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Robert L. Heilbroner, Il capitalismo del XXI secolo, Bruno Mondadori, Milano 2006, (ed. or. Twenty-first Century Capitalism, Anansi, Toronto 1992), pp. XVI+140.

 

Indice

 

VI            Ringraziamenti

IX            Heilbroner, economista della storia di Michele Alacevich

 

1             1.  Il capitalismo visto dall’esterno

25          2.  L’impulso all’accumulazione del capitale

53          3.  La politica del capitalismo

81          4.  Il sistema di mercato

107        5.  Scenari per il futuro

139        Indice dei nomi

 

 

Salvo Zedda -- "Scenari del capitalismo". Recensione

[12.04.2007]

1. Perché studiare ancora il capitalismo?

Il capitalismo del XXI secolo (d’ora in poi: CXXI) è un’agile sintesi del pensiero di Robert Heilbroner, apprezzato economista e divulgatore. La sua pubblicazione rappresenta un’ottima occasione per esplorare le fondamenta nascoste delle nostre società.

Riteniamo, infatti, che occuparsi di capitalismo non sia affatto futile, trattandosi della formazione sociale egemone che regola molta parte delle nostre esistenze.

Considerata dunque la sua importanza, non è questione che si possa delegare ai sacerdoti della dogmatica marxista.(1) C’è molto Marx anche in questo testo, come è giusto che sia: ma Heilbroner ne fa un uso critico. Le sacre icone ideologiche cedono il passo ad una visione laica più aderente alle linee su cui si sviluppa la realtà attuale.

«Quando noi diciamo che Marx è superato non intendiamo davvero dire con questo che nulla rimanga di vivo e di vitale del suo pensiero. Al contrario. Nessuno può sognarsi un totale quanto assurdo rinnegamento di Marx. [...] Il figlio si emancipa, ma non può rinnegare il proprio padre. I socialisti moderni sono figli di Marx, anche se oggi si rifiutano di ricevere la sua eredità senza un larghissimo beneficio d’inventario. [...] Accettare ciò che è vitale: respingere, apertamente, definitivamente, quanto nel marxismo v’ha di erroneo, di utopistico, di contingente».(2) Parole di Rosselli, che sottoscriviamo (a condizione di riconoscere l’esistenza di socialismi non marxisti ancora molto interessanti, pensiamo solo al contributo di Proudhon).

A parte rarissime eccezioni (Cuba, Nord Corea), dopo il dissolvimento dell’impero sovietico e la tardiva conversione di quello cinese, il sistema capitalista regna, pur con numerose varianti, da un capo all’altro del pianeta. Prendere atto di questa incontestabile vittoria, spinge ad interrogarsi sulle ragioni che hanno decretato la supremazia del capitalismo.

I suoi apologeti hanno avuto gioco facile nel sottolineare i fallimenti delle economie pianificate di stampo sovietico, in un crescendo polemico che ha presto investito ogni forma di intervento pubblico nell’economia. Comprendere il funzionamento del sistema economico che attualmente monopolizza la scena, è necessario anche per smascherare questa operazione di chiaro stampo conservatore.

In estrema sintesi, possiamo dire che questo sistema ha dimostrato finora di essere superiore ai propri rivali sotto tre aspetti: primo, permette di avere una disponibilità diffusa di beni e servizi tendenzialmente nei tempi e luoghi in cui servono, nelle quantità e qualità richieste, con prezzi che sono accessibili ad ampi strati della popolazione; secondo, alimenta pressoché incessantemente robuste correnti di innovazione tecnologica e organizzativa; infine, ha una notevole capacità di adattamento ai regimi istituzionali più disparati, dalle democrazie liberali ai comunismi asiatici, dalle teocrazie islamiche alle dittature fasciste.(3)

Tralasceremo quest’ultimo aspetto, per riprenderlo nelle nostre riflessioni finali. Quando i primi due dispositivi girano al meglio, tutti i difetti del capitalismo sembrano passare in secondo piano. Ne consegue che i sistemi alternativi devono inevitabilmente misurarsi con questi punti di forza, se vogliono avere qualche chance di successo.

