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Indice sezione "Frontiere"

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Robert L. Heilbroner, Il capitalismo del XXI secolo, Bruno Mondadori, Milano 2006, (ed. or. Twenty-first Century Capitalism, Anansi, Toronto 1992), pp. XVI+140.

 

Indice

 

VI            Ringraziamenti

IX            Heilbroner, economista della storia di Michele Alacevich

 

1             1.  Il capitalismo visto dall’esterno

25          2.  L’impulso all’accumulazione del capitale

53          3.  La politica del capitalismo

81          4.  Il sistema di mercato

107        5.  Scenari per il futuro

139        Indice dei nomi

 

 

7. Problemi aperti.

A questo punto la natura e la logica di funzionamento del sistema capitalistico sono sufficientemente chiare. I vantaggi dell’abbondanza materiale non devono nascondere i limiti spesso profondi di questa forma di organizzazione della produzione.

Heilbroner si chiede se una data società possa fare affidamento su un sistema economico guidato soltanto dagli interessi materiali delle persone, come viene predicato dalla Banca mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale. Questa politica presuppone infatti che il mercato sia la cura di qualsiasi male. In realtà, la scienza economica ha mostrato con dovizia di studi che il mercato può fallire nella sua funzione di conseguire l’ordine economico.

Sul versante più strettamente economico, sono questi i casi di fallimento più comuni:

· il meccanismo base del mercato, cioè la concorrenza, è messo in crisi dall’emergere delle imprese di grandi dimensioni, una condizione che favorisce la costituzione di monopoli, oligopoli, posizioni dominanti e rapporti collusivi di varia natura;(22)

· l’autoregolazione del mercato può essere minata da quei comportamenti aggregati degli operatori economici che determinano risultati complessivi di natura controfattuale, aggravando la naturale discrepanza fra aspettative e risultati;(23)

· esistono "esternalità negative" connaturate ai meccanismi di mercato, che sono costi pagati dalla collettività e non dalle imprese che producono gli effetti esterni sfavorevoli (un caso da manuale è quello dell’inquinamento). In altri termini, una data impresa può essere del tutto efficiente per quanto riguarda le sue attività interne, ma al tempo stesso può nascondere gravi inefficienze nel suo rapporto con l’ambiente naturale, la società e i singoli cittadini. Questi costi "esterni" dovrebbero essere calcolati per stimare correttamente il costo totale della produzione di una certa categoria di beni;

· i mercati per loro natura prendono in considerazione soltanto i beni vendibili (che hanno cioè un valore di scambio), mentre respingono o trattano inefficientemente i beni pubblici, come succede per l’educazione, la salute, i paesaggi incontaminati ecc. Le imprese non hanno la convenienza economica di produrre questi beni in modo da soddisfare i bisogni delle persone, che al contrario ne apprezzano molto il valore d’uso;(24)

Ci sono, tuttavia, conflitti più profondi fra le ragioni del capitalismo di mercato e il funzionamento ordinato della società:

· non sono rare le occasioni in cui l’ethos del capitalismo entra in conflitto con i valori e le istituzioni della società. "Ognuno per sé", "vizi privati, pubbliche virtù", che riportano in auge i paradossi settecenteschi di Bernard de Mandeville, sono le parole d’ordine tipiche di un certo estremismo liberista. Dalla loro applicazione concreta, quando va bene, scaturiscono opulenza e benessere materiale per una parte della società, ma sempre al costo di fratture e lacerazioni dovute alla progressiva dissoluzione dei legami di solidarietà fra le persone e alla persistenza d’ineguaglianze;(25)

· è ormai chiaro che la pubblicità a lungo andare impone precisi modelli culturali, nei quali il consumo è considerato il momento esistenziale centrale delle persone.(26)

Aggrava questa sequenza di effetti indesiderati un potere economico enormemente cresciuto con la globalizzazione dei mercati, che non trova efficaci contromisure da parte degli stati, i quali non sembrano in grado né di regolare il funzionamento dei flussi di beni e servizi su scala mondiale né di stabilizzare il sistema economico planetario in caso di crisi.

