicito finalismo. La reazione contro lo Stato totalitario non doveva, per Dossetti, portare a temere o a guardare con sospetto alcune funzioni essenziali del nuovo Stato:

 

il fine dello Stato non può essere determinato dallo Stato stesso, bisogna però anche riaffermare che lo Stato non può essere agnostico e limitarsi a garantire il meccanismo delle libertà individua­li e assumere gli  infiniti fini individuali  come proprio fine.. Occorre quindi che non ci si accon­tenti di un finalismo statale generico, astratto, indeterminato, episodico, sollecitato dallo stimo­lo delle esigenze quando queste assumono un grado supremo di asprezza; ma occorre che alla base del patto politico, all'inizio di ogni azione, di ogni periodo dell'azione statale, si fissi una scelta fondamentale - un grado, una tappa del compito storico - e intorno ad essa si organizzi tutto il re­    sto dell'azione statale per quel determinato periodo.[11]

 

Riconquistare questo esplicito finalismo dello Stato era in­dispensabile per "porre fine all'extraterritorialità e all'immunità della società economica e al predominio del  potere economico sull'ordinamento giuridico".

Lo Stato non creava certo gli uomini e non creava neppure la società, ma faceva la società:

 

Data una società con alcune forme primigenie o storicamente cristallizzate, ma che rappresentano or­mai un qualcosa di informe rispetto a quello che dovrebbe essere in quel determinato momento storico il compito concreto dell'azione statale, lo Stato deve fare la società, traendo il corpo sociale dall'informe. Accettare questo corpo sociale in alcune realtà incomprimibili, che sono quelle prima dette, ma poi reformare quelle e le altre. Questo richiede un'analisi sociologica che si ponga, in una determinata situazione storica, con una spietata sincerità, con uno smascheramento di tutte le ipocrisie, di tutti i luoghi comuni usati anche in buona fede per la tranquillizzazione della nostra coscienza. L'analisi sociologica che deve essere assunta a base di questa scelta deve essere vera­mente uno di quei momenti supremi di verità in cui si adempie il nostro dovere cristiano. Solo a questo patto si può, allora, assicurare la genuinità del potere politico, altrimenti si potrebbe di­re che questo regna, ma non governa.[12]

 

E' questo un passaggio fondamentale dell'intera proposta dossettiana. Riconoscere il finalismo dello Stato voleva di­re progettare consapevolmente la  riforma sociale. Il rico­noscimento delle società intermedie non doveva tradursi in una adeguazione generica e passiva al dato della società, ma doveva proporsi come interpretazione dinamica, come capacità di ordinare priorità rispetto ad obiettivi concreti.

 

sulla sussidiarietà

 

C'erano qui gli echi di un dibattito alto all'interno della Democra­zia Cristiana sul concetto di interclassismo. Dossetti in­terpretava in modo originale  la dimensione della sussidia­rietà, contrastando un uso distorto e ideologico a cui pote­va portare questo fondamentale insegnamento della dottrina sociale della Chiesa. Si trattava di comprendere bene se la sussidiarietà delineava i confini di un campo o indicava la dinamica interiore di un processo; se era un'arma di difesa di spazi o la linea di un nuovo dinamismo del rapporto tra società ed istituzioni; se essa tendeva a confinare lo Stato dalla società  o intendeva farne uno strumento di crescita sociale e civile.

La sussidiarietà aveva un suo senso solo se era connessa ad un progetto di società e di cittadinanza. Non un rispecchiamento passivo, ma, appunto un "fare la so­cietà". Solo questo fare la società avrebbe consentito al nuovo Stato di ritornare ad essere artefice di sintesi poli­tica. La riflessione dossettiana si presentava da questo punto di vista come un ulteriore approfondimento del dibattito che aveva  trovato nella stesura del Codice di Camaldoli uno dei punti più alti di espressione in ambito cattolico. Il Codice aveva reciso “i legami con l’interpretazione statalistica e anticapitalistica del corporativismo”. Rispetto ad una interpretazione tradizionale del principio di sussidiarietà, in chiave  antistatalistica, di pura difesa dei diritti individuali e comunitari contro un potere avverso, il Codice aveva compiuto una interpretazione in senso propositivo: lo Stato, oltre a non appropriarsi di spazi impropri, doveva anche favorire lo spirito di iniziativa di singoli e gruppi sociali nell’affrontare i problemi economici, aprendo nuovi spazi di partecipazione sociale. Da una visione dualistica del rapporto Stato/società si passava ad una teoria dello Stato come autogoverno della società.[13] La riflessione di Dossetti radicalizza questa prospettiva di ricerca. Già nel 1946, alla riunione di Civitas Humana aveva detto a proposito dell’interclassismo:

