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Ritratto di Carlo Cattaneo 

[www.lombardinelmondo.org]


Federico Francioni -- Federalismo a rischio

Siamo di fronte al rischio concreto che si consumi la terza sconfitta storica del federalismo: la prima, com'è noto, venne decretata, a conclusione del processo risorgimentale, dal trionfo della linea liberal-moderata e centralista; la seconda avvenne durante i lavori dell'Assemblea costituente; la terza potrebbe verificarsi con la deriva elettorale del leghismo, approdato alla devolution, cioè ad un'ipotesi di tipo scozzese, dopo aver sostenuto dapprima un programma che di federalista aveva solo il nome, poi l'aperto secessionismo. Non va esclusa inoltre la possibilità di nuovi compromessi che potrebbero far seguito alle soluzioni pasticciate delineatesi durante i lavori della Commissione bicamerale: queste, è opportuno chiarirlo subito, col federalismo (almeno così crediamo) avevano poco o nulla a che fare.

Per imprimere nuovo slancio al dibattito su idee e forme dello Stato federale e sui presupposti teorici del federalismo, si rendono ancora una volta indispensabili, a nostro avviso, alcune precisazioni che si possono ricavare, in primo luogo, dall'abbandono di alcuni luoghi comuni. Definire cosa si intende per federalismo è un'operazione solo apparentemente teorica ed accademica; è anzi un viatico, uno strumento non solo per inoltrarsi in un campo complesso, oggetto di più discipline, ma anche per fare un minimo di chiarezza concettuale in ambito politico.

Il primo federalismo italiano.

Secondo un ostinato stereotipo, il giacobinismo sarebbe equivalente, in blocco, ad un rigido ed autoritario centralismo e costituirebbe dunque una delle posizioni più drasticamente antitetiche al federalismo. Ciò non è vero ed è dimostrato dall'esperienza dei giacobini italiani: lungi dall'essere quei personaggi dottrinari, avulsi dalla viva e concreta realtà storico-sociale, persi dietro a dogmi astratti e a "formole algebriche" (secondo la lettura che della loro prassi diedero Vincenzo Cuoco e Benedetto Croce), essi seppero anzi riflettere lucidamente sulla caduta di Robespierre e sui tratti specifici della situazione italiana.

Conviene a questo punto ricordare che il 6 vendemmiaio dell'anno V (27 settembre 1796), il governo provvisorio dello Stato di Milano, cioè l'Amministrazione generale della Lombardia (dove si erano insediate le truppe napoleoniche), organizzò, forse in base ad un suggerimento dello stesso Bonaparte, un concorso sul tema: "Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia". Un'apposita commissione presieduta da Pietro Verri proclamò vincitore lo scrittore ed economista piacentino Melchiorre Gioia che diede forza alle ragioni dell'unitarismo.
Invece per il vercellese Giovanni Antonio Ranza occorreva stabilire gli "Stati liberi federati d'Italia", ognuno dei quali avrebbe dovuto dotarsi di una Convenzione con l'obiettivo di elaborare un testo costituzionale aderente ai caratteri fisici, politici e 'morali' appartenenti alle diverse aree del paese ed alle popolazioni che le abitavano. Nel disegno del giacobino piemontese venivano individuati, tramite aggiustamenti di confini e passaggi di territori da una repubblica all'altra, undici Stati: nell'elenco, oltre a Sicilia e Sardegna, erano comprese anche Corsica e Malta. Pisa sarebbe diventata la capitale.

Ranza faceva riferimento con una certa cautela alla Svizzera (dove vari cantoni erano dominati "dalla più vergognosa aristocrazia"). Delle Province Unite (che già nel Seicento erano state un modello da seguire per ribelli e riformatori) non gradiva la figura dello Statolder (luogotenente generale), carica diventata ereditaria nel 1747. Non sfuggiva dunque a Ranza il nodo fondamentale dell'incompatibilità fra un sistema federale effettivamente democratico e un istituto di tipo sostanzialmente monarchico (solo nel 1814 però si sarebbe verificata in Olanda l'ascesa al trono di un re ereditario). Pur tenendo conto degli Stati Uniti, egli respingeva l'onnipotenza dei presidenti americani come Gorge Washington, la cui ricchezza, scriveva, era in grado di tarlare "sordamente" l'edificio della democrazia. È evidente al riguardo l'influenza di Robespierre e Saint-Just che respingevano sia il modello inglese (aristocratico e censitario), sia l'esperienza americana, fondata sull'egemonia della proprietà terriera.