Nell’ambito della sinistra comunista, molti si volgono stupiti a contemplare la straordinaria capacità del capitalismo di trasformarsi, cambiare abito (se non essenza), per adattarsi alle circostanze e sopravvivere nelle condizioni più estreme. Eppure Marx aveva intuito, e lasciato scritto, che il capitalismo è sempre una forza rivoluzionaria scardinatrice del vecchio: «[...] l’enorme influenza civilizzatrice del capitale [...] attua una rivoluzione permanente [...]»(4). Si era però sbagliato in un dettaglio di non scarso valore, essendo convinto che il capitalismo, per le sue "contraddizioni strutturali", fosse destinato a indebolirsi a tal punto che sarebbe bastata una spallata "rivoluzionaria" per abbatterlo.(5)

Non è andata così: ancora una volta «[i] fatti hanno superato le ideologie».(6)

Ritornando al testo di Heilbroner, il problema che si pone è capire da dove scaturisca l’energia che assicura questa mutazione continua del capitalismo, indicatrice di una vitalità che non accenna tutt’oggi a cedere il passo. Come vedremo più avanti, l’autore ne individua l’origine nell’insaziabile spinta verso l’accumulazione di capitale che anima i suoi detentori (individui che sono esclusivi proprietari degli strumenti utilizzati nella produzione: denaro, materie prime, macchinari, brevetti, fabbricati ecc.).

In termini molto generali, possiamo definire il capitalismo come quel tipo di economia e di società, dispiegatosi compiutamente a partire dalla rivoluzione industriale inglese del XVIII sec., che si regge su una incessante accumulazione di capitale, condotta dai membri della classe sociale che concentra nelle sue mani i principali mezzi di produzione.(7) Ne discende che questo «principio organizzativo centrale» (l’autoespansione del capitale) e le «istituzioni» ad esso connesse «esercitano un influsso su tutti gli aspetti della formazione sociale, sia che riguardino la vita materiale, la giustizia e l’ordine sociale [sia che riguardino] la tradizione e le ideologie».(8)

Il capitalismo ha limiti, anche gravi, che non possono essere negati, sui quali l’economista americano si sofferma nella parte conclusiva del suo lavoro. Significativamente, il libro dà per scontato che anche il XXI secolo sarà all’insegna del sistema capitalistico. Questa posizione risente indubbiamente delle modalità repentine e impreviste con cui si è consumato il crollo dei regimi comunisti europei (l’edizione originale risale infatti al 1992),(9) ma non deve essere letta come accettazione di una presunta universalità del capitalismo, il quale è visto, correttamente, come un fenomeno storicamente determinato.

2. Profilo di un economista critico.

Nato a New York nel 1919, Robert Louis Heilbroner ha compiuto in questa città tutte le principali tappe della sua esistenza fino alla morte, avvenuta nel 2005. Ha studiato alla Harvard University negli anni ’30, quando vi insegnavano alcuni dei protagonisti del New Deal e iniziavano a muovere i primi passi due giovani economisti non allineati, come Sweezy e Galbraith. Successivamente, si è perfezionato presso la New School for Social Research, sotto la guida del profugo tedesco Adolph Löwe, venendo a contatto con la tradizione europea più sensibile alla dimensione storica e istituzionale dei processi economici.(10) Accanto alla divulgazione di alto profilo culturale (ricordiamo il best seller The Worldly Philosophers del 1953, giunto alla 7a ed. — affresco di storia del pensiero economico in cui gli economisti sono presentati come cultori di una filosofia mondana, pratica, concretamente legata ai bisogni materiali dell’uomo), Heilbroner ha approfondito la conoscenza del marxismo (Marxismo pro e contro, tr. it. 1982) e ha analizzato il capitalismo, nel tentativo di comprenderne le origini, l’intima natura e la logica di funzionamento (Nascita e sviluppo della società capitalistica, tr. it. 1978; Natura e logica del capitalismo, tr. it. 2001).

Il taglio delle sue ricerche si discosta da quello prevalente nell’accademia americana, perché insiste sulle dinamiche endogene del sistema economico, mette in luce le relazioni fra le strutture sociali, la psicologia e il comportamento degli individui, e sottolinea, ispirandosi all’Adam Smith della Teoria dei sentimenti morali, i rapporti di reciproca influenza fra l’etica e l’efficienza economica.(11) Il lavoro che qui recensiamo è lo sbocco di questi studi, rivolto al grande pubblico, trascrizione di una serie di conferenze tenute alla radio canadese.

3. Dalle previsioni agli scenari.

Heilbroner si propone di capire se il sistema economico capitalistico dominerà anche il secolo nel quale oggi viviamo. Più che fare previsioni (di cui riconosce la scarsissima attendibilità), intende tratteggiare uno o più scenari di sviluppo futuro, nei quali il rigore dell’analisi si sposi con l’intuizione di quelle che potrebbero essere le traiettorie di mutamento: una sorta di visione complessiva, sistemica, del capitalismo, suggerita dall’evoluzione storica, dalla rilevanza dei problemi contingenti, dai convincimenti ideali del ricercatore (CXXI, pp. 107, 115-117). Questo tentativo cadrebbe nel vuoto se ogni variante del capitalismo non rispondesse ad un «orientamento di base, individuabile in tutte le sue specifiche incarnazioni nazionali» (CXXI, p. 3). Pertanto, la logica di funzionamento e i rapporti interni fra le variabili, messi in luce nell’analisi, sono da Heilborner proiettati nel futuro, definendo un’immagine generale di quello che potrebbe diventare il capitalismo.