 

Noi parliamo di interclassismo e non ci accorgiamo che l’interclassismo come possibilità di collaborazione tra le classi intese non nel senso sostanziale e fatale del marxismo, e neppure nel senso proprio e tecnico della nostra dottrina (cioè di categorie preminenti l’attuale ed effettivo status  di lavoratore di ognuno), ma nel senso storico e costringente di divisione da un lato di coloro che oggi pensano ad una valutazione piena della personalità di ogni uomo in quanto affermantisi in una attività socialmente utile (cioè valutazione piena di quello che ogni uomo è e fa)  e dall’altro lato coloro che pensano ad una conservazione di privilegi e di situazioni (cioè di quello che ogni uomo ha), un simile interclassismo è storicamente fallito, non ha niente a che vedere con la sostanza e con i principi del Cristianesimo (anzi se mai ne è la contraddizione piena) e il volerlo rinfrescare sotto la vernice cristiana è un esporre il Cristianesimo a fallire la sua missione e il suo compito rispetto al secolo presente.[14]

 

E' in questo contesto che è possibile leggere in tutto il suo carattere dirompente il concetto di Costituzione. Non esistono Costituzioni eterne, ma progetti storico-concreti legati a periodi determinati, esauriti i quali va rifondato in patto Costituzionale. Per i compiti del nuovo Stato, quelli stabiliti dalla Costituzione, occorre ripensare radi­calmente le strutture:

 

Occorre una struttura altamente autorevole, responsabile, efficiente, e perciò rapida. La struttura dello Stato moderno non è  una struttura autorevole perché nata, come sappiamo, da una finalità fondamentale: quella di contrapporre i poteri nella previsione di un suo raro  e limitato funzionamen­to. Noi siamo di fronte, ormai in maniera radicale, alla fine della struttura parlamentare. Questo si precisa meglio se  analizziamo una serie di determinazioni, per esempio la fine del monopolio le­gislativo delle Assemblee..Il bicameralismo integrale è  legato alla previsione di una contrapposi­zione di poteri e di un difficile e infrequente operare dello Stato. E non parlerei neppure di una Camera tecnica, perché evidentemente si tratta di stabilire un potere di sintesi politica. Le Assem­blee dovrebbero avere poche ma vaste e programmatiche discussioni su alcune direttive fondamentali; tutto il resto andrebbe dislocato ad un Esecutivo che dovrebbe  assumere una parte notevole dei com­piti di scelta normativa che prima spettavano alle Assemblee stesse. Tale Esecutivo non avrebbe al­lora bisogno di complicare il congegno con una Camera tecnica, ma troverebbe  la sua strada naturale e spontanea nel Consiglio dei tecnici di cui un Esecutivo, così investito, dovrebbe naturalmente circondarsi, in conformità, volta a volta, delle singole concrete esigenze.[15]

 

Le proposte di Dossetti si muovevano nella direzione di una trasformazione profonda del rapporto tra Parlamento e esecu­tivo. Un esecutivo politico, eminentemente politico,  che usava una  forte struttura tecnica. Lontanissima da lui l’idea di un governo di tecnici sostenuto da una maggioranza politica. Era la fine della politica, la sua resa incondizionata dinanzi al dominio dell’economia. Ed era lontano da Dossetti il  mito socialista del passaggio nella società del futuro dall’amministrazione degli uomini alla amministrazione delle cose. Emergeva in tutta la sua valenza il problema della  decisione, della decisione competente, responsabile; una de­cisione che non fosse una estenuata mediazione tra spinte contrapposte, ma coerente con un progetto di governo. Il ruolo delle Camere rimaneva fondamentale sulle grandi que­stioni di indirizzo e indispensabile come strumento di con­trollo; ma esse non potevano intralciare i compiti di un e­secutivo responsabile rispetto al Paese delle sue scelte. Questa autorevolezza dell'esecutivo era richiesta proprio dalla forza del progetto, dalla sua essenziale moralità po­litica. Dossetti metteva così a fuoco una sorta di incon­gruenza tra  la prima parte della Costituzione (i principi generali, su cui aveva lavorato la prima sottocommissione) e la seconda parte (la forma di governo, su cui aveva lavora­to  la seconda sottocommissione).

