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Michele Saba in una foto del quotidiano La Nuova Sardegna


 

Speciale "Michele Saba (1891-1957)"

Pubblichiamo quattro interventi tratti dal quotidiano sassarese La Nuova Sardegna, del 26 ottobre 1967, preceduti dal titolo: "Ricordando Michele Saba a dieci anni dalla morte. L’Uomo, il giornalista, l’avvocato, l’amico generoso".

 


[indietro all'indice dello speciale "Michele Saba"]

Aldo Berlinguer -- Un avvocato giacobino. Nell’arco di una vita professionale intemerata lo spirito del ribelle a tutte le ingiustizie e iniquità

A dieci anni anni dalla sua scomparsa, Sassari conserva – e lo conserverà ancora per molti anni – vivo il ricordo di Michele Saba che, trasferitosi, da ragazzo, insieme con l'intera, famiglia, da Ossi, ove era nato nel 1891, a Sassari, ove piantò salde radici, ne divenne cittadino di adozione, assimilando ben presto il costume, l'abito mentale caratteristico e lo spinto sarcastico dei sassaresi, e partecipando intensamente alla vita culturale, giornalistica e politica della città, sempre e dovunque lasciando l'impronta della sua personalità eclettica, di giacobino, di eterno rivoluzionario, di paladino della giustizia e della libertà.

Già da giovanissimo aveva preso a frequentare la redazione de «La Nuova Sardegna», il cui direttore — l’indimenticabile Medardo Riccio — scoprì subito in lui quel talento di giornalista che gli meritò ben presto, e per lunghi anni, la fiducia del «Giornale d'Italia», di cui dal 1913 divenne corrispondente: Medardo Riccio conservò per lui affettuosi rapporti di amicizia, non turbati da qualche schermaglia giornalistica, in una delle quali, in chiave di garbata polemica, il direttore de «La Nuova» gli dedicò un trafiletto col titolo «mi fentòmana in bidda» che voleva smorzare le pugnaci velleità del suo antagonista proveniente dall'hinterland!

Laureatosi in giurisprudenza nel 1916, entrò a vele spiegate nell'avvocatura, per cui aveva — come il fratello Stefano — una spiccata vocazione, tanto che entrambi non tardarono ad affermarsi ed a conquistare una posizione di rilievo nell'isola in cui numerosi erano gli studi professionali fiorenti: essi stessi furono gli artefici della loro fortuna, giacché crearono con le loro mani un avviato studio legale, ben più faticosamente di altri che si erano tramandati, di padre in figlio, ufficio e clienti.

Mentre il fratello Stefano attinse a piene mani a quel pozzo di San Patrizio che è l'agone civile e amministrativo, affermandosi — per il suo acume, per la profonda cultura umanistica e per la prosa elegante e incisiva — Michele, il cui ingegno era più versatile e il cui temperamento molto più dinamico, ligio alla tradizione ambientale che esigeva gli avvocati fossero versati «in utroque iure», coltivò le due diverse branche, dedicandosi, peraltro prevalentemente all’agone penale, a fianco ai migliori penalisti isolani, ai quali fu sempre legato da salda costante amicizia.

Ben può dirsi che, nell'arco della sua vita professionale, pochi furono i processi penali di grande risonanza ai quali non abbia partecipato Michele: tutti profondendo il suo spirito battagliero, la sua sottile dialettica, e l'intramontabile suo entusiasmo di rivoluzionario, di ribelle contro tutte le ingiustizie ed iniquità. Se dovessi definire la sua personalità di penalista con una espressione sintetica, con una formula che riesca a condensare il suo temperamento, dovrei dire di lui che era l'avvocato giacobino per definizione, il «maître» con il berretto frigio in testa! È stato – bisogna dirlo a suo onore – un fervente patriota e un irriducibile antifascista, pagando più volte di persona la sua indomita fede mazziniana, i suoi ideali di democrazia e di libertà, la sua appassionata reazione a qualunque arbitrio o sopruso.

