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Michele Saba in una foto del quotidiano La Nuova Sardegna
[indietro all'indice dello speciale "Michele Saba"] Aldo Berlinguer -- Un avvocato giacobino. Nell’arco di una vita professionale intemerata lo spirito del ribelle a tutte le ingiustizie e iniquità A dieci
anni anni dalla sua scomparsa, Sassari conserva – e lo conserverà
ancora per molti anni – vivo il ricordo di Michele Saba che,
trasferitosi, da ragazzo, insieme con l'intera, famiglia, da Ossi, ove era
nato nel 1891, a Sassari, ove piantò salde radici, ne divenne cittadino
di adozione, assimilando ben presto il costume,
l'abito mentale caratteristico e lo spinto sarcastico dei sassaresi, e
partecipando intensamente alla vita culturale, giornalistica e politica
della città, sempre e dovunque lasciando l'impronta della sua personalità
eclettica, di giacobino, di eterno rivoluzionario, di paladino della
giustizia e della libertà. Già
da giovanissimo aveva preso a frequentare la redazione de «La Nuova
Sardegna», il cui direttore — l’indimenticabile Medardo Riccio —
scoprì subito in lui quel talento di giornalista che gli meritò ben
presto, e per lunghi anni, la fiducia del «Giornale d'Italia», di cui
dal 1913 divenne corrispondente: Medardo Riccio conservò per lui
affettuosi rapporti di amicizia, non turbati da qualche schermaglia
giornalistica, in una delle quali, in chiave di garbata polemica, il
direttore de «La Nuova» gli dedicò un trafiletto col titolo «mi fentòmana
in bidda» che voleva smorzare le pugnaci velleità del suo antagonista
proveniente dall'hinterland! Laureatosi
in giurisprudenza nel 1916, entrò a vele spiegate nell'avvocatura, per
cui aveva — come il fratello Stefano — una spiccata vocazione, tanto
che entrambi non tardarono ad affermarsi ed a conquistare una posizione di
rilievo nell'isola in cui numerosi erano gli studi professionali fiorenti:
essi stessi furono gli artefici della loro fortuna, giacché crearono con
le loro mani un avviato studio legale, ben più faticosamente di altri che
si erano tramandati, di padre in figlio, ufficio e clienti. Mentre
il fratello Stefano attinse a piene mani a quel pozzo di San Patrizio che
è l'agone civile e amministrativo, affermandosi — per il suo acume, per
la profonda cultura umanistica e per la prosa elegante e incisiva —
Michele, il cui ingegno era più versatile e il cui temperamento molto più
dinamico, ligio alla tradizione ambientale che esigeva gli avvocati
fossero versati «in utroque iure», coltivò le due diverse branche,
dedicandosi, peraltro prevalentemente all’agone penale, a fianco ai
migliori penalisti isolani, ai quali fu sempre legato da salda costante
amicizia. Ben
può dirsi che, nell'arco della sua vita professionale, pochi furono i
processi penali di grande risonanza ai quali non abbia partecipato
Michele: tutti profondendo il suo spirito battagliero, la sua sottile
dialettica, e l'intramontabile suo entusiasmo di rivoluzionario, di
ribelle contro tutte le ingiustizie ed iniquità. Se dovessi definire la
sua personalità di penalista con una espressione sintetica, con una
formula che riesca a condensare il suo temperamento, dovrei dire di lui
che era l'avvocato giacobino per definizione, il «maître» con il
berretto frigio in testa! È stato – bisogna dirlo a suo onore – un
fervente patriota e un irriducibile antifascista, pagando più volte di
persona la sua indomita fede mazziniana, i suoi ideali di democrazia e di
libertà, la sua appassionata reazione a qualunque arbitrio o sopruso. Tratto
in arresto una prima volta nel novembre del 1930, insieme con lo scrittore
Fancello e con l’avv.Cesarino Pintus, che fu poi sindaco di Cagliari e
che, con lui e con Fanuccio Siglienti ed altri diffondevano in Sardegna i
giornali clandestini di propaganda contro il fascismo allora imperante —
languì in vinculis, a Regina Coeli, per lunghi mesi sino al marzo 1931.