Agli occhi dei giacobini d'Oltralpe, il costituzionalismo statunitense era caduto completamente nel discredito dopo l'inizio della rivolta antiparigina, anticentralista, antimontagnarda e federalista, scoppiata dopo l'arresto dei deputati girondini alla Convenzione. Emblematicamente, Trudaine de la Sablière, che nel 1792 aveva tradotto in francese la classica opera The Federalist, or the New Constitution (dovuta ad Alexander Hamilton, James Madison e John Jay), finì i suoi giorni sul patibolo.

Dal suo canto il Ranza respingeva il federalismo francese del 1793 in quanto aggrediva uno Stato già formatosi da secoli, mentre esso in Italia era ancora da costruire; è importante sottolineare che in questo caso la scelta del federalismo non si coniugava col moderatismo, ma con una denuncia ed una critica intransigenti e con un progetto di carattere radicale. Bisogna tuttavia precisare che per il giacobino piemontese la federazione era un tramite per arrivare gradualmente alla soluzione unitaria, la quale, se proposta immediatamente, avrebbe provocato anarchia, spargimento di sangue e guerre fra i popoli; era invece essenziale concentrarsi nella lotta contro i tiranni e le teste coronate. La concezione di Ranza sulla federazione, come momento finalizzato all'obiettivo strategico della Repubblica una e indivisibile, appare dunque in parte strumentale. Intanto, però, risultava nuovo ed originale: sarebbe sbagliato sottovalutarne l'importanza.

Al concorso milanese partecipò anche il comasco Gianmaria Bosisio che, richiamandosi espressamente al Montesquieu dell'Esprit des lois e a Francesco Mario Pagano, scriveva che l'Italia aveva bisogno di un quadro politico-istituzionale in grado di accogliere al suo interno una molteplicità di climi. Egli guardava espressamente ad una prospettiva confederale.

La distinzione fra questa e la federazione era stata già chiarita dai teorici americani. La confederazione impediva il decollo di una politica economica nazionale e il reperimento di fondi per le campagne militari contro le truppe inglesi; il voto di uno Stato poteva bloccare ogni decisione; invece la Repubblica federale offriva la possibilità di una ripartizione dei poteri e delle competenze fra il governo ed i vari Stati. Il passaggio dalla confederazione alla federazione venne attuato, com'è noto, dalla Convenzione di Filadelfia che, trasformatasi in vera e propria Assemblea costituente, scrisse quel testo in base al quale ogni Stato confederato perdeva la totale indipendenza per cedere una quota di sovranità a favore di un organo posto al disopra delle parti (il governo federale).

Fra coloro che risposero all'appello lanciato dall'Amministrazione lombarda va ancora ricordato Giuseppe Fantuzzi di Belluno che propose dieci repubbliche aventi come capitali Torino, Genova, Milano, Firenze, Venezia, Bologna, Roma, Napoli, Palermo, Cagliari, unite da un potere federale cui sarebbe toccata la gestione della politica estera. Una viva sensibilità sociale spingeva Fantuzzi ad affermare che tutti i cittadini dovevano essere, sia pure in misura diversa, possidenti o meglio "usufruttuari" di parti di un'unica proprietà nazionale.

Sul versante di un'opzione prevalentemente confederale si collocarono due francesi, giunti nella penisola al seguito di Napoleone: Pierre Rouher (segretario della commissione amministrativa del Mantovano, che era stato con Filippo Buonarroti ed i patrioti italiani ad Oneglia) e Charles Thérémin, sostenitore di una confederazione più o meno "ristretta", che avrebbe dovuto avere come oggetto esclusivo la politica estera, mentre ad un Tribunale italico sarebbe toccato dirimere le controversie fra le repubbliche(1)

Federazione e confederazione.

