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Ritratto di Carlo Cattaneo Federico Francioni -- Federalismo a rischio Siamo di fronte al rischio concreto che si consumi la terza sconfitta storica del federalismo: la prima, com'è noto, venne decretata, a conclusione del processo risorgimentale, dal trionfo della linea liberal-moderata e centralista; la seconda avvenne durante i lavori dell'Assemblea costituente; la terza potrebbe verificarsi con la deriva elettorale del leghismo, approdato alla devolution, cioè ad un'ipotesi di tipo scozzese, dopo aver sostenuto dapprima un programma che di federalista aveva solo il nome, poi l'aperto secessionismo. Non va esclusa inoltre la possibilità di nuovi compromessi che potrebbero far seguito alle soluzioni pasticciate delineatesi durante i lavori della Commissione bicamerale: queste, è opportuno chiarirlo subito, col federalismo (almeno così crediamo) avevano poco o nulla a che fare. Ranza faceva riferimento con una certa cautela alla Svizzera (dove vari cantoni erano dominati "dalla più vergognosa aristocrazia"). Delle Province Unite (che già nel Seicento erano state un modello da seguire per ribelli e riformatori) non gradiva la figura dello Statolder (luogotenente generale), carica diventata ereditaria nel 1747. Non sfuggiva dunque a Ranza il nodo fondamentale dell'incompatibilità fra un sistema federale effettivamente democratico e un istituto di tipo sostanzialmente monarchico (solo nel 1814 però si sarebbe verificata in Olanda l'ascesa al trono di un re ereditario). Pur tenendo conto degli Stati Uniti, egli respingeva l'onnipotenza dei presidenti americani come Gorge Washington, la cui ricchezza, scriveva, era in grado di tarlare "sordamente" l'edificio della democrazia. È evidente al riguardo l'influenza di Robespierre e Saint-Just che respingevano sia il modello inglese (aristocratico e censitario), sia l'esperienza americana, fondata sull'egemonia della proprietà terriera. Agli occhi dei giacobini d'Oltralpe, il costituzionalismo statunitense era caduto completamente nel discredito dopo l'inizio della rivolta antiparigina, anticentralista, antimontagnarda e federalista, scoppiata dopo l'arresto dei deputati girondini alla Convenzione. Emblematicamente, Trudaine de la Sablière, che nel 1792 aveva tradotto in francese la classica opera The Federalist, or the New Constitution (dovuta ad Alexander Hamilton, James Madison e John Jay), finì i suoi giorni sul patibolo. Dal suo canto il Ranza respingeva il federalismo francese del 1793 in quanto aggrediva uno Stato già formatosi da secoli, mentre esso in Italia era ancora da costruire; è importante sottolineare che in questo caso la scelta del federalismo non si coniugava col moderatismo, ma con una denuncia ed una critica intransigenti e con un progetto di carattere radicale. Bisogna tuttavia precisare che per il giacobino piemontese la federazione era un tramite per arrivare gradualmente alla soluzione unitaria, la quale, se proposta immediatamente, avrebbe provocato anarchia, spargimento di sangue e guerre fra i popoli; era invece essenziale concentrarsi nella lotta contro i tiranni e le teste coronate. La concezione di Ranza sulla federazione, come momento finalizzato all'obiettivo strategico della Repubblica una e indivisibile, appare dunque in parte strumentale. Intanto, però, risultava nuovo ed originale: sarebbe sbagliato sottovalutarne l'importanza. Al concorso milanese partecipò anche il comasco Gianmaria Bosisio che, richiamandosi espressamente al Montesquieu
dell'Esprit des lois e a Francesco Mario Pagano, scriveva che l'Italia aveva bisogno di un quadro politico-istituzionale in grado di accogliere al suo interno una molteplicità di climi. Egli guardava espressamente ad una prospettiva confederale. Fra coloro che risposero all'appello lanciato dall'Amministrazione lombarda va ancora ricordato Giuseppe Fantuzzi di Belluno che propose dieci repubbliche aventi come capitali Torino, Genova, Milano, Firenze, Venezia, Bologna, Roma, Napoli, Palermo, Cagliari, unite da un potere federale cui sarebbe toccata la gestione della politica estera. Una viva sensibilità sociale spingeva Fantuzzi ad affermare che tutti i cittadini dovevano essere, sia pure in misura diversa, possidenti o meglio "usufruttuari" di parti di un'unica proprietà nazionale. Sul versante di un'opzione prevalentemente confederale si collocarono due francesi, giunti nella penisola al seguito di Napoleone: Pierre Rouher (segretario della commissione amministrativa del Mantovano, che era stato con Filippo Buonarroti ed i patrioti italiani ad Oneglia) e Charles Thérémin, sostenitore di una confederazione più o meno "ristretta", che avrebbe dovuto avere come oggetto esclusivo la politica estera, mentre ad un Tribunale italico sarebbe toccato dirimere le controversie fra le
repubbliche(1).
