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Salvo Zedda -- "Scenari del capitalismo". Recensione [12.04.2007] 1. Perché studiare ancora il capitalismo? Il capitalismo del XXI secolo (d’ora in poi: CXXI) è un’agile sintesi del pensiero di Robert Heilbroner, apprezzato economista e divulgatore. La sua pubblicazione rappresenta un’ottima occasione per esplorare le fondamenta nascoste delle nostre società.Riteniamo, infatti, che occuparsi di capitalismo non sia affatto futile, trattandosi della formazione sociale egemone che regola molta parte delle nostre esistenze. Considerata dunque la sua importanza, non è questione che si possa delegare ai sacerdoti della dogmatica marxista.(1) C’è molto Marx anche in questo testo, come è giusto che sia: ma Heilbroner ne fa un uso critico. Le sacre icone ideologiche cedono il passo ad una visione laica più aderente alle linee su cui si sviluppa la realtà attuale. «Quando noi diciamo che Marx è superato non intendiamo davvero dire con questo che nulla rimanga di vivo e di vitale del suo pensiero. Al contrario. Nessuno può sognarsi un totale quanto assurdo rinnegamento di Marx. [...] Il figlio si emancipa, ma non può rinnegare il proprio padre. I socialisti moderni sono figli di Marx, anche se oggi si rifiutano di ricevere la sua eredità senza un larghissimo beneficio d’inventario. [...] Accettare ciò che è vitale: respingere, apertamente, definitivamente, quanto nel marxismo v’ha di erroneo, di utopistico, di contingente».(2) Parole di Rosselli, che sottoscriviamo (a condizione di riconoscere l’esistenza di socialismi non marxisti ancora molto interessanti, pensiamo solo al contributo di Proudhon). A parte rarissime eccezioni (Cuba, Nord Corea), dopo il dissolvimento dell’impero sovietico e la tardiva conversione di quello cinese, il sistema capitalista regna, pur con numerose varianti, da un capo all’altro del pianeta. Prendere atto di questa incontestabile vittoria, spinge ad interrogarsi sulle ragioni che hanno decretato la supremazia del capitalismo. I suoi apologeti hanno avuto gioco facile nel sottolineare i fallimenti delle economie pianificate di stampo sovietico, in un crescendo polemico che ha presto investito ogni forma di intervento pubblico nell’economia. Comprendere il funzionamento del sistema economico che attualmente monopolizza la scena, è necessario anche per smascherare questa operazione di chiaro stampo conservatore. In estrema sintesi, possiamo dire che questo sistema ha dimostrato finora di essere superiore ai propri rivali sotto tre aspetti: primo, permette di avere una disponibilità diffusa di beni e servizi tendenzialmente nei tempi e luoghi in cui servono, nelle quantità e qualità richieste, con prezzi che sono accessibili ad ampi strati della popolazione; secondo, alimenta pressoché incessantemente robuste correnti di innovazione tecnologica e organizzativa; infine, ha una notevole capacità di adattamento ai regimi istituzionali più disparati, dalle democrazie liberali ai comunismi asiatici, dalle teocrazie islamiche alle dittature fasciste.(3) Tralasceremo quest’ultimo aspetto, per riprenderlo nelle nostre riflessioni finali. Quando i primi due dispositivi girano al meglio, tutti i difetti del capitalismo sembrano passare in secondo piano. Ne consegue che i sistemi alternativi devono inevitabilmente misurarsi con questi punti di forza, se vogliono avere qualche chance di successo. Nell’ambito della sinistra comunista, molti si volgono stupiti a contemplare la straordinaria capacità del capitalismo di trasformarsi, cambiare abito (se non essenza), per adattarsi alle circostanze e sopravvivere nelle condizioni più estreme. Eppure Marx aveva intuito, e lasciato scritto, che il capitalismo è sempre una forza rivoluzionaria scardinatrice del vecchio: «[...] l’enorme influenza civilizzatrice del capitale [...] attua una rivoluzione permanente [...]»(4). Si era però sbagliato in un dettaglio di non scarso valore, essendo convinto che il capitalismo, per le sue "contraddizioni strutturali", fosse destinato a indebolirsi a tal punto che sarebbe bastata una spallata "rivoluzionaria" per abbatterlo.(5) Non è andata così: ancora una volta «[i] fatti hanno superato le ideologie».