Lo spettacolo che Dossetti aveva sotto gli occhi era davvero deludente: esso portava in una direzione esattamente oppo­sta. La paura del prevalere di questa o quell'altra forza politica, paura che era connessa alla profonda lacerazione internazionale, aveva costruito un intrigo di vincoli para­lizzanti che ponevano il governo in un ruolo marginale di tenuta, di mediazione, quasi mai di proposta; quando poi le proposte emergevano, esse erano sopraffatte dai veti con­trapposti, dagli accordi incessanti che ne svuotavano il senso e l'efficacia. Cos'erano stati, d'altra parte, i go­verni De Gasperi?

 

sul governo politico dello sviluppo

 

Le riflessioni di Dossetti sconvolgevano l'approccio corren­te ai problemi dello Stato, sia da parte laica che da parte cattolica. La distanza dal liberalismo ottocentesco era e­norme, così come quella rispetto al marxismo.

Non c'era in Dossetti alcun mito della statalizzazione o del piano, egli affermava in modo esplicito, come un'evidenza fondamentale, l'autonomia della società rispetto a qualsiasi pretesa onnicomprensiva dello Stato. Famiglia, associazioni, Chiesa mantenevano un diritto originario che doveva essere riconosciuto dall'ordinamento giuridico.

Le riflessioni di Dossetti segnavano tuttavia una distanza assai netta anche verso le concezioni prevalenti nel mondo cattolico. Già nel saggio sul  La famiglia del 1943 egli a­veva scritto:

 

la concezione cattolica dello Stato  insistendo eccessivamente  sulla funzione ministeriale o meramente strumentale del temporale rispetto allo spirituale, non si avviò che molto tardi - troppo tardi - ad un deciso riconoscimento della dignità di fine (sia pura infravalente) spettante al bene comune naturale: e in questo ritardo sta forse il motivo o per lo meno il pretesto di molte incomprensioni e opposizioni moderne.[16]

 

Cosa voleva dire riconoscere la dignità di fine? Le incer­tezze del mondo cattolico erano forti; prevaleva una preoc­cupazione fondamentale:  il timore dello Stato. Più che in­dicare compiti l'atteggiamento più diffuso sembrava quello di porre degli argini. Il rischio era così quello di accet­tare lo Stato liberale, lo " Stato minimo", che per sua na­tura era estraneo ad ogni finalismo. Era l' horror statualis di cui Dossetti aveva parlato al Convegno dell'UCIIM.[17] Biso­gnava superare  questa diffidenza subalterna, non già per accettare lo Stato così come era, ma proponendo una grande sfida sul piano storico: attrezzarlo per la realizzazione del bene comune.

Lo Stato non creava, ma faceva la società, cioè la ricompo­neva secondo un progetto storico concreto. Data  questa evo­luzione dell'economia, del diritto, delle istituzioni biso­gnava orientarsi a  questa realizzazione del bene comune con strumenti adeguati allo scopo.

 

L'intervento statale non solo non è operante, ma è  addirittura controperante, se è fatto al di fuo­ri di un piano che abbracci, per un certo periodo di tempo, quelli che debbono essere l'azione dello Stato e il compito storico concreto che si specifica per un determinato periodo.[18]

 

Non c'è in Dossetti alcuna retorica costituzionale, fu il primo a proporre una revisione della Costituzione. Essa e­sprime un progetto determinato nello spazio e nel tempo: un patto politico e insieme un patto sociale.

Ritorna incessante in Dossetti il tema della riforma sociale che è accompagnata e sollecitata da una riforma politica. Il         finalismo dello Stato è possibile solo superando il predomi­nio della società economica nello Stato e nella società. La società economica non coincide con la società, ne è una par­te che va anch'essa relazionata e orientata al bene comune. La proprietà privata non era né un dogma né uno spettro, era uno strumento che doveva dare ragione di sé. La critica stringente all'assoluto dell'economia e del mercato veniva da quella centralità della persona che era il cuore del re­cente magistero. Solo che non bastava proclamarne il prima­to; compito dei laici credenti era dare figura politica a tale primato, renderlo un criterio di lettura, di analisi, di costruzione. A partire da una competenza profonda dei processi in corso. Nessun astratto utopismo e nessuna impo­tente omelia, ma anche nessuna resa al presente. Dossetti viveva in una congiuntura eccezionale e aveva senso, per lui, stare in politica solo se si era in grado di inventare, se la politica assumeva il tono della creatività spirituale rispetto ai problemi dell'epoca.