Quali sono dunque le basi del sistema capitalistico?

4. Accumulazione e mercato.

Heilbroner fa discendere le proprietà specifiche del sistema capitalistico dal binomio "accumulazione-mercato"(12): il primo elemento rappresenta la crescita cumulativa di beni materiali e monetari, attraverso la continua trasformazione degli uni negli altri. Questa trasformazione avviene passando per il mercato, dove le diverse produzioni sono fra loro in competizione per incontrare la domanda di beni e servizi espressa dai consumatori. La vendita convoglia una parte dei redditi disponibili verso le casse delle imprese. Questo "ritorno a casa" delle risorse investite (possibilmente in forma accresciuta) è l’aspetto cruciale del rapporto "accumulazione-mercato". Infatti, non tutte le imprese saranno in grado di coprire i costi sostenuti (lo spettro del fallimento si materializza inesorabile), mentre altre (più abili, più fortunate o più protette) non solo copriranno le spese iniziali, ma otterranno ulteriori risorse monetarie (profitto) da investire in un nuovo ciclo di produzione.(13)

In teoria il meccanismo centrale del capitalismo potrebbe girare all’infinito, se non vi fossero intoppi di varia natura (fra gli altri, quelli legati alla scarsità di certe risorse, come per es. il petrolio, o alla misura del reddito disponibile per il consumo, legata alla sua ineguale distribuzione).(14)

È proprio su di esso che Heilbroner concentra il fuoco dell’analisi, sottolineando la voglia irrefrenabile di espandere le proprie ricchezze che caratterizza il capitalista. Questa pulsione non contenibile (da manuale di psicologia clinica)(15) lo spinge ad investire cospicue risorse in un processo di produzione e vendita che tuttavia è assai rischioso. Il pericolo numero uno per il capitalista che vuole rientrare dagli investimenti e maturare un profitto è rappresentato dal passaggio sotto le "forche caudine" della concorrenza di mercato — la principale fonte di conflitto interna alla classe capitalista — che ad ogni giro lascia sul campo morti, feriti e vincitori.

Il rischio di soccombere nella competizione costringe l’imprenditore-capitalista ad escogitare le vie più profittevoli per monetizzare la produzione. Non tutte però hanno pari valore morale e gli stessi effetti sociali e politici.(16)

La richiesta di efficienza impone risparmi sul fronte del mercato del lavoro e delle materie prime, in una prospettiva non più limitata entro i confini di uno stato,(17) ma anche miglioramenti dei processi di produzione (con interventi di tipo organizzativo e tecnologico). Il prodotto stesso subisce una trasformazione, con l’invenzione di nuove versioni più aderenti alla domanda dei consumatori. In parallelo, enormi energie sono profuse nella pubblicità, nella costruzione del marchio e dell’immagine, nella creazione di falsi bisogni. L’ingente misura di questi sforzi spesso richiede la ricerca di nuovi sbocchi di mercato (causa non certo secondaria dell’attuale globalizzazione economica), accanto alla mercificazione di nuovi ambiti della vita sociale (gli stili di vita, il tempo libero, i beni comuni ecc.). Lo spettro del naufragio sul mercato lo può spingere, infine, a cercare protezioni, di regola nelle stanze delle burocrazie statali o fra i rappresentanti parlamentari e governativi, non disdegnando le relazioni collusive con i propri concorrenti o la progressiva assunzione di una posizione dominante di tipo monopolistico.(18)

Risulta evidente che «[...] i mercati sono una parte del capitalismo, ma non ne costituiscono l’intero, e la discrepanza tra i due termini è grandissima» (CXXI, 81). Infatti, «[i]l sistema di mercato è il mezzo principale per legare e coordinare l’insieme, ma i mercati non sono la fonte delle energie del capitalismo [...]. I mercati sono le condutture attraverso cui scorrono le energie del sistema e il meccanismo grazie al quale il regno privato può organizzare i suoi compiti senza l’intervento diretto del regno pubblico» (CXXI, 82).

Tuttavia, l’importanza del sistema di mercato come principio di organizzazione economica balza agli occhi facendo un semplice confronto con un qualsiasi sistema di pianificazione centralizzata (Heilbroner ricorre all’esperienza sovietica). Quest’ultimo ha un nemico mortale nell’inerzia della burocrazia, nella mancanza di incentivi (a parte — eventualmente – la paura della punizione) che inducano le persone a ricercare la risoluzione dei problemi e a intraprendere le azioni necessarie: in altri termini, «la grande fonte di disordine nelle economie di comando [pianificate centralmente] è la mancanza di una struttura in cui l’interesse personale porti ad azioni socialmente utili» (CXXI, 91), mentre è proprio questo meccanismo di regolazione il punto di forza del mercato.