(6) Ritornando al testo di Heilbroner, il problema che si pone è capire da dove scaturisca l’energia che assicura questa mutazione continua del capitalismo, indicatrice di una vitalità che non accenna tutt’oggi a cedere il passo. Come vedremo più avanti, l’autore ne individua l’origine nell’insaziabile spinta verso l’accumulazione di capitale che anima i suoi detentori (individui che sono esclusivi proprietari degli strumenti utilizzati nella produzione: denaro, materie prime, macchinari, brevetti, fabbricati ecc.). In termini molto generali, possiamo definire il capitalismo come quel tipo di economia e di società, dispiegatosi compiutamente a partire dalla rivoluzione industriale inglese del XVIII sec., che si regge su una incessante accumulazione di capitale, condotta dai membri della classe sociale che concentra nelle sue mani i principali mezzi di produzione.(7) Ne discende che questo «principio organizzativo centrale» (l’autoespansione del capitale) e le «istituzioni» ad esso connesse «esercitano un influsso su tutti gli aspetti della formazione sociale, sia che riguardino la vita materiale, la giustizia e l’ordine sociale [sia che riguardino] la tradizione e le ideologie».(8) Il capitalismo ha limiti, anche gravi, che non possono essere negati, sui quali l’economista americano si sofferma nella parte conclusiva del suo lavoro. Significativamente, il libro dà per scontato che anche il XXI secolo sarà all’insegna del sistema capitalistico. Questa posizione risente indubbiamente delle modalità repentine e impreviste con cui si è consumato il crollo dei regimi comunisti europei (l’edizione originale risale infatti al 1992),(9) ma non deve essere letta come accettazione di una presunta universalità del capitalismo, il quale è visto, correttamente, come un fenomeno storicamente determinato. 2. Profilo di un economista critico. Nato a New York nel 1919, Robert Louis Heilbroner ha compiuto in questa città tutte le principali tappe della sua esistenza fino alla morte, avvenuta nel 2005. Ha studiato alla Harvard University negli anni ’30, quando vi insegnavano alcuni dei protagonisti del New Deal e iniziavano a muovere i primi passi due giovani economisti non allineati, come Sweezy e Galbraith. Successivamente, si è perfezionato presso la New School for Social Research, sotto la guida del profugo tedesco Adolph Löwe, venendo a contatto con la tradizione europea più sensibile alla dimensione storica e istituzionale dei processi economici.(10) Accanto alla divulgazione di alto profilo culturale (ricordiamo il best seller The Worldly Philosophers del 1953, giunto alla 7a ed. — affresco di storia del pensiero economico in cui gli economisti sono presentati come cultori di una filosofia mondana, pratica, concretamente legata ai bisogni materiali dell’uomo), Heilbroner ha approfondito la conoscenza del marxismo (Marxismo pro e contro, tr. it. 1982) e ha analizzato il capitalismo, nel tentativo di comprenderne le origini, l’intima natura e la logica di funzionamento (Nascita e sviluppo della società capitalistica, tr. it. 1978; Natura e logica del capitalismo, tr. it. 2001). Il taglio delle sue ricerche si discosta da quello prevalente nell’accademia americana, perché insiste sulle dinamiche endogene del sistema economico, mette in luce le relazioni fra le strutture sociali, la psicologia e il comportamento degli individui, e sottolinea, ispirandosi all’Adam Smith della Teoria dei sentimenti morali, i rapporti di reciproca influenza fra l’etica e l’efficienza economica.(11) Il lavoro che qui recensiamo è lo sbocco di questi studi, rivolto al grande pubblico, trascrizione di una serie di conferenze tenute alla radio canadese. 3. Dalle previsioni agli scenari. Heilbroner si propone di capire se il sistema economico capitalistico dominerà anche il secolo nel quale oggi viviamo. Più che fare previsioni (di cui riconosce la scarsissima attendibilità), intende tratteggiare uno o più scenari di sviluppo futuro, nei quali il rigore dell’analisi si sposi con l’intuizione di quelle che potrebbero essere le traiettorie di mutamento: una sorta di visione complessiva, sistemica, del capitalismo, suggerita dall’evoluzione storica, dalla rilevanza dei problemi contingenti, dai convincimenti ideali del ricercatore (CXXI, pp. 107, 115-117). Questo tentativo cadrebbe nel vuoto se ogni variante del capitalismo non rispondesse ad un «orientamento di base, individuabile in tutte le sue specifiche incarnazioni nazionali» (CXXI, p. 3). Pertanto, la logica di funzionamento e i rapporti interni fra le variabili, messi in luce nell’analisi, sono da Heilborner proiettati nel futuro, definendo un’immagine generale di quello che potrebbe diventare il capitalismo. Quali sono dunque le basi del sistema capitalistico? Heilbroner fa discendere le proprietà specifiche del sistema capitalistico dal binomio "accumulazione-mercato"(12): il primo elemento rappresenta la crescita cumulativa di beni materiali e monetari, attraverso la continua