Tratto in arresto una prima volta nel novembre del 1930, insieme con lo scrittore Fancello e con l’avv.Cesarino Pintus, che fu poi sindaco di Cagliari e che, con lui e con Fanuccio Siglienti ed altri diffondevano in Sardegna i giornali clandestini di propaganda contro il fascismo allora imperante — languì in vinculis, a Regina Coeli, per lunghi mesi sino al marzo 1931. La sua traduzione a Roma aveva suscitato molto scalpore a Sassari, anche perché il pavido Questore di allora lo aveva fatto condurre in carrozza dalle prigioni di San Sebastiano alla stazione ferroviaria, in tutta fretta, senza dargli tempo di far toilette, e cioè ancora in pantofole e pigiama, tanto che una folla numerosa lo aveva accompagnato sino al vagone ferroviario, commentando ad alta voce l'episodio inconsueto.

A Regina Coeli gli fu destinata la cella n. 144, attigua a quella del celebre chimico Umberto Ceva — antifascista anche lui — che si suicidò in carcere, vinto dallo sconforto per aver appreso che un amico infedele — l’avvocato Del Re, passato alla storia con l'attributo di «spia del Regime», come lo bollò Ernesto Rossi — aveva tradito gli amici di «Giustizia e Libertà».

Una seconda volta fu arrestato nel 1935 insieme con il fratello Stefano e con l'ingegner Stara: molti altri amici e... congiurati antifascisti che, come lui, avevano raccolto fondi in Sardegna per consentire all'on. Emilio Lussu — esule e ricoverato in un sanatorio in Svizzera — di fronteggiare le spese di un intervento chirurgico e di lunghe e dispendiose cure, rischiarono anch'essi l'arresto. Per fortuna, contro gli arrestati non si raggiunsero prove sufficienti per il loro rinvio al giudizio del famigerato Tribunale Speciale; e la loro salvezza si dovette alla prudenza dell'on. Michelino Giua, nativo di Castelsardo, indomito antifascista ed esule, chimico di fama mondiale e titolare della cattedra universitaria di Torino, ove si è spento quest'anno, il quale aveva raccolto quei fondi senza lasciar tracce compromettenti per nessuno.

Una terza volta — insieme con Mario Berlinguer e con Mario Perantoni — venne arrestato il giorno della caduta del fascismo, questa volta però soltanto per pochissimi giorni. Non ebbe il tempo, però, di scrivere «Le mie prigioni», né «Lettere dal carcere», pur non mancandogli la stoffa di brillante prosatore.

Ritornato, dopo ogni periodo di prigionia, all'attività professionale, il suo fervore non si affievoliva: il suo tavolo era sempre pieno, oltre che di sudate carte di processi, anche di opuscoli e di giornali antifascisti, la sua conversazione era sempre ispirata al più indomabile antifascismo e rivelava la sua sete insopprimibile di libertà, e l'aspirazione ad una vita migliore, finalmente affrancata da dittature e da angherie

Al clima quarantottesco, di cui erano permeati il suo studio legale e la sua casa di abitazione, non era possibile si sottraessero i suoi familiari, la moglie, i figli, i fratelli. Il cognato, il notaio Pasquale Cavaccini, con la sua esuberanza partenopea, era il meno prudente e abbottonato: già avanzavano gli anni, ed in preda a numerosi acciacchi, esprimeva a voce alta per la strada, agli amici e conoscenti, il suo profondo rammarico di temere di spegnersi prima della caduta dell'odiato regime fascista, che intuiva imminente, dicendo: «Me moro primma, me moro primma»...

Non a lui, ma a Michele fu consentito di rallegrarsi e di respirare a pieni polmoni per il grande avvenimento del crollo del fascismo; non inveì, però, né infierì contro nessuno, perché aveva un gran buon cuore. Ricordo con viva simpatia come si prodigò disinteressatamente, generosamente, in silenzio, se una disavventura o un rovescio di fortuna si abbattevano su suoi amici. Ricordo in particolare il suo attaccamento ai comuni amici Rodolfo e Silvio Prunas, e specialmente a Silvio, che incoraggiò per la stampa dei due primi volumi della «Storia della Rivoluzione Francese », e ricordo che si rallegrò, quasi si trattasse di un'opera letteraria scritta da lui, quando io ne feci su «La Nuova» una recensione elogiativa con spunti... antimonarchici: se ne compiacque più come amico, che come mazziniano, e mazziniano lo era davvero ad oltranza!

Ma chi gli è stato vicino, lo ricorda soprattutto come un grande amico!

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