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Fosse Ardeatine, Roma

 


ALDO BORGHESI - "Rino Canalis, martire alle Fosse Ardeatine"

Da Via Rasella alle Ardeatine: la storia e la memoria

Probabilmente nessun altro episodio della storia d'Italia nei venti mesi finali della guerra -- dall'8 settembre 1943 alla fine di aprile 1945, attraverso l'occupazione tedesca, il risalire del fronte lungo la penisola, la lotta di Resistenza e la guerra civile nell'Italia del nord -- ha lasciato, a sessant'anni dai fatti, una memoria divisa e una polemica ancora viva, sia sul piano storiografico, sia soprattutto su quello politico, come la sequenza di avvenimenti che, nei giorni 23 e 24 marzo 1944, in Roma occupata, portano dall'azione dei GAP in via Rasella all'esecuzione da parte delle SS di 335 prigionieri nelle cave sulla via Ardeatina. Proprio per questo, essa costituisce il terreno sul quale meglio che altrove si riconoscono alcuni tratti fondamentali della polemica sulla Resistenza, ed in particolare di quella argomentazioni antiresistenziali che, rimaste in una posizione abbastanza marginale nella fase centrale dell'epoca repubblicana, riprendono oggi spazio, non sostenute da ricerche storiografiche di spessore, ma agitate dai mezzi di comunicazione, fino a essere divenute senso comune.

 

Roma tra guerra e occupazione

La controversia su via Rasella e Ardeatine affonda le proprie radici nel carattere particolare che la guerra assume nella città di Roma: per tutto il corso del conflitto la popolazione si aspetta che la città, in quanto sede papale, non venga colpita, malgrado sia sede di comandi e strutture militari e nodo di fondamentale importanza della rete di comunicazioni fra l'Italia centrale e meridionale: un elemento di peso tanto maggiore dopo che, con lo sbarco in Sicilia del luglio 1943, la penisola italiana diventa fronte di guerra combattuta.

La prima disillusione avviene con i bombardamenti del luglio-agosto 1943 (oltre 1.000 morti in quello del 19 luglio sullo scalo ferroviario di Tiburtina e l'adiacente quartiere popolare di San Lorenzo); il vano tentativo di assicurare alla capitale una sorta di immunità prosegue con la dichiarazione della città aperta -- dove non possono trovarsi strutture militari di rilievo, e che pertanto non costituisce per gli avversari un obiettivo bellico -- pronunciata da parte italiana il 14 agosto 1943 ma non riconosciuta dagli Alleati. Essa non salva Roma dall'occupazione tedesca, dai combattimenti che il 9-10 settembre tentano di contrastarla, né dall'utilizzo militare nel territorio urbano da parte dell'occupante e delle forze collaborazioniste: Roma ospita installazioni, comandi militari, reparti d'occupazione e vi transitano e sostano sistematicamente uomini e mezzi destinati al fronte di Cassino e poi di Anzio.

 

La finzione della città aperta è passata anche formalmente sotto il comando tedesco dal 23 settembre e viene ulteriormente screditata dall'aktion che le SS mettono a segno ai danni della comunità ebraica romana, la più numerosa e antica d'Italia, prima sottoposta a taglieggiamento attraverso una pesante richiesta di oro e -- malgrado questo -  successivamente in gran parte arrestata dai tedeschi con la grande retata del 16 ottobre 1943 ed avviata al campo di sterminio di Auschwitz, da cui torna uno su cento dei rastrellati. Gli arresti proseguono lungo tutto il periodo dell'occupazione, alimentati dalle generose taglie promesse ai delatori tanto che dei 2500 deportati romani solo poco più della metà è costituita dai rastrellati del 16 ottobre.