trasformazione degli uni negli altri. Questa trasformazione avviene passando per il mercato, dove le diverse produzioni sono fra loro in competizione per incontrare la domanda di beni e servizi espressa dai consumatori. La vendita convoglia una parte dei redditi disponibili verso le casse delle imprese. Questo "ritorno a casa" delle risorse investite (possibilmente in forma accresciuta) è l’aspetto cruciale del rapporto "accumulazione-mercato". Infatti, non tutte le imprese saranno in grado di coprire i costi sostenuti (lo spettro del fallimento si materializza inesorabile), mentre altre (più abili, più fortunate o più protette) non solo copriranno le spese iniziali, ma otterranno ulteriori risorse monetarie (profitto) da investire in un nuovo ciclo di produzione.(13) In teoria il meccanismo centrale del capitalismo potrebbe girare all’infinito, se non vi fossero intoppi di varia natura (fra gli altri, quelli legati alla scarsità di certe risorse, come per es. il petrolio, o alla misura del reddito disponibile per il consumo, legata alla sua ineguale distribuzione).(14) È proprio su di esso che Heilbroner concentra il fuoco dell’analisi, sottolineando la voglia irrefrenabile di espandere le proprie ricchezze che caratterizza il capitalista. Questa pulsione non contenibile (da manuale di psicologia clinica)(15) lo spinge ad investire cospicue risorse in un processo di produzione e vendita che tuttavia è assai rischioso. Il pericolo numero uno per il capitalista che vuole rientrare dagli investimenti e maturare un profitto è rappresentato dal passaggio sotto le "forche caudine" della concorrenza di mercato — la principale fonte di conflitto interna alla classe capitalista — che ad ogni giro lascia sul campo morti, feriti e vincitori. Il rischio di soccombere nella competizione costringe l’imprenditore-capitalista ad escogitare le vie più profittevoli per monetizzare la produzione. Non tutte però hanno pari valore morale e gli stessi effetti sociali e politici.(16) La richiesta di efficienza impone risparmi sul fronte del mercato del lavoro e delle materie prime, in una prospettiva non più limitata entro i confini di uno stato,(17) ma anche miglioramenti dei processi di produzione (con interventi di tipo organizzativo e tecnologico). Il prodotto stesso subisce una trasformazione, con l’invenzione di nuove versioni più aderenti alla domanda dei consumatori. In parallelo, enormi energie sono profuse nella pubblicità, nella costruzione del marchio e dell’immagine, nella creazione di falsi bisogni. L’ingente misura di questi sforzi spesso richiede la ricerca di nuovi sbocchi di mercato (causa non certo secondaria dell’attuale globalizzazione economica), accanto alla mercificazione di nuovi ambiti della vita sociale (gli stili di vita, il tempo libero, i beni comuni ecc.). Lo spettro del naufragio sul mercato lo può spingere, infine, a cercare protezioni, di regola nelle stanze delle burocrazie statali o fra i rappresentanti parlamentari e governativi, non disdegnando le relazioni collusive con i propri concorrenti o la progressiva assunzione di una posizione dominante di tipo monopolistico.(18) Risulta evidente che «[...] i mercati sono una parte del capitalismo, ma non ne costituiscono l’intero, e la discrepanza tra i due termini è grandissima» (CXXI, 81). Infatti, «[i]l sistema di mercato è il mezzo principale per legare e coordinare l’insieme, ma i mercati non sono la fonte delle energie del capitalismo [...]. I mercati sono le condutture attraverso cui scorrono le energie del sistema e il meccanismo grazie al quale il regno privato può organizzare i suoi compiti senza l’intervento diretto del regno pubblico» (CXXI, 82). Tuttavia, l’importanza del sistema di mercato come principio di organizzazione economica balza agli occhi facendo un semplice confronto con un qualsiasi sistema di pianificazione centralizzata (Heilbroner ricorre all’esperienza sovietica). Quest’ultimo ha un nemico mortale nell’inerzia della burocrazia, nella mancanza di incentivi (a parte — eventualmente – la paura della punizione) che inducano le persone a ricercare la risoluzione dei problemi e a intraprendere le azioni necessarie: in altri termini, «la grande fonte di disordine nelle economie di comando [pianificate centralmente] è la mancanza di una struttura in cui l’interesse personale porti ad azioni socialmente utili» (CXXI, 91), mentre è proprio questo meccanismo di regolazione il punto di forza del mercato. Heilbroner mostra come l’ensemble "accumulazione capitalistica-mercato" abbia cambiato il volto delle nostre società. Il fatto di