Ci siamo dilungati sulla grande eredità del giacobinismo italiano perché, grazie a questo patrimonio politico, l'idea di uno Stato unitario - che da Petrarca a Machiavelli in poi era stato auspicio o mito prevalentemente letterario - divenne progetto cosciente e operativo. Ciò si verificò nel 1794 ad Oneglia (diventata centro d'incontro dei patrioti italiani) per merito di Buonarroti che tuttavia, a causa del legame con Maximilien e Augustin Robespierre, era indubbiamente un centralista. Inoltre nel Settecento vengono affrontati dei nodi teorici, politici e terminologici destinati a riproporsi nel secolo successivo, durante il quale persiste il décalage concettuale di "federazione" su "confederazione".

Vincenzo Gioberti utilizzò espressioni come "unità federativa", "unione federativa" e "concetto federativo", ma allo stesso tempo scriveva:

"[...] il capo essenziale della dottrina guelfa, e per così dire il loro ideale, è la confederazione stabile e il concilio aristocratico degli Stati italiani sotto il dogato (mi si conceda questa voce nostrale, che qui calza a capello) del Pontefice. Idea veramente platonica, italiana dell'origine [...]"(2)

Anche la terminologia, funzionale all'esposizione di una visione moderata, è lontanissima dall'esperienza americana che fu qualificata da Gioberti con parole molto aspre. Per il teorico del neoguelfismo, la Chiesa - la cui vicenda veniva strettamente legata al destino dell'Italia ed alla sua futura indipendenza - era un baluardo per la "sopravvivenza civile sui barbari" e sugli avversari dell'Europa, intesi come "gli uomini infetti dalle due pesti americane, la sovranità popolare e libertà di stampa". Si tratta di una proposizione che impressiona per il riferimento polemico al De la Démocratie en Amérique di Alexis de Tocqueville, opera che però non viene esplicitamente citata(3)

Fin dagli anni del suo primo soggiorno francese, Giuseppe Ferrari considerò le fortunate opere di Gioberti e di Cesare Balbo come profondamente estranee ad un'ispirazione federalista e democratica. In effetti, nel Primato giobertiano è assente perfino il richiamo ad un modello di monarchia costituzionale(4). Non si vede in qual modo le posizioni teorico-politiche di Gioberti e quelle di Antonio Rosmini (favorevole alla monarchia, al suffragio ristretto ed alla confederazione) possano essere considerate interne alla storia del federalismo. 

Per confederazione si intende una pluralità di Stati sovrani aventi piena soggettività, i cui rapporti sono regolati da determinate norme di diritto internazionale, stabilite da un accordo fra gli Stati confederati e volte ad istituire forme di cooperazione per il raggiungimento di obiettivi comuni. Gli organi centrali della confederazione, preposti al coordinamento di certe attività (tra cui la difesa comune degli Stati verso l'esterno ed il mantenimento della pace fra gli stessi enti territoriali) non possono esercitare poteri eccepibili rispetto alle volontà particolari delle realtà statuali aderenti. In definitiva si tratta di una forma di organizzazione delle relazioni internazionali che presenta un alto livello di instabilità(5)

Di recente è stato affermato che federazione e confederazione sono due specie dello stesso genere. Si è sostenuto che il concetto dogmatico di sovranità, inteso come potere originario, illimitato ed assoluto di comando, caratteristico dello Stato, non può essere utilizzato per descrivere il fenomeno storico Stato ed i suoi sottotipi quali Stato regionale, confederazione e federazione. La distinzione fra gli ultimi due ambiti deriverebbe dall'edificio ideologico e concettuale costruito intorno al processo di sviluppo dello Stato moderno europeo. In particolare, i giuristi tedeschi dell'Ottocento avrebbero elaborato una dottrina di carattere monista - la sovranità come qualcosa di unico ed indivisibile - poi artificiosamente sovrapposta all'esperienza americana. 