La riflessione di Heilbroner su questi problemi non sappiamo se possa essere definita sconsolata o provocatoria: è innegabile che «[...] il mercato impone costi insieme ai suoi benefici, costi a volte grandissimi, forse addirittura allarmanti. Ma con che cosa lo si potrebbe sostituire?» L’interrogativo continua a riproporsi, perché sinora le risposte date non sono state all’altezza della sfida. La fine ingloriosa della pianificazione sovietica — cioè del principale tentativo di sostituire il capitalismo a regolazione di mercato — dimostra una volta di più che «[...] non è [...] facile descrivere la struttura di una società che possa evitare questi problemi» (CXXI, 106).

8. Perché il capitalismo continua ad avere successo?

Parafrasando il celebre (e cinico) aforisma di Churchill, potremmo affermare che "il capitalismo è il peggiore fra i sistemi economici, tranne tutti gli altri". Ma Heibroner non è autore che si compiace dei motti di spirito, per quanto arguti. Scava quindi in profondità per cogliere le ragioni della continua espansione del sistema capitalistico, nonostante l’ampio spettro di problemi che porta con sé.

La sua tesi è questa: «[...] un ordine sociale in cui esista un regno economico separato è indispensabile per la libertà, e [...] fino a oggi l’unica società di questo tipo è stata quella capitalistica. [...] Per dirla in altri termini, lo Stato di esplicita libertà politica che noi in modo impreciso chiamiamo "democrazia" è finora apparso solo in nazioni in cui il capitalismo è il modo di organizzazione economica» (CXXI, 78). Può piacere o meno, ma quest’affermazione ha un suo fondamento empirico.

Attenzione: la tesi di Heilbroner non concede affatto che la ricerca di sempre maggiori capitali «generi uno stato d’animo di amore per la libertà» (CXXI, 78). Non deve essere considerata un alibi per giustificare l’accumulazione capitalistica più sfrenata, dato che non esiste alcuna correlazione fra questo atteggiamento predatorio e il tasso di libertà politica di un paese — come d’altra parte ammonisce l’esperienza dei fascismi europei e sudamericani, che tale libertà hanno negato in radice.

L’economista americano afferma, piuttosto, che l’esistenza di una sfera dell’economia relativamente autonoma da quella statale è un elemento essenziale per la libertà, in quanto le persone dissenzienti dai governi possono trovare sostentamento e lavoro nel settore privato. L’assenza di un simile "cuscinetto" fra stato e individuo salta agli occhi in quei paesi che sono retti da regimi dittatoriali. L’autonomia delle attività economiche è perciò un modo di ridurre l’onnipotenza della stato. Potremmo completare questo ragionamento, aggiungendo che ciò vale per tutti i "corpi intermedi" della società: la famiglia, le associazioni, i sindacati ecc.; si tratta di una verità della quale i socialisti non accecati dalla statolatria marxista sono sempre stati consapevoli.

Queste considerazioni generali devono, tuttavia, essere sottoposte ad alcuni distinguo. Innanzitutto, quello del settore privato è comunque un "rifugio" imperfetto (sebbene importante), perché anche le imprese sono restie a dare lavoro a coloro che sono percepiti come dissidenti, sovversivi, eretici o nemici dichiarati dell’ordine esistente.(27)

Notiamo poi che, in modo complementare, è lecito affermare che lo stato e le amministrazioni pubbliche, in un sistema democratico che prevede l’accesso al lavoro tramite concorsi aperti a tutti i cittadini, possano offrire rifugio non solo a quanti dissentono dall’ordine capitalistico, ma anche alle donne, alle minoranze religiose ed etniche, ai disabili; nell’insieme a quelle categorie che sono "deboli" sul mercato privatistico del lavoro. Inoltre, l’aggressività dei rapporti mercantili — in forme diverse, certo, dagli apparati statali, che hanno a disposizione potenti mezzi di coercizione — può ugualmente indebolire, e persino distruggere, gli altri "corpi intermedi" della società, sciogliendo la loro forza solidale in una impersonale atomizzazione.