Oltre ai rastrellamenti su base razziale, la popolazione romana subisce quelli finalizzati al reclutamento forzato di manodopera per il servizio di lavoro tedesco, che colpiscono indiscriminatamente uomini presi spesso per strada o sui mezzi di trasporto e avviati verso il Nord e la Germania. La città soffre inoltre, come e più delle altre nell'Italia occupata, di pesanti problemi di approvvigionamento alimentare, aggravati dalla presenza di centinaia di migliaia di sfollati dalle retrovie del fronte. In essa si sviluppa un movimento di resistenza che -- per la presenza in città di vaste aree di proletariato e sottoproletariato urbano, ma anche di molti ufficiali e militari che si sentivano legati ad un giuramento di fedeltà allo Stato monarchico -- assume caratteri particolari.

 

La Resistenza romana: aspetti politici e militari

Anzitutto, la Resistenza romana presenta più che altrove un complesso intreccio tra il livello militare e quello politico. Il CLN romano funziona come CLN centrale e quindi come una sorta di organo di governo di tutta la Resistenza nell'Italia occupata. Come tale deve farsi carico di elaborare una linea nei confronti delle istituzioni statali che funzionano nel Meridione, e quindi è travagliato fino alla fine di marzo da aspre discussioni sulla questione istituzionale, fra una sinistra (partiti comunista, socialista e d'Azione) che non intende riconoscere l'autorità del "re fuggiasco" e del governo Badoglio che ne è emanazione, e i partiti moderati (liberale, democristiano e demolaburista) che fanno della continuità istituzionale un punto irrinunciabile. La discussione su questi aspetti di politica generale polarizza su di sè  larga parte dell'attenzione e dell'attività del comitato romano, sul quale incombe anche la responsabilità, cui viene richiamato soprattutto dagli organismi della Resistenza nel Settentrione, di salvaguardare a tutti i costi il carattere unitario della Resistenza italiana, scongiurando il rischio di una spaccatura politica e militare fra le ali avanzata e moderata che inducesse una deriva di scontro reciproco, anche con le armi, analoga a quella ben nota nei movimenti di Resistenza dell'Europa orientale e balcanica. Ciò porta a una relativamente minore incisività dell'azione militare del CLN romano, il quale è peraltro stretto, più che altrove, dal contrasto fra due concezioni di fondo radicalmente diverse dell'azione di resistenza: quella che afferma la necessità di un'azione militare senza quartiere diretta contro uomini e strutture delle forze di occupazione e collaborazioniste, intesa come preparatoria ad un'insurrezione popolare che liberi la città anche prima dell'arrivo delle truppe alleate; e quella che invece delega agli eserciti angloamericani il ruolo di protagonisti dello sforzo militare contro le forze nazifasciste, affermando quale compito della Resistenza tutt'al più la realizzazione di atti di sabotaggio. L'atteggiamento, insomma, che va sotto il nome di "attendismo", e che secondo alcuni è in Roma particolarmente alimentato sia dalla presenza di una classe politica e burocratica strettamente interessata alla continuità con i passati regimi liberale e fascista, sia soprattutto di una Santa Sede la cui preoccupazione principale appare sempre più quella di evitare che in città e nel paese assuma, nella crisi del nazifascismo, posizioni di preponderanza una sinistra dalla quale ritiene di potersi aspettare ben poco favore.

 

Di conseguenza, sotto l'aspetto militare, le forze della Resistenza romana vedono una forte componente moderata (Fronte Clandestino Militare di Resistenza e Centro X) sotto il comando di alti ufficiali di fede monarchica, la cui attività è centrata soprattutto su azioni di intelligence; formazioni organizzate in forma propriamente militare fanno capo ai partiti della sinistra CLN (non solo i GAP comunisti: ci sono efficienti squadre d'azione organizzate da azionisti e socialisti) ma anche a schieramenti che al CLN sono estranei (formazioni di Bandiera Rossa, organizzate dal Movimento comunista d'Italia, di ispirazione trotzkista ed anarchica, e anche squadre del Partito Repubblicano). L'attività è variamente strutturata e attraversa fasi di differente intensità, anche a seconda di quanto incide sulla consistenza delle formazioni l'azione repressiva da parte tedesca e fascista, che si contraddistingue in Roma per una brutalità connessa anche alle caratteristiche particolari del fascismo repubblicano locale: dopo l'attività iniziale di un gruppo dirigenziale che si segnala per azioni delinquenziali di saccheggio e ricatto (la cosiddetta banda Pollastrini), resta infatti attiva in Roma una pletora di formazioni poliziesche fasciste di natura militare e paramilitare (tristemente famosa l'attività della banda Koch e dei centri di tortura da essa attivati). Naturalmente è assai temibile l'azione repressiva delle forze di polizia tedesche, in primo luogo della Sicherheitdienst il cui comandante locale è il tenente colonnello SS Herbert Kappler, che nella sede dell'Istituto di cultura germanica in via Tasso ha installato una prigione in cui numerosi resistenti vengono torturati ed uccisi.