In effetti, durante la Convenzione di Filadelfia non si sarebbe verificato il passaggio dalla confederazione alla federazione, ma un compromesso fra i federalisti ed i loro avversari. Nell'Ottocento, secondo John C. Calhoun, senatore del South Carolina e teorico della dottrina dei diritti appartenenti ai singoli Stati, i popoli americani dovevano essere considerati, come succedeva all'interno delle grandi società per azioni, dei mandati, mentre il governo federale era un semplice mandatario. Gli Stati, che avevano delegato solo alcuni powers of sovereignty, rimanevano depositari della sovranità nel suo complesso: essi avevano firmato un patto, un contratto, in base al quale avrebbero potuto ribellarsi alle amministrazioni centrali giudicate dispotiche(6)

Tali posizioni sono state riprese di recente e si inseriscono nell'ambito di studi e ricerche che mirano a delegittimare gli esiti dell'ingegneria istituzionale scaturita dalla rivoluzione americana. Nell'ambito di questa operazione, in rapporto alla guerra fra nordisti e sudisti, si è parlato, quasi poeticamente, dei "vinti", senza aggiungere che si trattava dei grandi proprietari delle piantagioni dove veniva utilizzata manodopera schiavile. 

A tali argomentazioni si può contrapporre una tipologia, necessariamente schematica, dei principi costitutivi di un modello federale convenzionale: 

1) ordinamento statuale unitario retto da una costituzione; 

2) separazione dei poteri; 

3) integrazione degli ordinamenti degli Stati membri in quello generale proprio della federazione; 

4) subordinazione degli ordinamenti degli enti territoriali a quello dello Stato federale; 

5) equiordinazione tra gli ordinamenti degli enti politici territoriali; 

6) garanzia costituzionale delle norme relative all'organizzazione federale ed alla ripartizione delle sfere di competenza tra federazione e singoli Stati; 

7) modificabilità della suddivisione delle competenze tramite procedimento riconosciuto ed approvato di revisione; 

8) "immodificabilità" dell'assetto federale; 

9) partecipazione degli enti politici territoriali all'esecuzione delle funzioni della federazione; 

10) soluzione dei conflitti fra questa ed i singoli Stati e fra gli stessi enti territoriali mediante il ricorso ad un organo federale. 

Questi elementi possono intrecciarsi solo con un garantismo ed un pluralismo di tipo democratico e repubblicano, escludendo dunque i sistemi monarchici, le esperienze storiche del socialismo reale, (caratterizzate dal partito unico), il caudillismo, il caciquismo e quelle costituzioni ibero-americane in cui l'articolazione del potere si risolve in forme più o meno spinte di decentramento(7)

Oscuramento del federalismo interno.

Il 29 maggio 1947, parlando all'Assemblea costituente, Emilio Lussu pronunciò un brillante discorso che però fu definito come "l'ultima battaglia federalista in Italia" o anche "il canto del cigno del federalismo italiano". Nell'aula, impegnati nella difesa di istanze analoghe a quelle lussiane, rimasero in pochi: gli azionisti (con alcune defezioni), i sardisti e qualche repubblicano. Lussu aveva ben chiara la distinzione fra i sistemi autonomistici e quelli federalistici. Nell'elaborazione lussiana, che sfiorò appena il nodo di una camera alta, la quale ha il compito di porre su un piano di pari visibilità e dignità la rappresentanza dei singoli Stati federati, mancava inoltre la percezione di un fondamentale elemento di equilibrio fra le competenze degli enti territoriali e quelle del governo centrale: la figura di un capo dello Stato eletto direttamente dal popolo a suffragio universale, garante del potere esecutivo e simbolo dell'unità del paese. 

Era questa invece la prospettiva propria di esponenti dell'azionismo, come Piero Calamandrei e Leo Valiani(8). Nonostante l'atmosfera non gli fosse certo favorevole, Lussu si battè ugualmente con la consueta energia, se non altro col fine di strappare, in subordine, un quadro il più avanzato possibile di Repubblica delle autonomie. Dopo la Costituente, il velo del silenzio calò per decenni sul federalismo interno che aveva subito, dopo il Risorgimento, un'altra storica sconfitta. 

La scena fu occupata allora dal federalismo esterno, sovranazionale, ma soprattutto dall'europeismo del functional approach (mirante all'integrazione capitalistica attraverso la graduale formazione di organismi economici e politici) che si presentava come proposta suscettibile di larghe adesioni da parte di governi e ceti dirigenti intellettuali.