La morale che traiamo da questa parte estremamente interessante del lavoro di Heilbroner non può che essere la seguente: soltanto un regime fondato sulla differenziazione delle strutture sociali, sul rispetto delle diversità, sull’accettazione e promozione del pluralismo, sulla partecipazione democratica, sulla suddivisione reale dei poteri e il primato della legge, è in grado di neutralizzare gli effetti più nocivi del capitalismo. Ed è solo questo tipo di sistema sociale e istituzionale che consente di porre le basi per andare oltre il capitalismo.

9. Andare oltre il capitalismo, si può?

Heilbroner rileva come i grandi economisti del passato — Smith, Marx, Keynes, Schumpeter — sembrano tutti percepire le caratteristiche autodistruttive del capitalismo: «[...] il sistema prima o poi darà origine a problemi ingestibili e dovrà cedere il posto a un suo successore» (CXXI, 120). Da dove nasce questo loro giudizio? Il sistema, anche se produce una serie di benefici (gli unici sottolineati dai suoi apologeti), deve misurarsi, in realtà, con inflazione, sottoccupazione, instabilità, crisi, conflitti, diseguaglianze. Viene anche messa in dubbio la sua validità politica e morale, perché il capitalismo si regge sullo squilibrio di potere fra i detentori dei mezzi di produzione e i loro lavoratori. Un’asimmetria di questo tipo incanala la teorica "libera contrattazione" garantita dalle leggi verso il risultato preferito dal capitalista. E’ un aspetto occultato dai fautori del capitalismo, con la pretesa che le differenze sociali in termini di reddito e ricchezza siano la conseguenza di differenze di natura individuale. Ma dovrebbero essere coerenti: il gioco dovrebbe partire da una posizione paritaria dei partecipanti, in modo che la competizione basata sul merito non sia falsata dall’ineguale dotazione iniziale di risorse. Nel loro insieme questi fenomeni dimostrano che le "armonie economiche" del sistema capitalistico sono solo una rassicurante immagine letteraria.(28)

Heilbroner muove alla ricerca di una via d’uscita. Non rinuncia ad evidenziare — ancora una volta — la necessità dell’azione politica. Il governo può intervenire efficacemente perché è l’unico a detenere la forza necessaria per contrastare questi processi degenerativi. Nonostante le grida di dolore che si levano nel campo imprenditoriale e finanziario, è ormai riconosciuto che «[p]revidenza sociale, sussidi di disoccupazione, politiche fiscali e anticongiunturali, molti degli interventi di regolamentazione [...] appaiono [...] mosse difensive contro la crescente capacità organizzativa e disgregativa del regno privato» (CXXI, 128-29), piuttosto che indebite ingerenze dello stato nell’economia, temuto preludio di una deriva autoritaria. L’ampliamento delle libertà politiche e sociali, l’estensione dei diritti di cittadinanza devono invece molto a questo tipo di politiche governative. Così come non va sottovalutato — aggiungiamo noi — il contributo che la società stessa può dare, attraverso la cooperazione e il mutuo appoggio fra le persone.

In prospettiva, la situazione sarà sempre meno omogenea: ci saranno, infatti, differenze di approccio e di adattamento fra i vari capitalismi nazionali, frutto — prosegue Heibroner — di un processo evolutivo "al plurale". Questa diversità dipenderà dal modo in cui i problemi indicati in precedenza saranno stati affrontati: in alcuni paesi prevarrà una valutazione del sistema capitalistico basata sulla «soddisfazione sociale e politica» delle persone, mentre in altri la «performance economica» sarà giudicato il primo obiettivo. Si tratterebbe di una cesura profonda: nei primi il capitalismo, da fine in sé, verrebbe considerato un semplice mezzo per raggiungere altri scopi ritenuti più importanti (CXXI, 131).