Anche la terminologia, funzionale all'esposizione di una visione moderata, è lontanissima dall'esperienza americana che fu qualificata da Gioberti con parole molto aspre. Per il teorico del neoguelfismo, la Chiesa - la cui vicenda veniva strettamente legata al destino dell'Italia ed alla sua futura indipendenza - era un baluardo per la "sopravvivenza civile sui barbari" e sugli avversari dell'Europa, intesi come "gli uomini infetti dalle due pesti americane, la sovranità popolare e libertà di stampa". Si tratta di una proposizione che impressiona per il riferimento polemico al De la Démocratie en Amérique di Alexis de Tocqueville, opera che però non viene esplicitamente citata(3). Fin dagli anni del suo primo soggiorno francese, Giuseppe Ferrari considerò le fortunate opere di Gioberti e di Cesare Balbo come profondamente estranee ad un'ispirazione federalista e democratica. In effetti, nel Primato giobertiano è assente perfino il richiamo ad un modello di monarchia
costituzionale(4). Non si vede in qual modo le posizioni teorico-politiche di Gioberti e quelle di Antonio Rosmini (favorevole alla monarchia, al suffragio ristretto ed alla confederazione) possano essere considerate interne alla storia del federalismo. Di recente è stato affermato che federazione e confederazione sono due specie dello stesso genere. Si è sostenuto che il concetto dogmatico di sovranità, inteso come potere originario, illimitato ed assoluto di comando, caratteristico dello Stato, non può essere utilizzato per descrivere il fenomeno storico Stato ed i suoi sottotipi quali Stato regionale, confederazione e federazione. La distinzione fra gli ultimi due ambiti deriverebbe dall'edificio ideologico e concettuale costruito intorno al processo di sviluppo dello Stato moderno europeo. In particolare, i giuristi tedeschi dell'Ottocento avrebbero elaborato una dottrina di carattere monista - la sovranità come qualcosa di unico ed indivisibile - poi artificiosamente sovrapposta all'esperienza americana. In effetti, durante la Convenzione di Filadelfia non si sarebbe verificato il passaggio dalla confederazione alla federazione, ma un compromesso fra i federalisti ed i loro avversari. Nell'Ottocento, secondo John C. Calhoun, senatore del South Carolina e teorico della dottrina dei diritti appartenenti ai singoli Stati, i popoli americani dovevano essere considerati, come succedeva all'interno delle grandi società per azioni, dei mandati, mentre il governo federale era un semplice mandatario. Gli Stati, che avevano delegato solo alcuni powers of sovereignty, rimanevano depositari della sovranità nel suo complesso: essi avevano firmato un patto, un contratto, in base al quale avrebbero potuto ribellarsi alle amministrazioni centrali giudicate dispotiche(6). Tali posizioni sono state riprese di recente e si inseriscono nell'ambito di studi e ricerche che mirano a delegittimare gli esiti dell'ingegneria istituzionale scaturita dalla rivoluzione americana. Nell'ambito di questa operazione, in rapporto alla guerra fra nordisti e sudisti, si è parlato, quasi poeticamente, dei "vinti", senza aggiungere che si trattava dei grandi proprietari delle piantagioni dove veniva utilizzata manodopera schiavile. 1) ordinamento statuale unitario retto da una costituzione; 2) separazione dei poteri; 3) integrazione degli ordinamenti degli Stati membri in quello generale proprio della federazione; 4) subordinazione degli ordinamenti degli enti territoriali a quello dello Stato federale; 5) equiordinazione tra gli ordinamenti degli enti politici territoriali; 6) garanzia costituzionale delle norme relative all'organizzazione federale ed alla ripartizione delle sfere di competenza tra federazione e singoli Stati; 7) modificabilità della suddivisione delle competenze tramite procedimento riconosciuto ed approvato di revisione; 8) "immodificabilità" dell'assetto federale; 9) partecipazione degli enti politici territoriali all'esecuzione delle funzioni della federazione; 10) soluzione dei conflitti fra questa ed i singoli Stati e fra gli stessi enti territoriali mediante il ricorso ad un organo federale. Questi elementi possono intrecciarsi solo con un garantismo ed un pluralismo di tipo democratico e repubblicano, escludendo dunque i sistemi monarchici, le esperienze storiche del socialismo reale, (caratterizzate dal partito unico), il caudillismo, il caciquismo e quelle costituzioni ibero-americane in cui l'articolazione del potere si risolve in forme più o meno spinte di