Di recente Paolo Sylos Labini ha scritto che il Manifesto per gli Stati Uniti d'Europa

"[...] è un documento di straordinario valore non solo intellettuale, ma anche politico; esso è all'origine del moderno movimento per l'unità europea, che, dopo tanti sforzi, ha cominciato a compiere i primi passi completi e che ha un molto ambizioso obiettivo politico: quello economico è solo un obiettivo intermedio. Fra l'altro quel documento contiene una critica dura e acuta, ma umanamente non ostile, verso Marx e verso il comunismo in un tempo in cui il comunismo suscitava o adesioni appassionate o odio viscerale. Gli ex comunisti di oggi, che finora non se la sono sentita di compiere una vera e propria autocritica, dovrebbero rileggere il Manifesto di Ventotene"(9)

Sylos Labini tuttavia non specifica che tale documento individua la necessità di una rottura rivoluzionaria che scaturisce da una forte critica del capitalismo. Il lessico adoperato non lascia spazio ad equivoci: "[...] la rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, dovrà proporsi l'emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita". 

Nella stessa Magna Charta del federalismo europeista si delinea con chiarezza il fondamento economico e sociale della futura costruzione politico-istituzionale:

"la proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso [...] Non si possono più lasciare ai privati le imprese che svolgendo un'attività necessariamente monopolistica, sono in condizione di sfruttare la massa dei consumatori. Le caratteristiche, insomma, che hanno avuto in passato il diritto di proprietà e il diritto di successione, hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi privilegiati le ricchezze che converrà distribuire durante una crisi rivoluzionaria in senso egualitario [...] La solidarietà umana verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica non dovrà manifestarsi con le forze caritative, sempre avvilenti e produttrici degli stessi mali alle cui conseguenze cercano di riparare"(10)

Si dovrà necessariamente convenire che, se alla base di questa critica al capitalismo non figura il marxismo, che viene anzi attaccato (così come viene respinta l'esperienza dell'Urss), c'è tuttavia nel Manifesto di Ventotene una buona dose di giacobinismo. Sylos Labini sarebbe disposto oggi a sottoscriverla, in tutto o in piccola parte?

Del resto, i primi ad arricciare il naso o a torcere lo sguardo di fronte alle pagine di tale testo sarebbero proprio gli ex-comunisti che lo stesso Sylos Labini vorrebbe vincolare ad un'esplicita autocritica. Essi però non hanno bisogno di organizzare un'altra Bad Godesberg perché di Marx, da lungo tempo, non sanno proprio che farsene.

È sufficiente pensare al retroterra dello stesso Manifesto ed ai suoi autori: Altiero Spinelli (ex-militante comunista), Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi avevano organizzato nel confino di Ventotene una Mensa Europa (autonoma rispetto agli altri uomini di Giustizia e Libertà, come Riccardo Bauer, Nello Traquandi, Vincenzo Calace e Francesco Fancello), intorno alla quale sedettero i repubblicani Dino Roberto, Arturo Buleghin e Giorgio Braccialarghe, i comunista Attilio Marinato ed altri. 

Colorni, socialista, martire della Resistenza al nazismo, fu il primo editore e propagandista del Manifesto. Di recente è stato focalizzato il ruolo svolto, nell'ideazione e nella scrittura del documento, da Rossi che ebbe il merito, fra l'altro, di far conoscere a Spinelli la letteratura federalista inglese. Di sicuro quest'ultimo, come potrebbe replicare Sylos Labini, giudicò poi certi termini della parte finale del Manifesto come "troppo rozzamente leninisti": in realtà essi scaturivano da una matrice in cui si intrecciavano elementi teorici giacobini, socialisti, gobettiani e giellisti; veniva formulato un abbozzo di strategia politico-organizzativa; la classe operaia e i ceti intellettuali erano indicati come i due gruppi sociali più sensibili al messaggio del federalismo europeo; l'alleanza tra lavoratori, intellettuali ed élite federalista per la formazione di un partito rivoluzionario era considerata il perno decisivo della futura mobilitazione politica. 

Spinelli poi mise da parte l'ispirazione socialista-liberale e portò avanti un'azione realista e spregiudicata per affermare il programma del Movimento federalista europeo (11)

Senza dubbio, uomini di grande levatura intellettuale e morale come Spinelli ed altri convinti europeisti hanno condizionato e limitato lo spazio della ricerca teorica e del dibattito politico sul federalismo interno, rimasto negletto ed in ombra per decenni.