Con un’argomentazione che ricorda la "quadratura del cerchio" di Dahrendorf,(29) l’economista americano afferma che i capitalismi del XXI secolo potranno evitare il declino e prolungare per un certo periodo di tempo la loro esistenza se riusciranno a mantenere la coesione sociale senza sacrificare le libertà civili e la capacità di sviluppo. Il consolidamento di una rete di sicurezza per i cittadini in termini di reddito e occupazione dovrà essere accompagnata da un’economia in grado si mantenersi vitale ed efficiente, e da un’amministrazione pubblica attivamente impegnata nel ruolo di coordinamento della pluralità di interessi e bisogni espressi dalla società.

In una dimensione storica secolare, i capitalismi dovranno però scontrarsi inevitabilmente con due vincoli molto forti. La compatibilità ecologica delle attività economiche condizionerà sempre più le scelte degli stati. In mancanza di strepitosi quanto irrealistici mutamenti tecnologici, sarà con molta probabilità necessario rallentare (o persino bloccare) la crescita, per evitare la catastrofe ambientale. La globalizzazione del capitale raggiungerà la sua massima espansione e sfuggirà pressoché del tutto al controllo dei singoli stati. Occorrerà una «controforza politica internazionale» (CXXI, 133) per farvi fronte (specialmente in caso di crisi), ma nulla del genere si profila ancora all’orizzonte (anzi la governance della globalizzazione è affidata ad organizzazioni per le quali il libero dispiegarsi degli animal spirits capitalistici è l’unica ricetta valida).

Dalle risposte a questi problemi dipenderà la «praticabilità storica» (ibid.) del modo di produzione capitalistico.

Heilbroner, nel disegnare questi scenari a lunga gittata, non esclude che sarà necessario ricorrere a qualche forma di pianificazione, per affrontare le eventuali emergenze. Così pure non esclude che un qualche tipo di "socialismo di mercato" possa superare la impasse in cui sfocia il contrasto fra le esigenze dell’accumulazione di capitale e quelle socialiste dell’uguaglianza. Anche se Heibroner non arriva a tanto, non possiamo esimerci dal considerare, sulla scorta degli insegnamenti di Veblen, uno sbocco meno piacevole: i processi evolutivi del capitalismo potrebbero, infatti, condurre ad una nuova forma di autoritarismo o di totalitarismo, in cui la guerra sia una condizione permanente dei rapporti fra gli stati.

Tuttavia, anche se persuaso che il capitalismo durerà ancora a lungo, Heibroner non rinuncia a porsi una meta più ambiziosa di cambiamento. Dopo la prevalenza della tradizione (ancien régime), del comando (comunismo autoritario) e del mercato (piegato alla logica accumulatrice del capitale), la "partecipazione" potrebbe diventare il nuovo metodo di organizzazione delle attività economiche.(30)

I cittadini, in questo nuovo sistema, sono impegnati nei processi decisionali della propria unità lavorativa, dove si occupano direttamente dell’organizzazione dei compiti, della produzione di beni e servizi, della ripartizione del reddito creato. Nell’economia della partecipazione le persone condividono le scelte attraverso il dibattito e il voto, riacquistando quel potere deliberativo che nei regimi del passato era appannaggio di quanti controllavano la ricchezza, la burocrazia statale o il capitale. Il nuovo ordine è democratico, ma è fondato sull’uguaglianza economica e sociale.

Mentre gli originari proponenti di questo modello partecipativo escludono che il mercato possa ancora rappresentare uno strumento valido di regolazione economica, Heilbroner ritiene che l’economia della partecipazione avrà necessità di «[...] un qualche meccanismo di coordinazione simile a quello del mercato»; proseguendo su questa linea realista, afferma che la nuova società, come ogni altra, «[...] dovrebbe generare un’offerta regolare di forza lavoro per compiti sgradevoli o routinari» e dovrebbe «[...] impedire agli individui di perseguire scopi antisociali con le loro attività economiche» Come riuscire allora ad evitare che la partecipazione degeneri nel caos? Resterà sempre la risorsa rappresentata «[...] dalle normali pressioni della conformità sociale», ma la complessità delle strutture imporrà che siano create «[...] nuove tecnologie, nuove istituzioni e, soprattutto, una nuova concezione di come l’aspetto economico della vita dovrebbe essere integrato con quello sociale e politico» (CXXI, 136-37).(31)