innalzare gli standard di vita della popolazione, attraverso la crescita di lungo periodo dei redditi medi pro capite, è stato certamente un grande elemento di rottura con le forme di economia del passato. A fronte di questo maggiore benessere materiale permane tuttavia una distribuzione diseguale del reddito e della ricchezza (in alcuni paesi meno che in altri), così come non sono scomparsi né il pericolo dello sfruttamento umano, né quello della distruzione dell’ambiente. A livello internazionale, inoltre, le economie più avanzate continuano a drenare risorse dalle economie più arretrate, che coincidono con la "periferia" sottosviluppata. Infine, anche se le crisi periodiche e l’instabilità del sistema sono l’effetto inevitabile del cambiamento e dell’innovazione, essi pesano in larga misura sui lavoratori più che sul capitale. La sua riflessione in merito sembra piuttosto sconfortante: «Forse sarebbe meglio dire che l’accumulazione comporta sia il successo sia il fallimento: il successo, perché è indispensabile per il benessere materiale, e l’insuccesso perché è inseparabile dagli effetti sociali avversi, inclusa l’instabilità. [...] Ma deve essere chiaro che [...] non avremo mai l’uno senza l’altro» (CXXI, 51-52).(19) Anche se si presenta come un Giano bifronte, è chiaro che non può essere indifferente per la sinistra che il sistema mostri solo la faccia dello sfruttamento sistematico del lavoro e dell’ambiente: ci pare ovvio che un capitalismo "dal volto umano" sia da preferire ad un capitalismo "di rapina". Ma quella particolare forma di ricchezza che è l’accumulazione di capitale ha ripercussioni rilevanti sia sul versante sociale sia sul fronte politico: in primo luogo, emerge una stratificazione in classi sociali perché «[...] la ricchezza è inestricabilmente associata alla diseguaglianza» (CXXI, 28). È presente un’asimmetria di risorse e opportunità fra i capitalisti e le persone che lavorano (o vorrebbero lavorare) per loro: è da qui che occorre partire per comprendere la natura del potere esercitato da chi possiede i mezzi di produzione; un potere senza dubbio diverso (e meno violento, nei paesi dov’è regolato dalla legge) di quello tipico dei regimi feudali o schiavisti, ma non per questo meno reale ed efficace. Infatti, «[l]a mancanza di ricchezza può costringere un individuo che ha una situazione finanziaria meno favorevole a entrare in una situazione di mercato con un individuo che ha una situazione finanziaria più favorevole, proprio a causa di questa disparità di condizione» (CXXI, 29). Persino Adam Smith riconosce che, nel corso della contrattazione, il capitalista può aspettare senza troppi affanni che maturi la situazione a lui favorevole, mentre la forza-lavoro è in grado di resistere per poco tempo, ed è poi costretta ad accettare le condizioni che gli sono offerte.(20) Il potere del capitalista si esercita nel diritto di negare l’accesso ai mezzi di produzione (diritto conferitogli dalla legislazione come corollario del diritto di proprietà). Può dunque decidere di non assumere una persona, oppure di licenziarla (come anche di allocare la forza-lavoro come meglio crede, in rapporto alle esigenze della produzione). Anche se nelle democrazie più avanzate questi momenti sono in genere regolamentati, le ripercussioni sull’esistenza dei lavoratori possono essere profonde.(21) In secondo luogo, la divisione in classi della società è importante dal punto di vista politico, perché implica conflitti, latenti o palesi, fra gli strati superiori e quelli inferiori (una "lotta di classe" che nei sistemi occidentali è molto meno polarizzata di quanto avesse previsto Marx, per l’esistenza di un’ampia e composita fascia intermedia). La presenza di questi conflitti costringe i governi ad assicurare un certo livello di coesione sociale, ma non è facile imbrigliare l’energia caotica del capitalismo. Ed è proprio la faglia perennemente in tensione dei rapporti fra la sfera statale e quella delle imprese, uno dei temi trattati più a fondo da Heilbroner (CXII, cap. 3). In realtà, mondo degli affari e governo rispondono ad imperativi diversi, che non necessariamente determinano un conflitto. Nella maggior parte dei casi c’è una dipendenza reciproca. Infatti, l’accumulazione capitalistica è resa possibile dalla buona organizzazione dello stato (infrastrutture, difesa, istruzione ecc.), mentre il governo dipende da un’economia sana per ottenere (attraverso la tassazione) le risorse necessarie al funzionamento dell’apparato pubblico. A partire dalla fine degli anni ’70 — con la crisi profonda che ha coinvolto il "compromesso keynesiano" postbellico, nel quale era assegnato allo stato il compito di intervenire per correggere le maggiori distorsioni del capitalismo (erogando pensioni, assistenza, sanità, sussidi di disoccupazione; creando domanda pubblica; sostenendo la domanda privata) —, la posizione delle imprese si è sempre più rafforzata, sia in termini tecnico-organizzativi, sia in termini ideologici. Se è vero che la prosperità economica sostiene la stabilità del sistema, in quanto riduce i conflitti fra capitale e lavoro (per es., consente di aumentare i salari e finanziare programmi di assistenza sociale), accade però che nelle fasi di crisi le ristrutturazioni sono pagate in misura maggiore dai lavoratori rispetto al capitale: Heilbroner cita il caso delle politiche anti-inflazionistiche degli anni ’80, e del conseguente abbandono dell’obiettivo della piena occupazione (la più grande vittoria della destra liberista). Il problema del rapporto fra le due sfere è presente anche su scala transnazionale ed è riassumibile nella constatazione che «[i]l sistema di mercato globalizzato si estende al di là dell’autorità politica dei singoli governi» (CXXI, 66). Un flusso di merci e denaro di misura eccezionale è orchestrato dal capitale senza tenere conto dei confini fra gli stati, basti pensare che «[...] nel 1985 la somma delle vendite delle 350 più grandi corporation transnazionali ammontava a un terzo del prodotto nazionale lordo complessivo di tutti i paesi industriali e superava il totale del PNL di tutti i paesi in via di sviluppo, Cina inclusa» (CXXI, 65). Un dato che — se aggiornato al 2007 — assumerebbe proporzioni ancora maggiori. I governi constatano che il loro potere è circoscritto ai confini dello stato, per cui può essere esercitato molto debolmente nell’orientare i processi di globalizzazione economica: ciò è particolarmente frustrante quando i cittadini perdono il proprio lavoro perché le imprese traslocano impianti e stabilimenti dove i costi sono per loro più favorevoli. C’è una differente capacità di risposta: mentre lo stato reagisce lentamente, il capitalismo corre a rotta di collo. Continua nella pagina successiva Note: [1]
La versione caricaturale del capitalismo che dipingono i “fideisti”
è stigmatizzata dagli studiosi marxisti che sono più consapevoli delle
difficoltà poste dal problema: «[...] la
griglia concettuale attorno a cui discutono da tempo gli economisti
della sinistra radicale in Italia è del tutto incapace di vedere le
metamorfosi del capitalismo contemporaneo, e di intendere dunque la
natura e gli effetti della politica economica attuale, anche perché
prende le mosse da un quadro inattendibile dei recenti sviluppi della
teoria economica» (Riccardo
Bellofiore e Joseph Halevi, Tendenze del capitalismo contemporaneo,
destrutturazione del lavoro e limiti del ‘keynesismo’. Per una
critica della politica economica). C’è da dire che gli
economisti neoclassici (pensiamo ai Chicagoans allevati dal
recentemente scomparso Milton Friedman) e quelli di scuola austriaca (i
discepoli di von Mises e Hayek) — all’opposto — rimuovono
decisamente il problema, occultando la reale natura del capitalismo
sotto il nome «innocuo ma privo di significato» di «sistema di
mercato», impostosi su altre espressioni edulcorate, quali «sovranità
del consumatore» e «libertà d’impresa» (nel commentare questi
tentativi, John K. Galbraith esercita il suo sarcasmo corrosivo: v. L’economia
della truffa, Rizzoli, Milano, 2003, pp. 16-29). Far coincidere il
mercato e la libertà con il capitalismo è infatti mistificatorio, dato
che i primi — in un sistema socialista decentrato, non autoritario,
basato sull’autogestione — sarebbero elementi essenziali della
progressiva socializzazione (nota bene: non statalizzazione)
della base economica. [2]
Carlo Rosselli, Socialismo liberale e altri scritti, a cura di
John Rosselli, Einaudi, Torino, 1973, pp. 419 e 420 (il corsivo è nel
testo), in un capitolo significativamente intitolato “Superamento del
marxismo”. [3]
Cfr. l’analisi dei punti di forza del capitalismo svolta con grande
maestria dal sociologo Peter L. Berger, La rivoluzione capitalistica.
Prosperità, uguaglianza, libertà, intr. di Giorgio Galli, Sugarco,
Milano, 1992 (ed. or. 1986, aggiornata nel 1991). [4]
Karl
Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica,
La Nuova Italia, Firenze, 1970, vol. II, pp. 11-12. [5]
«[...] Ma la produzione capitalistica genera essa stessa, con
l’ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione» (Karl
Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, Roma, 1989, vol. I, ed.