Irriducibilità del leghismo al federalismo democratico.

È triste constatare che il federalismo interno ha ripreso quota grazie alle invettive della Lega, ammantatasi di federalismo, in realtà mossa da logiche discriminatrici e di esclusione. Contro la Lega hanno levato la voce, in prevalenza, coloro che si sono stracciati le vesti facendo retorica sulla minaccia arrecata all'unità nazionale. Con la deriva moderata della sinistra e col tramonto della politica, intorno alla quale ha scritto con passione Mario Tronti, è mancata del tutto una battaglia civile, democratica, incalzante, volta a destrutturare le argomentazioni leghiste, spesso mutuate, senza il necessario vaglio critico, da studiosi che pure avrebbero dovuto disporre di strumenti adeguati per prendere le distanze da certi tòpoi (il Sud come palla al piede dello sviluppo del paese). 

Dal canto loro le forze di sinistra hanno lasciato alla Lega il ruolo di unico partito di massa radicato nel territorio e nella società civile del Nord; hanno assistito quasi imperterrite alla perdita di quote del proprio elettorato a tutto vantaggio del Carroccio il quale, indisturbato, è riuscito a predicare valori antitetici a quelli di cittadinanza, coesione e solidarietà con e tra i soggetti più deboli.

Il federalismo agitato dalla Lega, prima del passaggio di questa formazione ad uno sbracato secessionismo, era piuttosto quella sorta di confederalismo delle tre macroregioni delineato da Gianfranco Miglio, non ancora pervenuto alla rottura con Umberto Bossi. Miglio è ben lungi dal fare riferimento al federalismo americano ed anche a quello tedesco, mentre è tenero verso quello svizzero, da lui considerato però "arrugginito". Egli ha proposto un'assemblea legislativa dell'Unione italiana che dovrebbe essere formata dai parlamentari delle tre Diete o Camere del Cantone padano, di quello centrale (la Tuscia) e di quello mediterraneo o meridionale. L'11 dicembre 1993, ad Assago, Bossi presentò una bozza di Costituzione federale provvisoria in dieci punti, alla cui stesura aveva dato un contributo determinate proprio Miglio. Secondo questo documento, dell'Unione avrebbero dovuto far parte, oltre alle Repubbliche della Padania, dell'Etruria e del Sud, le cinque Regioni a Statuto speciale(12)

Dalle critiche ad Hamilton (che giocò un ruolo determinante nel mettere a punto la costituzione degli Usa) emerge la totale estraneità di Miglio ai fondamenti del federalismo democratico che in Italia, specialmente per merito di Ettore Ciccotti, Arcangelo Ghisleri e Gaetano Salvemini, ha inglobato nella sua visuale la soluzione della questione meridionale. Non ci sembra che l'irriducibilità del leghismo a questo indirizzo sia stata sufficientemente posta in risalto.

Bersagli polemici di Miglio sono diventati inoltre il New Deal e in genere ogni tipo di politica keynesiana o neokeynesiana, volta a promuovere investimenti, ad aumentare l'occupazione, a stimolare la domanda e ad offrire servizi ed infrastrutture per tutte le comunità dello Stato federale. Insomma, fosse dipeso dal liberismo selvaggio dall'autoritarismo di Miglio, l'odierno Welfare State si sarebbe dissolto da un pezzo(13)

Effettivamente, già la prima fase del New Deal segnò una crescita del potere presidenziale. Anche oggi, gli Stati degli Usa, i Cantoni e i Lander subiscono la tendenza ad una progressiva limitazione delle proprie specifiche competenze. D'altra parte il senato Usa ha tuttora una forza ed una capacità di pressione di gran lunga superiori a quelli di ogni altro analogo organismo (si pensi solo alla consistenza dello staff che lavora alle dipendenze di ogni senatore americano): non è dunque quell'istituzione qualificata da Miglio come secondaria ed accessoria. Inoltre, il pendolo è oscillato ora in favore dell'amministrazione centrale, ora dalla parte del Congresso, a seconda dei momenti storici.