Heilbroner mostra come l’ensemble "accumulazione capitalistica-mercato" abbia cambiato il volto delle nostre società. Il fatto di innalzare gli standard di vita della popolazione, attraverso la crescita di lungo periodo dei redditi medi pro capite, è stato certamente un grande elemento di rottura con le forme di economia del passato. A fronte di questo maggiore benessere materiale permane tuttavia una distribuzione diseguale del reddito e della ricchezza (in alcuni paesi meno che in altri), così come non sono scomparsi né il pericolo dello sfruttamento umano, né quello della distruzione dell’ambiente. A livello internazionale, inoltre, le economie più avanzate continuano a drenare risorse dalle economie più arretrate, che coincidono con la "periferia" sottosviluppata. Infine, anche se le crisi periodiche e l’instabilità del sistema sono l’effetto inevitabile del cambiamento e dell’innovazione, essi pesano in larga misura sui lavoratori più che sul capitale. La sua riflessione in merito sembra piuttosto sconfortante: «Forse sarebbe meglio dire che l’accumulazione comporta sia il successo sia il fallimento: il successo, perché è indispensabile per il benessere materiale, e l’insuccesso perché è inseparabile dagli effetti sociali avversi, inclusa l’instabilità. [...] Ma deve essere chiaro che [...] non avremo mai l’uno senza l’altro» (CXXI, 51-52).(19)

Anche se si presenta come un Giano bifronte, è chiaro che non può essere indifferente per la sinistra che il sistema mostri solo la faccia dello sfruttamento sistematico del lavoro e dell’ambiente: ci pare ovvio che un capitalismo "dal volto umano" sia da preferire ad un capitalismo "di rapina".

5. Accumulazione e potere.

Ma quella particolare forma di ricchezza che è l’accumulazione di capitale ha ripercussioni rilevanti sia sul versante sociale sia sul fronte politico: in primo luogo, emerge una stratificazione in classi sociali perché «[...] la ricchezza è inestricabilmente associata alla diseguaglianza» (CXXI, 28). È presente un’asimmetria di risorse e opportunità fra i capitalisti e le persone che lavorano (o vorrebbero lavorare) per loro: è da qui che occorre partire per comprendere la natura del potere esercitato da chi possiede i mezzi di produzione; un potere senza dubbio diverso (e meno violento, nei paesi dov’è regolato dalla legge) di quello tipico dei regimi feudali o schiavisti, ma non per questo meno reale ed efficace. Infatti, «[l]a mancanza di ricchezza può costringere un individuo che ha una situazione finanziaria meno favorevole a entrare in una situazione di mercato con un individuo che ha una situazione finanziaria più favorevole, proprio a causa di questa disparità di condizione» (CXXI, 29). Persino Adam Smith riconosce che, nel corso della contrattazione, il capitalista può aspettare senza troppi affanni che maturi la situazione a lui favorevole, mentre la forza-lavoro è in grado di resistere per poco tempo, ed è poi costretta ad accettare le condizioni che gli sono offerte.(20) Il potere del capitalista si esercita nel diritto di negare l’accesso ai mezzi di produzione (diritto conferitogli dalla legislazione come corollario del diritto di proprietà). Può dunque decidere di non assumere una persona, oppure di licenziarla (come anche di allocare la forza-lavoro come meglio crede, in rapporto alle esigenze della produzione). Anche se nelle democrazie più avanzate questi momenti sono in genere regolamentati, le ripercussioni sull’esistenza dei lavoratori possono essere profonde.(21)

In secondo luogo, la divisione in classi della società è importante dal punto di vista politico, perché implica conflitti, latenti o palesi, fra gli strati superiori e quelli inferiori (una "lotta di classe" che nei sistemi occidentali è molto meno polarizzata di quanto avesse previsto Marx, per l’esistenza di un’ampia e composita fascia intermedia).

6. Stato e capitalismo.

La presenza di questi conflitti costringe i governi ad assicurare un certo livello di coesione sociale, ma non è facile imbrigliare l’energia caotica del capitalismo. Ed è proprio la faglia perennemente in tensione dei rapporti fra la sfera statale e quella delle imprese, uno dei temi trattati più a fondo da Heilbroner (CXII, cap. 3).