or. 1867, p. 826, l’enfasi nel testo è nostra). Ricordiamo
brevemente, senza dubbio scontando un eccesso di banalizzazione, quali
sono le “tendenze ineluttabili” che Marx mette in campo (la loro
definizione è in realtà piuttosto ambigua, anche se, in linea
generale, sono rappresentate come forze «[...] che operano e si fanno
valere con bronzea necessità», Id., “Prefazione alla prima
edizione”, op. cit. , p. 32): il lavoro produttivo si
proletarizza completamente (scompare la piccola imprenditoria
indipendente, dopo una lunga catena di fallimenti); i lavoratori si
impoveriscono sempre più (fra riduzione dei salari e disoccupazione
crescente); infatti, le macchine sostituiscono progressivamente il
lavoro umano; in questo modo viene tuttavia a mancare la fonte dei
profitti capitalistici (cioè il plusvalore estratto dalla
forza-lavoro); i mezzi di produzione si concentrano ulteriormente nelle
mani di pochi capitalisti, a causa della rovina dei concorrenti più
deboli; subentra, infine, la crisi dirompente scatenata dalla
sovraproduzione (o dal sottoconsumo), dato che i prodotti non trovano più
sbocchi di mercato. ll “proletariato organizzato” dovrebbe allora
sfruttare queste condizioni per distruggere con atto rivoluzionario le
basi di un capitalismo fortemente debilitato e sostituirle (dopo una
fase dittatoriale) con quelle della società comunista. Lungo il suo
arco evolutivo (segnato da cicli di espansione e contrazione più o meno
pronunciate), il capitalismo (ovviamente, con questo nome semplifichiamo
una realtà differenziata) ha spesso dato l’impressione di imboccare
la via preconizzata da Marx, ma (almeno fino ad ora) è sempre riuscito
a sottrarsi ad un destino letale. Da questo punto di vista, il libro di
Heilbroner tenta di spiegare le ragioni non solo di questa mancata
scomparsa, ma soprattutto del suo attuale e diffuso successo come
modalità di organizzazione delle attività economiche. [6]
Così annotava il giovane Gramsci nel 1917, mentre riconosceva che
quella russa era stata una rivoluzione contro le previsioni contenute
nel Capitale: Antonio Gramsci, “La rivoluzione contro il «Capitale»”,
Avanti!, ed. milanese, 24.11.1917, ripubbl. in Scritti
giovanili 1914-1918, Einaudi, Torino, 1975, pp. 149-153. [7]
Per comodità di esposizione (quindi tralasciando colpevolmente
l’indicazione delle sue origini storiche, oltre che delle architetture
istituzionali, sociali e culturali che lo accompagnano), abbiamo
riassunto la voce “Capitalismo” di Tom Bottomore, nel Dizionario
delle scienze sociali, il Saggiatore, Milano, 1997, pp. 59-61.
Notiamo che questa definizione è così generale da poter includere il
caso della “classe burocratica” che, attraverso il controllo del
partito unico e degli apparati pubblici, accentra tutti i mezzi di
produzione nel cosiddetto “capitalismo di stato” dei sistemi
comunisti (sul quale si sono appuntate le analisi critiche di Mandel,
Gilas, Saverio Merlino, Rizzi, Castoriadis: cfr. l’antologia
introdotta e curata da Lorenzo Infantino, Il mito del collettivismo,
Sugarco, Milano, 1983). Ma qui si apre un fronte che dobbiamo
necessariamente abbandonare, per quanto sia estremamente suggestivo
nella prospettiva di un socialismo liberale e libertario: ci proponiamo
di riprenderlo in un’altra occasione. Notiamo comunque che, a
differenza del “capitalismo di stato”, l’accumulazione
capitalistica “classica” richiede la mediazione del mercato (anche
se artefatto, come accade nei casi di monopolio, collusione ecc.) per
potere dispiegare i propri effetti in termini di crescita del surplus. [8]
Robert L. Heilbroner, Natura e logica del capitalismo, Jaca Book,
Milano, 2001, (ed. or. 1985), p. 66. “Esercitare un influsso” non
deve significare — l’A. pare esserne consapevole — causare in modo
deterministico un effetto. Nella sua analisi c’è tuttavia il concreto
rischio di cadere nell’errore del materialismo storico marxista, il
quale consiste, volendo astrarre dalla sua componente messianica, nel
fare derivare meccanicamente le sfere della cultura, della politica,
della scienza dalla struttura economica, mentre l’evoluzione sociale,
con i suoi rallentamenti e le sue accelerazioni, è in realtà un
processo storico non teleologico di condizionamento reciproco, come
lucidamente era stato compreso da Thorstein Veblen e Max Weber. [9]
Il suo giudizio sul modello sovietico è impietoso: «Il socialismo —
definito come un’economia pianificata centralmente nella quale il
governo controlla tutti i mezzi di produzione — è stato il tragico
fallimento del XX secolo. Nato da un impegno volto a rimediare i difetti
economici e morali del capitalismo, ha superato di parecchio il
capitalismo sia nel malfunzionamento economico sia nella crudeltà
morale» (mia traduzione da: Robert