 

Non è peraltro vero -- e le stesse fonti di destra non possono fare a meno di riconoscerlo -- che a Roma non vi siano rilevanti azioni militari di Resistenza prima di via Rasella: e a metterle a segno non sono peraltro i soli GAP. Via Rasella non rappresenta quindi un inizio tardivo della lotta armata, legato più a faide interne al movimento resistenziale che a reali finalità militari, o un'azione isolata pensata e messa a segno nell'isolamento da elementi irresponsabili, come affermato dai detrattori. Semmai essa costituisce il principale tentativo di imporre alla lotta un salto qualitativo, attraverso un'azione fortemente distruttiva nei confronti delle truppe di occupazione e quindi tale da accrescere il prestigio dell'intero movimento partigiano e costituire quindi la premessa per aumentare il consenso e l'appoggio ad esso, in vista di un'insurrezione cittadina che rientra pienamente negli scopi della sinistra CLN (ma al Nord di tutto il movimento partigiano che ad esso fa capo) e che la ripresa delle operazioni al fronte nella prossima primavera fa ritenere ormai imminente. Le azioni partigiane sono iniziate già  all'indomani dell'occupazione tedesca: il 20 settembre le prime squadre del Partito d'Azione hanno colpito una caserma della Milizia; le formazioni di Bandiera Rossa iniziano a operare in autunno nella periferia, dove trovavano particolare consenso in una situazione sociale caratterizzata dalla presenza di un numeroso sottoproletariato di recente immigrazione dalle campagne, o sradicato dai rioni storici per effetto degli sventramenti urbani voluti dal regime.

Naturalmente la lotta partigiana in città riceve un forte impulso dallo sbarco di Anzio, dall'accentuarsi dell'attività aerea alleata (soprattutto sulla periferia orientale, attraversata dalle linee di comunicazione verso il fronte) e dalla prospettive di liberazione a breve termine. Le azioni si intensificano: di molte sono protagonisti i GAP, squadre volanti costituite a Roma come nelle altre città occupate, composti solo in parte di militanti "storici" del PCI, mentre in larga misura da studenti di estrazione borghese cresciuti sotto il fascismo ed avvicinatisi all'azione partigiana in occasione dei primi scontri nel mese di settembre. Le memorie di Carla Capponi e Rosario Bentivegna ricordano il succedersi di azioni contro le truppe tedesche in transito nella capitale -- colpite attraverso il sabotaggio e la distruzione di mezzi --  o di stanza in essa -- gli attacchi contro ritrovi e cinema da esse frequentati -- e contro esponenti e manifestazioni del Partito Fascista Repubblicano: in particolare, due settimane prima dell'azione di via Rasella viene attaccato con le armi nella centrale via Tomacelli un corteo fascista che intende celebrare Giuseppe Mazzini nell'anniversario della morte, tradizionale ricorrenza dei repubblicani storici.