Dal suo canto la bicamerale ha ignorato un elemento cardine presente in tutti gli Stati federali: la seconda Camera che in Italia doveva essere trasformata in senato delle regioni; quest'ultimo termine era giustamente considerato infelice, limitato e limitante da Carlo Cattaneo e da Adriano Olivetti; dovrebbe essere eliminato una volta per tutte da una riforma in senso davvero federalista. E pensare che di senato delle regioni si parlava, in chiave semplicemente autonomista, già anni ed anni prima della Bicamerale! Essa ha mantenuto tale e quale il senato come un inutile doppione; allo stesso tempo è stato creato un organismo, denominato Commissione delle autonomie territoriali, con poteri solo consultivi sugli atti delle regioni. Di qui la calzante ed ironica espressione critica ("due camere ed un camerino"), coniata prima della chiusura dei lavori della Bicamerale. Ci limitiamo ancora ad osservare che, ai sensi dell'articolo 59 del testo licenziato dalla bicamerale, le regioni sono state praticamente escluse dalle decisioni in materia di ambiente.

Nella bicamerale è mancata la presenza di forze genuinamente federaliste. Il federalismo democratico, che ha dovuto purtroppo accusare una nuova battuta d'arresto, ha dimostrato di non avere quelle solide radici che nel paese possono essere stabilite solo attraverso il suo inserimento in un più vasto progetto di sviluppo economico-sociale e di radicale riforma della politica, capace di creare un tessuto connettivo nella società civile e di ridimensionare le oligarchie politico-partitiche che mirano esclusivamente all'occupazione dei posti di potere ed all'autoperpetuazione. Ma la possibilità di un tale cambiamento non è certo dietro l'angolo. Inoltre, con la risacca elettorale della Lega, si profila il pericolo che sul federalismo cali di nuovo una coltre di oblio.

Riteniamo tuttavia che la grande lezione proveniente dal federalismo democratico dell'Ottocento e del Novecento ed in particolare le elaborazioni di Lussu, di Silvio Trentin e di Calamandrei, pervase da forti rivendicazioni di giustizia sociale, possano ancora fornire parecchi elementi alla piattaforma teorica di un federalismo nuovo, animato dal rispetto verso ogni minoranza, dall'esigenza di salvaguardare il welfare e da una logica in tutti i sensi perequativa e redistributiva. 

Note:

(1) Cfr. A. Saitta, Alle origini del Risorgimento: i testi di un "celebre" concorso, Roma, 1964, in particolare le pp. 191-193, 195-196, 357-362; A. De Francesco, Il governo senza testa. Movimento democratico e federalismo nella Francia rivoluzionaria, 1789-1795, Napoli, 1992: secondo la tesi del volume, non si può negare un pedigree rivoluzionario ai federalisti francesi di fine Settecento. Allo stesso tempo, sarebbe sbagliato equiparare l'insieme del fronte antiparigino ad un movimento democratico. Nelle rivolte anticentraliste e antimontagnarde sono presenti aspetti reazionari che però non devono farci dimenticare l'humus di democrazia diretta da cui la protesta prese l'avvio. Certamente essa mutuava molto dal paternalismo degli amministratori d'Ancien Régime e dai pregiudizi passatisti delle popolazioni. La Convenzione denunciò i pericoli insiti in pratiche passibili di distruggere le conquiste dell'Ottantanove. Il ritorno in forze della controrivoluzione ed il caso di Tolone pronta ad acclamare il monarca avrebbero dimostrato che la preoccupazione non era certo infondata. Dello stesso De Francesco si veda anche, Rivoluzione e costituzioni. Saggi sul democratismo politico nell'Italia napoleonica 1796-1821, Napoli, 1996, pp. 11-28.

(2) V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, a cura di G. Balsamo-Crivelli, Torino, 1919, pp. 101-106.

(3) A. Agnelli, Filosofia, socialismo e federazione repubblicana in Giuseppe Ferrari, in Il federalismo tra filosofia e politica, a cura di U. Collu, Nuoro-Roma, 1998, p. 412 e 419: il volume comprende inoltre saggi di A. Danese, L. M. Bassani, A. Laganà, F. Bellino, A. Brancaforte, M. Cambula, M. Alcaro, V. Mura, P. Ciaravolo, S. Cavaciuti, G. Centorame, A. Rizzacasa, S. Tagliagambe, A. Delogu, G. Usai, T. Mulas, Z. Ciuffolotti, M. Quaranta, R. Pinto, G. Borrelli, E. Riverso, L. Di Stefano, C. Malandrino, P. Nivola, A. Verri, D. R. Brienza, M. Sacco, P. Addante. Su Ferrari si veda anche il volume di M. Schiattone, Alle origini del federalismo italiano. Giuseppe Ferrari, Bari, 1996.