In realtà, mondo degli affari e governo rispondono ad imperativi diversi, che non necessariamente determinano un conflitto. Nella maggior parte dei casi c’è una dipendenza reciproca. Infatti, l’accumulazione capitalistica è resa possibile dalla buona organizzazione dello stato (infrastrutture, difesa, istruzione ecc.), mentre il governo dipende da un’economia sana per ottenere (attraverso la tassazione) le risorse necessarie al funzionamento dell’apparato pubblico. A partire dalla fine degli anni ’70 — con la crisi profonda che ha coinvolto il "compromesso keynesiano" postbellico, nel quale era assegnato allo stato il compito di intervenire per correggere le maggiori distorsioni del capitalismo (erogando pensioni, assistenza, sanità, sussidi di disoccupazione; creando domanda pubblica; sostenendo la domanda privata) —, la posizione delle imprese si è sempre più rafforzata, sia in termini tecnico-organizzativi, sia in termini ideologici. Se è vero che la prosperità economica sostiene la stabilità del sistema, in quanto riduce i conflitti fra capitale e lavoro (per es., consente di aumentare i salari e finanziare programmi di assistenza sociale), accade però che nelle fasi di crisi le ristrutturazioni sono pagate in misura maggiore dai lavoratori rispetto al capitale: Heilbroner cita il caso delle politiche anti-inflazionistiche degli anni ’80, e del conseguente abbandono dell’obiettivo della piena occupazione (la più grande vittoria della destra liberista).

Il problema del rapporto fra le due sfere è presente anche su scala transnazionale ed è riassumibile nella constatazione che «[i]l sistema di mercato globalizzato si estende al di là dell’autorità politica dei singoli governi» (CXXI, 66). Un flusso di merci e denaro di misura eccezionale è orchestrato dal capitale senza tenere conto dei confini fra gli stati, basti pensare che «[...] nel 1985 la somma delle vendite delle 350 più grandi corporation transnazionali ammontava a un terzo del prodotto nazionale lordo complessivo di tutti i paesi industriali e superava il totale del PNL di tutti i paesi in via di sviluppo, Cina inclusa» (CXXI, 65). Un dato che — se aggiornato al 2007 — assumerebbe proporzioni ancora maggiori. I governi constatano che il loro potere è circoscritto ai confini dello stato, per cui può essere esercitato molto debolmente nell’orientare i processi di globalizzazione economica: ciò è particolarmente frustrante quando i cittadini perdono il proprio lavoro perché le imprese traslocano impianti e stabilimenti dove i costi sono per loro più favorevoli.

C’è una differente capacità di risposta: mentre lo stato reagisce lentamente, il capitalismo corre a rotta di collo.

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Note:

[1] La versione caricaturale del capitalismo che dipingono i “fideisti” è stigmatizzata dagli studiosi marxisti che sono più consapevoli delle difficoltà poste dal problema: «[...] la griglia concettuale attorno a cui discutono da tempo gli economisti della sinistra radicale in Italia è del tutto incapace di vedere le metamorfosi del capitalismo contemporaneo, e di intendere dunque la natura e gli effetti della politica economica attuale, anche perché prende le mosse da un quadro inattendibile dei recenti sviluppi della teoria economica» (Riccardo Bellofiore e Joseph Halevi, Tendenze del capitalismo contemporaneo, destrutturazione del lavoro e limiti del ‘keynesismo’. Per una critica della politica economica). C’è da dire che gli economisti neoclassici (pensiamo ai Chicagoans allevati dal recentemente scomparso Milton Friedman) e quelli di scuola austriaca (i discepoli di von Mises e Hayek) — all’opposto — rimuovono decisamente il problema, occultando la reale natura del capitalismo sotto il nome «innocuo ma privo di significato» di «sistema di mercato», impostosi su altre espressioni edulcorate, quali «sovranità del consumatore» e «libertà d’impresa» (nel commentare questi tentativi, John K. Galbraith esercita il suo sarcasmo corrosivo: v. L’economia della truffa, Rizzoli, Milano, 2003, pp. 16-29). Far coincidere il mercato e la libertà con il capitalismo è infatti mistificatorio, dato che i primi — in un sistema socialista decentrato, non autoritario, basato sull’autogestione — sarebbero elementi essenziali della progressiva socializzazione (nota bene: non statalizzazione) della base economica.

[2] Carlo Rosselli, Socialismo liberale e altri scritti, a cura di John Rosselli, Einaudi, Torino, 1973, pp. 419 e 420 (il corsivo è nel testo), in un capitolo significativamente intitolato “Superamento del marxismo”.

[3] Cfr. l’analisi dei punti di forza del capitalismo svolta con grande maestria dal sociologo Peter L. Berger, La rivoluzione capitalistica. Prosperità, uguaglianza, libertà, intr. di Giorgio Galli, Sugarco, Milano, 1992 (ed. or. 1986, aggiornata nel 1991).

[4] Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze, 1970, vol. II, pp. 11-12.