Anche se Heibroner è convinto che l’economia della partecipazione possa essere quella alternativa, superiore moralmente e tecnicamente al capitalismo, che stiamo cercando, egli non crede affatto che vedrà la luce nel corso del nostro secolo, sia per la feroce opposizione che incontrerebbe; sia per l’estrema complessità del cambiamento da realizzare. Servono dunque tempi lunghi; le scorciatoie sono destinate a fallire.

Questo atteggiamento realisticamente prudente non impedisce al nostro autore di auspicare la più ampia circolazione delle idee sulla partecipazione economica: «Non è impossibile che almeno gli obiettivi e la concezione sociale generale di un tale ordine postcapitalistico possano entrare nella nostra coscienza durante questo nuovo secolo» (CXXI, 138).

10. Riflessioni finali: libertà, equità e capitalismo.

Per il futuro, l’economia partecipativa è certamente una ipotesi suggestiva, ma è ancora tutta da verificare, sia in termini teorici, sia in termini applicativi. È opportuno non perdere di vista le altre proposte che si muovono nello stesso ambito, come quelle riguardanti la democrazia economica, il socialismo di mercato e l’economia ecologica. Nella perorazione di Heilbroner manca poi ogni riferimento ai soggetti sociali che dovrebbero compiere gli interventi strutturali richiesti dal nuovo ordine postcapitalistico; mancanza tanto più rilevante, in quanto sa bene che vi sarà una "feroce opposizione" a questo tipo di disegno.

Ma ritorniamo alla situazione attuale. Il testo di Heilbroner ci ha aiutati a capire che l’innesto dell’economia capitalista nelle democrazie liberali si è fin qui dimostrato una soluzione comparativamente superiore rispetto ai regimi comunisti retti da un’economia di comando. Possiamo estendere questo dato, con alcune cautele, anche nei confronti di quelle società capitalistiche che hanno adottato istituzioni illiberali, autoritarie, non democratiche, come i fascismi o le teocrazie islamiche (questa constatazione non inficia il fatto che le principali democrazie capitalistiche si siano servite, e continuino a farlo, di questi regimi, data la possibilità di effettuarvi investimenti e di smerciarvi i propri prodotti e servizi). La cautela è dovuta al fatto che i rapporti fra le democrazie capitalistiche e i comunismi asiatici che seguono la "via cinese al mercato" sono in fase di definizione, e non è ancora chiaro da quale parte penderà l’ago della bilancia.(32)

Il raggruppamento delle democrazie capitaliste non è comunque omogeneo ed è attraversato da correnti ideologiche che vogliono accrescere ancora di più il non trascurabile peso degli interessi capitalistici nelle decisioni politiche. Dalla fine degli anni ’70 ad oggi, la sinistra continua ad affrontare l’offensiva delle grandi operazioni di liberalizzazione, richieste a gran voce dalla business community per correggere le "storture" che starebbero soffocando la crescita economica delle democrazie occidentali. I programmi della destra denunciano le restrizioni imposte dallo stato al mercato, le troppe tasse, il potere eccessivo dei sindacati, la bancarotta del welfare state, i vincoli ambientali ecc.