(4) Z. Ciuffoletti, Federalismo e regionalismo. Da Cattaneo alla Lega, Bari, 1994, p. 31.

(5) A. Contu, Le ragioni del federalismo, Sassari, 1992, p. 29.

(6) L. M. Bassani, Confederazione e federazione. Una falsa opposizione?, in Il federalismo tra filosofia e politica cit., pp. 51 e ss. Lo stesso autore, che è membro della Fondazione per un'Italia federale di Milano, presieduta da Gianfranco Miglio, ha tradotto e presentato il volume di D. J. Elazar, Idee e forme del federalismo, Milano, 1998.

(7) A. Contu, Le ragioni del federalismo cit., pp. 32-33. Nella sua trattazione l'autore si distacca in più punti dallo schema di G. De Vergottini, Stato federale, in Enciclopedia del diritto, vol. XLIII, Milano, 1990.

(8) G. Contu, Il federalismo nella storia del sardismo, Sassari, 1994, p. 26; Id., Concetti indispensabili per l'applicazione del federalismo, nel volume L'ora dei Sardi, a cura di S. Cubeddu, Cagliari, 1999, pp. 65 e ss.

(9) P. Sylos Labini, Che cos'è sinistra, in Il Ponte, n. 6 giugno 1999, p. 46-47.

(10) A. Spinelli, E. Rossi, Il manifesto di Ventotene, Napoli, 1982.

(11) C. Malandrino, Il federalismo europeo in Ernesto Rossi, in Il federalismo tra filosofia e politica cit., pp. 341 e ss. Dello stesso autore vedi anche Federalismo. Storia, idee, modelli, Roma, 1998.

(12) Federalismo e autonomia in Italia dall'unità ad oggi, a cura di C. Petraccone, Roma-Bari, 1995, p. 309.

(13) G. Miglio, Federalismi falsi e degenerati, con interventi di M. Diamond, D. J. Elazar, A. B. Gunlicks, J. Kincaid, R. Ratti, W. Renzsch, A. Vitale, Milano, 1997.

Una precedente versione del testo è apparsa sulla rivista Argomenti Umani.

Dal sito http://federico.francioni.org/ riportiamo alcune brevi note bio-bibliografiche sull'autore:

Federico Francioni, nato a Sassari nel 1948, si è laureato in filosofia nell'Università di Pavia. E' insegnante, scrittore, storico. Ha svolto missioni di ricerca presso biblioteche ed archivi sardi, italiani, iberici, francesi ed inglesi. Nel 1995 ha individuato l'archivio privato dell'avvocato bonorvese Giovanni Antioco Mura, uno dei fondatori del socialismo sardo, contenente, fra l'altro, più di 400 cartoline, illustrate con inchiostro di china o con pastelli dallo stesso Mura e spedite dal fronte della prima guerra mondiale. Tale fondo è stato versato alla sezione manoscritti dell'Istituto sardo per la storia della Resistenza e dell'Autonomia (sede di Sassari). 

Per la Casa editrice Condaghes dirige la collana "Su fraile de s'istoricu - L'officina dello storico". 

E' presidente della Consulta intercomunale per la promozione e la valorizzazione della lingua, della storia e della cultura della Sardegna

Alcune delle sue opere più recenti: Per una storia segreta della Sardegna fra Settecento e Ottocento. Saggi e documenti inediti, Condaghes, Cagliari, 1996; Vespro sardo. Dagli esordi della dominazione piemontese all'insurrezione del 28 aprile 1794, Condaghes, Cagliari, 2001; Antonio Simon Mossa (1916-1971). L'architetto, l'intellettuale, il federalista dall'utopia al progetto, curato insieme a Giampiero Marras, Condaghes, Cagliari, 2004.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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