[5]  «[...] Ma la produzione capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione» (Karl Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, Roma, 1989, vol. I, ed. or. 1867, p. 826, l’enfasi nel testo è nostra). Ricordiamo brevemente, senza dubbio scontando un eccesso di banalizzazione, quali sono le “tendenze ineluttabili” che Marx mette in campo (la loro definizione è in realtà piuttosto ambigua, anche se, in linea generale, sono rappresentate come forze «[...] che operano e si fanno valere con bronzea necessità», Id., “Prefazione alla prima edizione”, op. cit. , p. 32): il lavoro produttivo si proletarizza completamente (scompare la piccola imprenditoria indipendente, dopo una lunga catena di fallimenti); i lavoratori si impoveriscono sempre più (fra riduzione dei salari e disoccupazione crescente); infatti, le macchine sostituiscono progressivamente il lavoro umano; in questo modo viene tuttavia a mancare la fonte dei profitti capitalistici (cioè il plusvalore estratto dalla forza-lavoro); i mezzi di produzione si concentrano ulteriormente nelle mani di pochi capitalisti, a causa della rovina dei concorrenti più deboli; subentra, infine, la crisi dirompente scatenata dalla sovraproduzione (o dal sottoconsumo), dato che i prodotti non trovano più sbocchi di mercato. ll “proletariato organizzato” dovrebbe allora sfruttare queste condizioni per distruggere con atto rivoluzionario le basi di un capitalismo fortemente debilitato e sostituirle (dopo una fase dittatoriale) con quelle della società comunista. Lungo il suo arco evolutivo (segnato da cicli di espansione e contrazione più o meno pronunciate), il capitalismo (ovviamente, con questo nome semplifichiamo una realtà differenziata) ha spesso dato l’impressione di imboccare la via preconizzata da Marx, ma (almeno fino ad ora) è sempre riuscito a sottrarsi ad un destino letale. Da questo punto di vista, il libro di Heilbroner tenta di spiegare le ragioni non solo di questa mancata scomparsa, ma soprattutto del suo attuale e diffuso successo come modalità di organizzazione delle attività economiche.

[6] Così annotava il giovane Gramsci nel 1917, mentre riconosceva che quella russa era stata una rivoluzione contro le previsioni contenute nel Capitale: Antonio Gramsci, “La rivoluzione contro il «Capitale»”, Avanti!, ed. milanese, 24.11.1917, ripubbl. in Scritti giovanili 1914-1918, Einaudi, Torino, 1975, pp. 149-153.

[7] Per comodità di esposizione (quindi tralasciando colpevolmente l’indicazione delle sue origini storiche, oltre che delle architetture istituzionali, sociali e culturali che lo accompagnano), abbiamo riassunto la voce “Capitalismo” di Tom Bottomore, nel Dizionario delle scienze sociali, il Saggiatore, Milano, 1997, pp. 59-61. Notiamo che questa definizione è così generale da poter includere il caso della “classe burocratica” che, attraverso il controllo del partito unico e degli apparati pubblici, accentra tutti i mezzi di produzione nel cosiddetto “capitalismo di stato” dei sistemi comunisti (sul quale si sono appuntate le analisi critiche di Mandel, Gilas, Saverio Merlino, Rizzi, Castoriadis: cfr. l’antologia introdotta e curata da Lorenzo Infantino, Il mito del collettivismo, Sugarco, Milano, 1983). Ma qui si apre un fronte che dobbiamo necessariamente abbandonare, per quanto sia estremamente suggestivo nella prospettiva di un socialismo liberale e libertario: ci proponiamo di riprenderlo in un’altra occasione. Notiamo comunque che, a differenza del “capitalismo di stato”, l’accumulazione capitalistica “classica” richiede la mediazione del mercato (anche se artefatto, come accade nei casi di monopolio, collusione ecc.) per potere dispiegare i propri effetti in termini di crescita del surplus.

[8] Robert L. Heilbroner, Natura e logica del capitalismo, Jaca Book, Milano, 2001, (ed. or. 1985), p. 66. “Esercitare un influsso” non deve significare — l’A. pare esserne consapevole — causare in modo deterministico un effetto. Nella sua analisi c’è tuttavia il concreto rischio di cadere nell’errore del materialismo storico marxista, il quale consiste, volendo astrarre dalla sua componente messianica, nel fare derivare meccanicamente le sfere della cultura, della politica, della scienza dalla struttura economica, mentre l’evoluzione sociale, con i suoi rallentamenti e le sue accelerazioni, è in realtà un processo storico non teleologico di condizionamento reciproco, come lucidamente era stato compreso da Thorstein Veblen e Max Weber.