Simili richieste vanno interpretate dal punto di vista degli interessi capitalistici che le hanno formulate: abbiamo visto in precedenza che il mercato,(33) quando effettivamente fondato sulla disciplina della concorrenza, ha un tasso di rischio che è intollerabile per le imprese meno innovative, meno in grado di soddisfare le esigenze dei consumatori, perché può sfociare nel loro fallimento, ergo nella rovina dei loro proprietari. Qualora le pretese dei salariati venissero ridotte, le pratiche collusive e monopolistiche fossero tollerate, le tasse che finanziano lo stato e le sue attività previdenziali, assistenziali, sanitarie fossero abbattute, e dulcis in fundo le posizioni critiche venissero represse, questo genere di imprese capitalistiche potrebbe continuare ad operare senza vedere intaccato il proprio potere, in barba al mito della competizione, alla sbandierata "sovranità" dei consumatori, ai principi di libertà ed eguaglianza messi per iscritto nelle costituzioni che reggono le odierne democrazie.

La vittoria di pochi, rapaci interessi, causerebbe, tuttavia, il sicuro declino dell’intero sistema.(34)

Ne segue che da tempo — in seno alle democrazie capitalistiche — si stanno delineando due tendenze estreme, il cui sviluppo non deve lasciare indifferente le forze di sinistra.

Un primo insieme di paesi sembra in grado di offrire una cornice ideologica e istituzionale all’interno della quale è possibile sperimentare strutture e pratiche indirizzate al progressivo superamento del capitalismo (per esemplificare, potremmo fare riferimento agli aspetti più avanzati dei modelli scandinavo e renano).(35) Un secondo gruppo di paesi crea, invece, un terreno ostile a questo tipo di sperimentazione, sia per motivi ideologici che per ragioni istituzionali (relazioni di lavoro con scarse tutele, alto livello delle ineguaglianze sociali, mancanza di un welfare state strutturato, prevalenza delle posizioni monopolistiche ecc.).

È evidente che la sinistra deve battersi perché prevalgano le condizioni che consentano la transizione verso una società postcapitalista capace di sviluppare tutti i benefici delle istituzioni democratiche.

Preso atto del fallimento del comunismo marxista-leninista, la sinistra deve dotarsi di una bussola costruita sulla stretta, inestricabile, relazione fra i principi della giustizia sociale e della libertà. Per far sì che cresca il grado di libertà, democrazia ed equità di un paese, è necessario che le forze innovatrici della società si inoltrino nel territorio incognito della sperimentazione di nuove forme di partecipazione politica ed economica.

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Note:

[22] Tant’è vero che alcuni economisti, certo poco ortodossi, (fra i quali Sraffa, Schumpeter e Galbraith) si sono chiesti se abbia ancora senso parlare di mercati concorrenziali secondo i canoni della teoria neoclassica.

[23] Due soli esempi per illustrare questa evenienza: in primo luogo, le politiche di ristrutturazione aziendale che causano un’ondata di licenziamenti, determinano a livello macroeconomico un minore reddito disponibile per i consumi; questo dato accentua però la crisi economica e spinge le imprese ad ulteriori licenziamenti, esasperando così il circolo vizioso; ancora, l’incertezza del quadro economico può spingere i cittadini ad ampliare la quota di reddito destinata al risparmio; l’abbondanza di capitali sul mercato del credito ne riduce il costo in termini di tassi d’interesse; ciononostante le imprese non sono stimolate ad investire perché prevedono che questi stessi cittadini consumeranno meno; keynesianamente “il cavallo non beve” e l’economia non riparte. Entrambe le situazioni sono state storicamente sbloccate da interventi del governo.

[24] Questi ultimi due casi richiamano ancora una volta la necessità dell’intervento pubblico per porre un argine alle limitazioni più gravi del sistema. Non sono mancati, tuttavia, ingegnosi tentativi di risolvere questi problemi causati dai fallimenti del mercato in regime capitalistico con l’applicazione degli stessi meccanismi di mercato (ad esempio, creando un mercato per la compravendita dei diritti di inquinare, in modo da fare fronte alle disposizioni del protocollo di Kyoto). Per le scuole economiche egemoni il mercato è considerato il principio organizzatore universale di ogni attività, capace di autoregolazione e dunque in grado di superare qualsiasi ostacolo.

[25] Su questo tema resta ancora essenziale la lettura di Karl Polanyi, La grande trasformazione, cit.