Heilbroner, voce “Socialism”, The Concise Encyclopedia of
Economics). Evidentemente, Heilbroner qui tradisce l’uso tutto
americano di considerare il socialismo quale sinonimo dello statalismo
centralizzatore. La tradizione europea, correttamente, preferisce
distinguere fra le diverse correnti del socialismo, e in particolare fra
il socialismo e il comunismo: «Il socialismo — l’etimo stesso lo
suggerisce — è l’esaltazione della società e degli uomini che in
essa operano, non già dello Stato; è il trionfo di una superiore forma
di solidarietà fra i produttori, non già la pedagogia coercitiva e
terroristica somministrata da quella che Bakunin chiamò profeticamente
la “burocrazia rossa”; è l’universalizzazione dei valori
liberali, non già la loro negazione; la socializzazione del mercato,
non la sua distruzione; la saldatura fra democrazia economica e
democrazia politica, non già la tirannia ideocratica dei custodi
sacerdotali della Gnosi dialettica. In breve: il socialismo è
esattamente il contrario del comunismo. Sicché si può dire che
socialismo e comunismo hanno, sì, un’aria di famiglia (nel senso,
quanto meno, che il loro comune nemico è il capitalismo) ma nel
contempo costituiscono due modelli di organizzazione sociale
completamente distinti e mutuamente escludentisi.» (Luciano Pellicani, Miseria
del marxismo. Da Marx al Gulag, Sugarco, Milano, 1984, p. 200) [10]
Queste brevi notizie biografiche sono tratte da: Michele Alacevich,
“Heilbroner, economista della storia”, in CXXI, pp. ix-xvi. [11]
William
Milberg, “The Robert Heilbroner problem”, Social Research,
Summer 2004, (vers. digitale). [12]
La voglia di accrescere le proprie ricchezze non è prerogativa
esclusiva delle economie capitaliste: Heilbroner tuttavia rileva che
nelle società rette dai principi guida della “tradizione”
(conformità alle pratiche culturali e sociali del passato) e del
“comando” (obbedienza all’autorità, centralizzazione delle
decisioni) manca uno stretto legame con il “mercato” (autogestione
degli operatori economici), cioè l’economia non ha ancora acquistato
una dimensione autonoma, come invece accade nell’odierno capitalismo.
Quest’ultimo quindi privilegia il mercato nella misura in cui rende
possibile l’accumulazione di capitale, ma non ha cancellato né le
pratiche tradizionali né l’uso dell’autorità, che assumono però
una nuova funzione (CXXI, cap. 1). [13]
«Del sovrappiù [o profitto, ndr] il capitalista si appropria in quanto
possiede o controlla i mezzi di produzione e dopo avere pagato al suo
prezzo la forza lavoro. La destinazione del sovrappiù, d’altra parte,
non è più il consumo, bensì l’allargamento della produzione. La
moneta diventa essenziale al processo di produzione-riproduzione, poiché
la produzione capitalistica non è produzione di merci a mezzo di merci,
ma produzione di denaro a mezzo di denaro. E il mercato, infine, pervade
tutta la società: tutti i rapporti tra gli uomini passano per il
mercato» (Giorgio
Lunghini, "Capitale", voce della Enciclopedia
delle scienze sociali, volume
I, Istituto della Enciclopedia Italiana,
Roma 1991). Tutto ciò in teoria (conforme agli schemi di
riproduzione marxiani): in realtà, solo una parte del profitto viene
reinvestita nell’allargamento della produzione. Una percentuale
gratifica gli sforzi del capitalista come stratega e organizzatore delle
attività produttive (per lo svolgimento di quelle attività che
Schumpeter ha definito di “distruzione creatrice”: Joseph A.
Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, Etas, Milano,
2001, ed. or. 1942); un’altra porzione è destinata ad alimentare il
“consumo vistoso” proprio e dei familiari (cfr. Thorstein Veblen, La
teoria della classe agiata. Studio economico sulle istituzioni,
Einaudi, Torino, 1971, ed or. 1899); un’altra ancora, infine, è usata
per scopi di natura economica, anche se non direttamente legati alla
produzione, come per es. le attività finanziarie o la ricerca di
rendite immobiliari. Inoltre, il mercato non è (e non sarà mai,
nonostante gli auspici dei liberisti più spinti) il meccanismo di
regolazione unico del sistema economico: pensiamo all’importanza delle
istituzioni culturali e sociali nelle quali è radicata l’azione umana
(cfr. Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino,
1979, ed. or. 1944); pensiamo al ruolo essenziale svolto dalle
organizzazioni nelle nostre economie (cfr. Herbert Simon,
“Organizations & Markets”, Journal of Economic Perspectives,
vol. 5, n. 2, 1991, pp. 25-44); pensiamo, infine, al potere esercitato
dallo stato e dai suoi apparati centrali e periferici nei processi di
accumulazione, allocazione e distribuzione delle risorse (cfr. Joseph
Stiglitz, Il ruolo economico dello stato, il Mulino, Bologna,
1992, ed. or. 1989). [14]