[9] Il suo giudizio sul modello sovietico è impietoso: «Il socialismo — definito come un’economia pianificata centralmente nella quale il governo controlla tutti i mezzi di produzione — è stato il tragico fallimento del XX secolo. Nato da un impegno volto a rimediare i difetti economici e morali del capitalismo, ha superato di parecchio il capitalismo sia nel malfunzionamento economico sia nella crudeltà morale» (mia traduzione da: Robert Heilbroner, voce “Socialism”, The Concise Encyclopedia of Economics). Evidentemente, Heilbroner qui tradisce l’uso tutto americano di considerare il socialismo quale sinonimo dello statalismo centralizzatore. La tradizione europea, correttamente, preferisce distinguere fra le diverse correnti del socialismo, e in particolare fra il socialismo e il comunismo: «Il socialismo — l’etimo stesso lo suggerisce — è l’esaltazione della società e degli uomini che in essa operano, non già dello Stato; è il trionfo di una superiore forma di solidarietà fra i produttori, non già la pedagogia coercitiva e terroristica somministrata da quella che Bakunin chiamò profeticamente la “burocrazia rossa”; è l’universalizzazione dei valori liberali, non già la loro negazione; la socializzazione del mercato, non la sua distruzione; la saldatura fra democrazia economica e democrazia politica, non già la tirannia ideocratica dei custodi sacerdotali della Gnosi dialettica. In breve: il socialismo è esattamente il contrario del comunismo. Sicché si può dire che socialismo e comunismo hanno, sì, un’aria di famiglia (nel senso, quanto meno, che il loro comune nemico è il capitalismo) ma nel contempo costituiscono due modelli di organizzazione sociale completamente distinti e mutuamente escludentisi.» (Luciano Pellicani, Miseria del marxismo. Da Marx al Gulag, Sugarco, Milano, 1984, p. 200)

[10] Queste brevi notizie biografiche sono tratte da: Michele Alacevich, “Heilbroner, economista della storia”, in CXXI, pp. ix-xvi.

[11] William Milberg, “The Robert Heilbroner problem”, Social Research, Summer 2004, (vers. digitale).

[12] La voglia di accrescere le proprie ricchezze non è prerogativa esclusiva delle economie capitaliste: Heilbroner tuttavia rileva che nelle società rette dai principi guida della “tradizione” (conformità alle pratiche culturali e sociali del passato) e del “comando” (obbedienza all’autorità, centralizzazione delle decisioni) manca uno stretto legame con il “mercato” (autogestione degli operatori economici), cioè l’economia non ha ancora acquistato una dimensione autonoma, come invece accade nell’odierno capitalismo. Quest’ultimo quindi privilegia il mercato nella misura in cui rende possibile l’accumulazione di capitale, ma non ha cancellato né le pratiche tradizionali né l’uso dell’autorità, che assumono però una nuova funzione (CXXI, cap. 1).

[13] «Del sovrappiù [o profitto, ndr] il capitalista si appropria in quanto possiede o controlla i mezzi di produzione e dopo avere pagato al suo prezzo la forza lavoro. La destinazione del sovrappiù, d’altra parte, non è più il consumo, bensì l’allargamento della produzione. La moneta diventa essenziale al processo di produzione-riproduzione, poiché la produzione capitalistica non è produzione di merci a mezzo di merci, ma produzione di denaro a mezzo di denaro. E il mercato, infine, pervade tutta la società: tutti i rapporti tra gli uomini passano per il mercato» (Giorgio Lunghini, "Capitale", voce della Enciclopedia delle scienze sociali, volume I, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1991). Tutto ciò in teoria (conforme agli schemi di riproduzione marxiani): in realtà, solo una parte del profitto viene reinvestita nell’allargamento della produzione. Una percentuale gratifica gli sforzi del capitalista come stratega e organizzatore delle attività produttive (per lo svolgimento di quelle attività che Schumpeter ha definito di “distruzione creatrice”: Joseph A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, Etas, Milano, 2001, ed. or. 1942); un’altra porzione è destinata ad alimentare il “consumo vistoso” proprio e dei familiari (cfr. Thorstein Veblen, La teoria della classe agiata. Studio economico sulle istituzioni, Einaudi, Torino, 1971, ed or. 1899); un’altra ancora, infine, è usata per scopi di natura economica, anche se non direttamente legati alla produzione, come per es. le attività finanziarie o la ricerca di rendite immobiliari. Inoltre, il mercato non è (e non sarà mai, nonostante gli auspici dei liberisti più spinti) il meccanismo di regolazione unico del sistema economico: pensiamo all’importanza delle istituzioni culturali e sociali nelle quali è radicata l’azione umana (cfr. Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1979, ed. or. 1944); pensiamo al ruolo essenziale svolto dalle organizzazioni nelle nostre economie (cfr. Herbert Simon, “Organizations & Markets”, Journal of Economic Perspectives, vol. 5, n. 2, 1991, pp. 25-44); pensiamo, infine, al potere esercitato dallo stato e dai suoi apparati centrali e periferici nei processi di accumulazione, allocazione e distribuzione delle risorse (cfr. Joseph Stiglitz, Il ruolo economico dello stato, il Mulino, Bologna, 1992, ed. or. 1989).