La sua traduzione a Roma aveva suscitato molto scalpore a Sassari, anche
perché il pavido Questore di allora lo aveva fatto condurre in carrozza
dalle prigioni di San Sebastiano alla stazione ferroviaria, in tutta
fretta, senza dargli tempo di far toilette, e cioè ancora in pantofole e
pigiama, tanto che una folla numerosa lo aveva accompagnato sino al vagone
ferroviario, commentando ad alta voce l'episodio inconsueto. A
Regina Coeli gli fu destinata la cella n. 144, attigua a quella del
celebre chimico Umberto Ceva — antifascista anche lui — che si suicidò
in carcere, vinto dallo sconforto per aver appreso che un amico infedele
— l’avvocato Del Re, passato alla storia con l'attributo di «spia del
Regime», come lo bollò Ernesto Rossi — aveva tradito gli amici di «Giustizia
e Libertà». Una
seconda volta fu arrestato nel 1935 insieme con il fratello Stefano e con
l'ingegner Stara: molti altri amici e... congiurati antifascisti che, come
lui, avevano raccolto fondi in Sardegna per consentire all'on. Emilio
Lussu — esule e ricoverato in un sanatorio in Svizzera — di
fronteggiare le spese di un intervento chirurgico e di lunghe e
dispendiose cure, rischiarono anch'essi l'arresto. Per fortuna, contro gli
arrestati non si raggiunsero prove sufficienti per il loro rinvio al
giudizio del famigerato Tribunale Speciale; e la loro salvezza si dovette
alla prudenza dell'on. Michelino Giua, nativo di Castelsardo, indomito
antifascista ed esule, chimico di fama mondiale e titolare della cattedra
universitaria di Torino, ove si è spento quest'anno, il quale aveva
raccolto quei fondi senza lasciar tracce compromettenti per nessuno. Una
terza volta — insieme con Mario Berlinguer e con Mario Perantoni —
venne arrestato il giorno della caduta del fascismo, questa volta però
soltanto per pochissimi giorni. Non ebbe il tempo, però, di scrivere «Le
mie prigioni», né «Lettere dal carcere», pur non mancandogli la stoffa
di brillante prosatore. Ritornato,
dopo ogni periodo di prigionia, all'attività professionale, il suo
fervore non si affievoliva: il suo tavolo era sempre pieno, oltre che di
sudate carte di processi, anche di opuscoli e di giornali antifascisti, la
sua conversazione era sempre ispirata al più indomabile antifascismo e
rivelava la sua sete insopprimibile di libertà, e l'aspirazione ad una
vita migliore, finalmente affrancata da dittature e da angherie Al
clima quarantottesco, di cui erano permeati il suo studio legale e la sua
casa di abitazione, non era possibile si sottraessero i suoi familiari, la
moglie, i figli, i fratelli. Il cognato, il notaio Pasquale Cavaccini, con
la sua esuberanza partenopea, era il meno prudente e abbottonato: già
avanzavano gli anni, ed in preda a numerosi acciacchi, esprimeva a voce
alta per la strada, agli amici e conoscenti, il suo profondo rammarico di
temere di spegnersi prima della caduta dell'odiato regime fascista, che
intuiva imminente, dicendo: «Me moro primma, me moro primma»... Non
a lui, ma a Michele fu consentito di rallegrarsi e di respirare a pieni
polmoni per il grande avvenimento del crollo del fascismo; non inveì, però,
né infierì contro nessuno, perché aveva un gran buon cuore. Ricordo con
viva simpatia come si prodigò disinteressatamente, generosamente, in
silenzio, se una disavventura o un rovescio di fortuna si abbattevano su
suoi amici. Ricordo in particolare il suo attaccamento ai comuni amici
Rodolfo e Silvio Prunas, e specialmente a Silvio, che incoraggiò per la
stampa dei due primi volumi della «Storia della Rivoluzione Francese »,
e ricordo che si rallegrò, quasi si trattasse di un'opera letteraria
scritta da lui, quando io ne feci su «La Nuova» una recensione
elogiativa con spunti... antimonarchici: se ne compiacque più come amico,
che come mazziniano, e mazziniano lo era davvero ad oltranza! |
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