Le crisi petrolifere degli anni ’70 e la grande depressione degli anni
’30 esemplificano, rispettivamente, le due forme di inceppamento del
meccanismo. [15]
Lo stato d’animo del capitalista è la sintesi di diversi elementi: la
sublimazione dell’istinto di sopraffazione (espresso in passato nelle
razzie, nelle guerre ecc.); la volontà di autoaffermazione personale;
la necessità di riconoscimento sociale (ricerca del prestigio e del
potere); la paura di perdere tutto nella lotta con gli altri capitalisti
(v. CXXI, cap. 2). [16]
Lo affermiamo pur partendo dal presupposto che ognuna delle soluzioni
verrà adottata in un’ottica puramente egoistica, in cui l’unico
obiettivo “buono” è quello di generare profitto per il singolo
capitalista. L’ideologia si periterà poi di sostenere (più o meno
convincentemente) che tutto ciò è “buono” anche per la società
nel suo complesso. [17]
Significativamente, l’economia egemone insegnata nelle accademie parla
a questo proposito di “mercato dei fattori produttivi”, intendendo
così parificare il lavoro (dunque le persone che lo realizzano) alle
risorse materiali. [18]
Su questo argomento, gli scritti di Ernesto Rossi sono ancora un punto
di riferimento imprescindibile per capire la natura del capitalismo
italiano. [19]
Questa considerazione è sviluppata da Ferrarotti: «Una cosa è certa:
il capitalismo è un “sistema”, ma non nel senso statico, granitico,
dato una volta per tutte, congelato, che questo termine suggerisce. È
un sistema nel senso di una vivente, delicatissima concatenazione di
pesi e contrappesi, di poteri e di forze in condizioni di costante,
precario equilibrio instabile, che si controbilanciano come in un
perpetuo balletto e che non si possono mai mutare o bloccare senza
mettere a repentaglio la stabilità complessiva del sistema globale. In
altre parole, il capitalismo è un sistema che non si può comprare o
vendere al dettaglio. [...] Sarebbe bello poter prendere la grande
capacità produttiva del capitalismo e combinarla con i principi di
equità distributiva del socialismo o della dottrina sociale cristiana.
Il risultato è, e non potrebbe non essere, un sincretistico pasticcio»
(Franco Ferrarotti, Il capitalismo, Newton & Compton, Roma,
2005, p. 110, i corsivi sono nel testo). Ma è pur vero che di simili
“sincretistici pasticci” è popolata l’economia del pianeta. [20]
Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, Newton & Compton,
Roma, 1995, Libro I, Cap. VIII, pp. 108-109. [21]
Non è casuale che, almeno in Italia, sia raramente consentito ai
principi della democrazia politica di varcare i confini aziendali.
Notiamo che dei benefici della “democrazia economica” spesso si
dibatte partendo da una loro falsa rappresentazione. I giovani
industriali italiani — per esempio — ne adottano una versione
estremamente angusta, del tutto piegata sui propri interessi:
per loro «[...] significa diffusione dei benefici del mercato e della
cultura d'impresa alla platea più ampia possibile di soggetti.
Promuoverla richiede azioni di innovazione su più livelli. Anzitutto
all'interno dell'azienda, trasformando il conflitto in
collaborazione, per aumentare la produttività e la condivisione dei
valori dell'impresa. In secondo luogo nelle relazioni industriali,
arricchendo l'esperienza positiva della concertazione con la volontà di
rendersi partecipe, a livello aziendale, dei frutti e dei rischi del
mercato. Infine nelle politiche economiche del governo, che devono rilanciare
i processi di privatizzazione - abbandonando logiche di cassa - e di
liberalizzazione, a favore della costruzione di nuovi modelli di mercato
che privilegino la concorrenza e quindi l'abbassamento delle tariffe.
Promuovere una democrazia economica significa innescare una vera e
propria rivoluzione culturale che coinvolga politici, imprenditori,
sindacalisti e opinione pubblica» (Manifesto
dei Giovani Imprenditori di Confindustria per il convegno di Capri, 4-5
ottobre 2002, i corsivi sono nostri). Al meglio, si tratta di
una proposta di “capitalismo democratico”, al peggio di un tentativo
di mistificazione. Il diritto dei lavoratori a partecipare alle scelte
aziendali e agli utili prodotti è l’aspetto della “democrazia
economica” che più si avvicina alla “autogestione” delle imprese,
ma non esaurisce gli ambiti della sfera economica nei quali le scelte
dei cittadini possono esercitarsi, pensiamo alla distribuzione del
reddito, agli investimenti pubblici, alle politiche del credito, alle
forme di consumo ecc.: per una seria riflessione su questo tema, cfr.
Robert Dahl, “Il processo democratico è giustificato nelle imprese
economiche?”, in Id., La democrazia e i suoi critici, Editori
Riuniti, Roma, 1990, (ed. or. 1989), pp. 496-502. |
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