 

per concludere

 

Possiamo chiederci oggi cosa rimane di questa esperienza politica. Verrebbe da dire: niente. Oggi assistiamo alla crisi verticale dei grandi protagonisti della storia del ‘900: lo Stato e il partito politico. Lo aveva già intuito Dossetti nel 1951: i processi di mondializzazione  comportavano il deperimento dello Stato, della sua sovranità, della sua territorialità, della sua autorità. Lo stesso vale per il partito politico di massa[19]. Oggi i partiti sono diventati delle grandi macchine elettorali ( una sorta di regressione al notabilato ottocentesco); al popolo si è sostituita la gente. Il sondaggio elettorale, che misura gli umori di individui teledipendenti, tende a orientare l’azione politica. Oggi, soprattutto non c’è conflitto tra progetti alternativi di società. Al partito di popolo si è sostituito il partito degli amministratori. Non Stato ma governo. Oggi è l’economia a dominare la politica interna e internazionale. I governi assomigliano sempre più a consigli di amministrazione di una grande azienda, mentre l’ossessione per la contabilità nazionale ha sostituito qualsiasi  pensare politicamente la  fase del tempo storico in cui viviamo. E tutto ciò accade mentre si accumulano in una società depressa ed opulenta drammatici problemi sociali.

Non per questo la  lezione di Dossetti non ha più nulla da dirci. Riscoprire le ragioni della politica in una fase di suo grande declino[20], vuol dire ritornare ai suoi grandi problemi, quello dello Stato e quello del partito, oltre, certo,

le  situazioni e le soluzioni  in cui egli li pensò.

Verrebbe da dire: è possibile pensare una politica oltre lo Stato e il partito moderno di massa? E ancora: dove si colloca oggi il concetto di decisione sovrana? E’ una domanda che ci avrebbe aiutato a porci Mario Tronti. la politica moderna nasce come grande conflitto contro la storia, ne scandisce il tempo interiore. Non a caso forse oggi noi viviamo il paradosso di una storia senza tempo. Attraversare questo paradosso sarà il compito dei prossimi anni.



[1]E’ il resoconto stenografico della relazione di Giuseppe Dossetti  al III Convegno Nazionale di Studio dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, tenuto a Roma  il 12-14 novembre 1951 sul tema :Funzioni e ordinamento dello Stato moderno. Tale resoconto fu pubblicato prima nel fascicolo n.8-12 del 1952 della rivista <<Justitia>> ( pag. 233- 440), poi nel secondo de Quaderni di <<Justitia>>, Studium, Roma 1953 (ristampato nel 1951); infine, insieme alle altre relazioni del Convegno in  A.A.V.V.  I problemi dello Stato, ed. Cinque Lune, Roma, 1977, con una prefazione di Claudio Vasale. Ora in G. Dossetti, Scritti politici, ( a cura di  G.Trotta), Marietti, Genova, 1995, pag. 346-375)

[2] Ci sta lavorando da tempo il èprofessor Enzo Balboni

[3]  A.V., I problemi dello Stato, Cinque Lune, Roma, 1977

[4]  Il suo intervento decisivo  sul Concilio allora appena concluso è stato pubblicato finalmente dal Mulino con trenta anni di ritardo cfr., G. Dossetti, Concilio vaticano II,  Il Mulino, 1997

[5]  G. Trotta, Giuseppe Dossetti. Una rivoluzione nello Stato, Camunia, Firenze, 1996; G. Trotta,  Un passato a venire. Saggi su Sturzo e Dossetti, Cens, Milano, 1997; G. Trotta, Nota redazionale in G. Dossetti, Scritti politici, Marietti, Genova, 1995

[6] G. Dossetti,  Funzioni e ordinamento dello Stato moderno, in  Scritti politici, op. cit. pag. 352

[7] ibidem pag. 355

[8] ibidem pag. 355

[9] ibidem pag. 357

[10] G. Dossetti,  Funzioni e ordinamento dello Stato moderno, cit.  pag. 357

[11] ibidem pag. 363

[12] ibidem pag. 368

[13] A. Magliuolo,  Ezio Vanoni. la giustizia sociale nell’economia di mercato, Studium, Roma, 1991, pag. 54

[14] G. Dossetti,  Relazione al Convegno di Civitas Humana, in Scritti Politici, op. cit. pag. 315

[15] ibidem pag. 373

[16] G.Dossetti,  La famiglia, in Scritti politici, op. cit. pag. 298

[17] G. Dossetti, Problematica sociale del mondo d’oggi ( agosto 1951) ora in G. Dossetti, Scritti politici, Marietti, Genova, 1995

[18] ibidem pag. 367

[19] M.Tronti, La sinistra e il partito nel crollo della politica, in A.V.,  Il destino dei partiti, Ediesse, Roma, 1998

[20] M. Tronti, Il declino della politica, Einaudi, Torino, 1998