[26] A questo proposito un testo come I persuasori occulti di Vance Packard (Einaudi, Torino, 1989, ed. or. 1958) non ha perso mordente, nonostante siano passati quasi cinquant’anni dalla sua prima edizione.

[27] Gli stessi “corpi intermedi”, tuttavia, possono trasformarsi in “prigioni” per gli individui, in quanto i rapporti tradizionali (per es. il patriarcato), i dettami religiosi o ideologici possono impedire il loro libero sviluppo.

[28] È curioso notare che Frédéric Bastiat, con l’opera le Armonie economiche (1850), volesse rispondere alle critiche di Proudhon, che nel suo Sistema delle contraddizioni economiche o Filosofia della miseria (1846) aveva inteso illustrare — da sociologo più che da economista — le aporie del laissez-faire.

[29] Ralf Dahrendorf, liberale progressista, si è occupato di questi temi in Quadrare il cerchio. Benessere economico, coesione sociale e libertà politica, Laterza, Roma-Bari, 1995.

[30]  Le idee sulla “economia della partecipazione”, illustrate da Heilbroner, derivano dai lavori degli economisti Michael Albert e Robin Hahnel, Looking Forward. A Participatory Economics for the Twenty First Century, Sounth End Press, Boston, 1991 (tr. it. on line).

[31] L’oscillazione fra il polo del realismo e quello dell’utopia è una costante del testo di Heilbroner: per un verso, l’economista americano «[...] considera il capitalismo come un particolare modello economico che dà luogo a tendenze sia creative sia distruttive, tendenze che devono essere comprese e gestite in modo intelligente per poter progredire dal punto di vista sociale ed evitare disastri» (mia traduzione da William Milberg, “The Robert Heilbroner problem”, cit.); per un altro, ne auspica il superamento, attraverso l’adozione di un’economia partecipativa finalmente capace di tenere insieme socialità e libertà.

[32] «[In Cina] la gente prova sulla pelle sia lo sfruttamento del modello capitalista di produzione (condizioni di lavoro estreme, orari prolungati, condizioni di vita inumane e così via) sia il controllo totalitario di un regime «comunista» e corrotto!» (“Anarchico a Hong Kong”, intervista a Mok Chiu Yu, Libertaria, n. 3, 2001) Il successo del “comunismo capitalista” cinese sta fornendo argomenti a quanti ritengono che la crescita della base produttiva e del reddito di una società debba precedere l’adozione di istituzioni democratiche che garantiscano le libertà fondamentali (tesi sostenuta, per es., dall’economista Guido Tabellini, “La democrazia viene dopo”, lavoce.info, 11.10.2006). Si tratta di una posizione assai pericolosa, per due ragioni: in primo luogo, perché elegge questo modello a punto di riferimento per quei paesi che vogliono combattere il sottosviluppo mantenendo intatti i propri regimi repressivi (e corrotti); in secondo luogo, perché nelle società occidentali del “primo mondo”, il suo esempio potrebbe indurre i governanti a pensare che occorrano forti iniezioni di autoritarismo per restare competitivi (v. Geminello Alvi, “Ora la Cina fa paura”, il Giornale, 07.03.2007).

[33] É evidente che il mercato svolge bene la funzione di fare incontrare in modo efficiente l’offerta delle imprese e la domanda dei consumatori, ma non possiamo chiedergli di più. La “mano pubblica”, i legami sociali, la cultura e le identità collettive sono fattori che non possono essere sostituiti dal mercato, se non al prezzo di enormi disastri.

[34] L’attuale situazione italiana rientra a nostro avviso in uno scenario simile, perché al di là dei punti di prodotto interno lordo recuperati in una favorevole congiuntura, restano sul tappeto tutti i problemi strutturali, che sono ancora quelli individuati, più di un decennio fa, da Paolo Sylos Labini, La crisi italiana, Laterza, Roma-Bari, 1995.

[35] Cfr. Michel Albert, Capitalismo contro capitalismo, il Mulino, Bologna, 1993.

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