[14] Le crisi petrolifere degli anni ’70 e la grande depressione degli anni ’30 esemplificano, rispettivamente, le due forme di inceppamento del meccanismo.

[15] Lo stato d’animo del capitalista è la sintesi di diversi elementi: la sublimazione dell’istinto di sopraffazione (espresso in passato nelle razzie, nelle guerre ecc.); la volontà di autoaffermazione personale; la necessità di riconoscimento sociale (ricerca del prestigio e del potere); la paura di perdere tutto nella lotta con gli altri capitalisti (v. CXXI, cap. 2).

[16] Lo affermiamo pur partendo dal presupposto che ognuna delle soluzioni verrà adottata in un’ottica puramente egoistica, in cui l’unico obiettivo “buono” è quello di generare profitto per il singolo capitalista. L’ideologia si periterà poi di sostenere (più o meno convincentemente) che tutto ciò è “buono” anche per la società nel suo complesso.

[17] Significativamente, l’economia egemone insegnata nelle accademie parla a questo proposito di “mercato dei fattori produttivi”, intendendo così parificare il lavoro (dunque le persone che lo realizzano) alle risorse materiali.

[18] Su questo argomento, gli scritti di Ernesto Rossi sono ancora un punto di riferimento imprescindibile per capire la natura del capitalismo italiano.

[19] Questa considerazione è sviluppata da Ferrarotti: «Una cosa è certa: il capitalismo è un “sistema”, ma non nel senso statico, granitico, dato una volta per tutte, congelato, che questo termine suggerisce. È un sistema nel senso di una vivente, delicatissima concatenazione di pesi e contrappesi, di poteri e di forze in condizioni di costante, precario equilibrio instabile, che si controbilanciano come in un perpetuo balletto e che non si possono mai mutare o bloccare senza mettere a repentaglio la stabilità complessiva del sistema globale. In altre parole, il capitalismo è un sistema che non si può comprare o vendere al dettaglio. [...] Sarebbe bello poter prendere la grande capacità produttiva del capitalismo e combinarla con i principi di equità distributiva del socialismo o della dottrina sociale cristiana. Il risultato è, e non potrebbe non essere, un sincretistico pasticcio» (Franco Ferrarotti, Il capitalismo, Newton & Compton, Roma, 2005, p. 110, i corsivi sono nel testo). Ma è pur vero che di simili “sincretistici pasticci” è popolata l’economia del pianeta.

[20] Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, Newton & Compton, Roma, 1995, Libro I, Cap. VIII, pp. 108-109.

[21] Non è casuale che, almeno in Italia, sia raramente consentito ai principi della democrazia politica di varcare i confini aziendali. Notiamo che dei benefici della “democrazia economica” spesso si dibatte partendo da una loro falsa rappresentazione. I giovani industriali italiani — per esempio — ne adottano una versione estremamente angusta, del tutto piegata sui propri interessi: per loro «[...] significa diffusione dei benefici del mercato e della cultura d'impresa alla platea più ampia possibile di soggetti. Promuoverla richiede azioni di innovazione su più livelli. Anzitutto all'interno dell'azienda, trasformando il conflitto in collaborazione, per aumentare la produttività e la condivisione dei valori dell'impresa. In secondo luogo nelle relazioni industriali, arricchendo l'esperienza positiva della concertazione con la volontà di rendersi partecipe, a livello aziendale, dei frutti e dei rischi del mercato. Infine nelle politiche economiche del governo, che devono rilanciare i processi di privatizzazione - abbandonando logiche di cassa - e di liberalizzazione, a favore della costruzione di nuovi modelli di mercato che privilegino la concorrenza e quindi l'abbassamento delle tariffe. Promuovere una democrazia economica significa innescare una vera e propria rivoluzione culturale che coinvolga politici, imprenditori, sindacalisti e opinione pubblica» (Manifesto dei Giovani Imprenditori di Confindustria per il convegno di Capri, 4-5 ottobre 2002, i corsivi sono nostri). Al meglio, si tratta di una proposta di “capitalismo democratico”, al peggio di un tentativo di mistificazione. Il diritto dei lavoratori a partecipare alle scelte aziendali e agli utili prodotti è l’aspetto della “democrazia economica” che più si avvicina alla “autogestione” delle imprese, ma non esaurisce gli ambiti della sfera economica nei quali le scelte dei cittadini possono esercitarsi, pensiamo alla distribuzione del reddito, agli investimenti pubblici, alle politiche del credito, alle forme di consumo ecc.: per una seria riflessione su questo tema, cfr. Robert Dahl, “Il processo democratico è giustificato nelle imprese economiche?”, in Id., La democrazia e i suoi critici, Editori Riuniti, Roma, 1990, (ed. or. 1989), pp. 496-502.

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