decentramento(7). Il 29 maggio 1947, parlando all'Assemblea costituente, Emilio Lussu pronunciò un brillante discorso che però fu definito come "l'ultima battaglia federalista in Italia" o anche "il canto del cigno del federalismo italiano". Nell'aula, impegnati nella difesa di istanze analoghe a quelle lussiane, rimasero in pochi: gli azionisti (con alcune defezioni), i sardisti e qualche repubblicano. Lussu aveva ben chiara la distinzione fra i sistemi autonomistici e quelli federalistici. Nell'elaborazione lussiana, che sfiorò appena il nodo di una camera alta, la quale ha il compito di porre su un piano di pari visibilità e dignità la rappresentanza dei singoli Stati federati, mancava inoltre la percezione di un fondamentale elemento di equilibrio fra le competenze degli enti territoriali e quelle del governo centrale: la figura di un capo dello Stato eletto direttamente dal popolo a suffragio universale, garante del potere esecutivo e simbolo dell'unità del paese. Era questa invece la prospettiva propria di esponenti dell'azionismo, come Piero Calamandrei e Leo Valiani(8). Nonostante l'atmosfera non gli fosse certo favorevole, Lussu si battè ugualmente con la consueta energia, se non altro col fine di strappare, in subordine, un quadro il più avanzato possibile di Repubblica delle autonomie. Dopo la Costituente, il velo del silenzio calò per decenni sul federalismo interno che aveva subito, dopo il Risorgimento, un'altra storica sconfitta. La scena fu occupata allora dal federalismo esterno, sovranazionale, ma soprattutto dall'europeismo del functional approach (mirante all'integrazione capitalistica attraverso la graduale formazione di organismi economici e politici) che si presentava come proposta suscettibile di larghe adesioni da parte di governi e ceti dirigenti intellettuali. Di recente Paolo Sylos Labini ha scritto che il Manifesto per gli Stati Uniti d'Europa:
Sylos Labini tuttavia non specifica che tale documento individua la necessità di una rottura rivoluzionaria che scaturisce da una forte critica del capitalismo. Il lessico adoperato non lascia spazio ad equivoci: "[...] la rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, dovrà proporsi l'emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita". Nella stessa Magna Charta del federalismo europeista si delinea con chiarezza il fondamento economico e sociale della futura costruzione politico-istituzionale:
Si dovrà necessariamente convenire che, se alla base di questa critica al capitalismo non figura il marxismo, che viene anzi attaccato (così come viene respinta l'esperienza dell'Urss), c'è tuttavia nel
Manifesto di Ventotene una buona dose di giacobinismo. Sylos Labini sarebbe disposto oggi a sottoscriverla, in tutto o in piccola parte? È sufficiente pensare al retroterra dello stesso Manifesto ed ai suoi autori: Altiero Spinelli (ex-militante comunista), Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi avevano organizzato nel confino di Ventotene una Mensa Europa (autonoma rispetto agli altri uomini di Giustizia e Libertà, come Riccardo Bauer, Nello Traquandi, Vincenzo Calace e Francesco Fancello), intorno alla quale sedettero i repubblicani Dino Roberto, Arturo Buleghin e Giorgio Braccialarghe, i comunista Attilio Marinato ed altri. Colorni, socialista, martire della Resistenza al nazismo, fu il primo editore e propagandista del Manifesto. Di recente è stato focalizzato il ruolo svolto, nell'ideazione e nella scrittura del documento, da Rossi che ebbe il merito, fra l'altro, di far conoscere a Spinelli la letteratura federalista inglese. Di sicuro quest'ultimo, come potrebbe replicare Sylos Labini, giudicò poi certi termini della parte finale del Manifesto come "troppo rozzamente leninisti": in realtà essi scaturivano da una matrice in cui si intrecciavano elementi teorici giacobini, socialisti, gobettiani e giellisti; veniva formulato un abbozzo di strategia politico-organizzativa; la classe operaia e i ceti intellettuali erano indicati come i due gruppi sociali più sensibili al messaggio del federalismo europeo; l'alleanza tra lavoratori, intellettuali ed élite federalista per la formazione di un partito rivoluzionario era considerata il perno decisivo della futura mobilitazione politica. Spinelli poi mise da parte l'ispirazione socialista-liberale e portò avanti un'azione realista e spregiudicata per affermare il programma del Movimento federalista europeo
(11). Dal canto loro le forze di sinistra hanno lasciato alla Lega il ruolo di unico partito di massa radicato nel territorio e nella società civile del Nord; hanno assistito quasi imperterrite alla perdita di quote del proprio elettorato a tutto vantaggio del Carroccio il quale, indisturbato, è riuscito a predicare valori antitetici a quelli di cittadinanza, coesione e solidarietà con e tra i soggetti più deboli. Dalle critiche ad Hamilton (che giocò un ruolo determinante nel mettere a punto la costituzione degli Usa) emerge la totale estraneità di Miglio ai fondamenti del federalismo democratico che in Italia, specialmente per merito di Ettore Ciccotti, Arcangelo Ghisleri e Gaetano Salvemini, ha inglobato nella sua visuale la soluzione della questione meridionale. Non ci sembra che l'irriducibilità del leghismo a questo indirizzo sia stata sufficientemente posta in risalto. Bersagli polemici di Miglio sono diventati inoltre il New Deal e in genere ogni tipo di politica keynesiana o neokeynesiana, volta a promuovere investimenti, ad aumentare l'occupazione, a stimolare la domanda e ad offrire servizi ed infrastrutture per tutte le comunità dello Stato federale. Insomma, fosse dipeso dal liberismo selvaggio dall'autoritarismo di Miglio, l'odierno Welfare State si sarebbe dissolto da un pezzo(13). Effettivamente, già la prima fase del
New Deal segnò una crescita del potere presidenziale. Anche oggi, gli Stati degli Usa, i Cantoni e i
Lander subiscono la tendenza ad una progressiva limitazione delle proprie specifiche competenze. D'altra parte il senato Usa ha tuttora una forza ed una capacità di pressione di gran lunga superiori a quelli di ogni altro analogo organismo (si pensi solo alla consistenza dello staff che lavora alle dipendenze di ogni senatore americano): non è dunque quell'istituzione qualificata da Miglio come secondaria ed accessoria. Inoltre, il pendolo è oscillato ora in favore dell'amministrazione centrale, ora dalla parte del Congresso, a seconda dei momenti storici. Nella bicamerale è mancata la presenza di forze genuinamente federaliste. Il federalismo democratico, che ha dovuto purtroppo accusare una nuova battuta d'arresto, ha dimostrato di non avere quelle solide radici che nel paese possono essere stabilite solo attraverso il suo inserimento in un più vasto progetto di sviluppo economico-sociale e di radicale riforma della politica, capace di creare un tessuto connettivo nella società civile e di ridimensionare le oligarchie politico-partitiche che mirano esclusivamente all'occupazione dei posti di potere ed all'autoperpetuazione. Ma la possibilità di un tale cambiamento non è certo dietro l'angolo. Inoltre, con la risacca elettorale della Lega, si profila il pericolo che sul federalismo cali di nuovo una coltre di oblio. Riteniamo tuttavia che la grande lezione proveniente dal federalismo democratico dell'Ottocento e del Novecento ed in particolare le elaborazioni di Lussu, di Silvio Trentin e di Calamandrei, pervase da forti rivendicazioni di giustizia sociale, possano ancora fornire parecchi elementi alla piattaforma teorica di un federalismo nuovo, animato dal rispetto verso ogni minoranza, dall'esigenza di salvaguardare il
welfare e da una logica in tutti i sensi perequativa e redistributiva. Note: Dal sito http://federico.francioni.org/ riportiamo alcune brevi note bio-bibliografiche sull'autore: Federico Francioni, nato a Sassari nel 1948, si è laureato in filosofia nell'Università di Pavia. E' insegnante, scrittore, storico. Ha svolto missioni di ricerca presso biblioteche ed archivi sardi, italiani, iberici, francesi ed inglesi. Nel 1995 ha individuato l'archivio privato dell'avvocato bonorvese Giovanni Antioco Mura, uno dei fondatori del socialismo sardo, contenente, fra l'altro, più di 400 cartoline, illustrate con inchiostro di china o con pastelli dallo stesso Mura e spedite dal fronte della prima guerra mondiale. Tale fondo è stato versato alla sezione manoscritti dell'Istituto sardo per la storia della Resistenza e dell'Autonomia (sede di Sassari). Per la Casa editrice Condaghes dirige la collana "Su fraile de s'istoricu - L'officina dello storico". E' presidente della Consulta intercomunale per la promozione e la valorizzazione della lingua, della storia e della cultura della Sardegna. Alcune delle sue opere più recenti: Per una storia segreta della Sardegna fra Settecento e Ottocento. Saggi e documenti inediti, Condaghes, Cagliari, 1996; Vespro sardo. Dagli esordi della dominazione piemontese all'insurrezione del 28 aprile 1794, Condaghes, Cagliari, 2001; Antonio Simon Mossa (1916-1971). L'architetto, l'intellettuale, il federalista dall'utopia al progetto, curato insieme a Giampiero Marras, Condaghes, Cagliari, 2004. |
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