"Elena" (Carla Capponi) e "Maria" (Lucia Ottobrini),

gappiste a Via Rasella [http://www.partigiani.de]

23-24 marzo 1944: da via Rasella alle Fosse Ardeatine

I fatti di via Rasella sono noti, malgrado le molte inesattezze diffuse su di essi: si tratta di un'azione condotta dai GAP contro un reparto di SS che quasi ogni giorno attraversa a piedi il centro di Roma di ritorno da esercitazioni a fuoco. In preparazione dall'inizio del mese, se ne decide l'attuazione in coincidenza con la festività fascista del XXIII marzo (anniversario della Fondazione dei Fasci di Combattimento). La scelta di via Rasella è essenzialmente di natura militare: stretta e fiancheggiata da alti palazzi, garantisce la massimizzazione degli effetti distruttivi. Il reparto (III Btg. del Rgt. SS Bozen) -- composto da militari altoatesini, richiamati nell'esercito tedesco dopo che l'Alpenvorland era stato annesso al Reich e inviati a Roma in servizio di ordine pubblico; lo stesso reggimento si distinguerà nei mesi successivi per il sanguinoso impiego nella lotta antipartigiana in Istria e nel Bellunese. I GAP utilizzano pressochè tutti gli effettivi in quel momento disponibili, dopo che alcuni gravi arresti avevano colpito la formazione: 16 elementi per lo più ventenni, fra i quali ci sono tre sardi, Francesco Curreli, Silvio Serra e Marisa Musu. I gappisti sono scaglionati sul percorso per preavvisare dell'arrivo della colonna, o per colpirla direttamente dopo l'esplosione della bomba, o ancora impegnati in azioni di copertura della fuga di quello che è il nucleo più importante dell'azione (realizzata in pieno giorno, nelle prime ore del  pomeriggio): la coppia Rosario Bentivegna (nome di battaglia ''Paolo'') - Carla Capponi (''Elena''), lui incaricato di trasportare per un lungo percorso attraverso la città l'esplosivo (18 chili di tritolo mescolati a rottami di ferro e stipati in un carretto da netturbino) e di accendere la miccia al momento opportuno, lei di aiutarlo a sganciarsi dopo l'azione.

 

Malgrado i non pochi ritardi e imprevisti, l'azione va a segno: il carretto esplode nel pieno della colonna, uccidendo sul colpo ventisei militari (poche ore dopo diverranno trentatre) e uno o due civili italiani, fra cui un bambino, dopo che Bentivegna e gli altri gappisti erano riusciti a farne allontanare altri, fra gli altri un gruppo di ragazzini. La reazione è immediata e violenta,  ma i tedeschi non riescono a capire le modalità dell'attacco e ritengono di essere stati colpiti dai piani alti dei palazzi circostanti. Quindi sparano disordinatamente, facendo vittime civili, rastrellano brutalmente gli uomini che trovano nei dintorni, tra i quali non pochi finiranno alle Ardeatine, e saccheggiano le case del quartiere.

 

A questo punto si innesca il meccanismo che nel giro di poco più che ventiquattro ore porta alla strage. L'azione -- si è detto -- non è la prima messa a segno nel centro di Roma: è tuttavia senza dubbio la più complessa e quella dall'effetto più consistente. Il rischio che essa crei consenso intorno alle forze partigiane è effettivamente alto, ed è probabilmente questa consapevolezza -- più che la rabbia per il colpo subito o la pena per i camerati uccisi -- a determinare la dura risposta tedesca. Sulle prime intenzioni in questo senso, espresse da parte del comando tedesco a Roma, prevale quasi subito la proposta, avanzata da autorità diplomatiche ma anche dall'ufficiale superiore delle SS Dollmann, di replicare essenzialmente sul piano propagandistico, poiché una reazione che comportasse elevate perdite di vite umane avrebbe alimentato l'avversione nei confronti dell'esercito occupante. La soluzione esemplare e la formula aritmetica per determinarne -- l'entità è i dieci italiani per ogni caduto tedesco -- vengono imposte dalle più alte gerarchie del Terzo Reich, Hitler ed Himmler. Il comandante in capo tedesco in Italia generale Kesselring avvalla la decisione, essenzialmente allo scopo di fornire all'azione partigiana una replica immediata, tale da colpire la citt? in modo da dissuadere ulteriori atti di ostilità, in una città che è -- bene non dimenticarlo -- già allora, e da mesi, immediata retrovia di un fronte di guerra e la cui situazione è prevedibilmente destinata a diventare per i tedeschi sempre più precaria.

Non c'è d'altra parte da stupirsi per la scelta effettuata da Kesselring: gli studi dello storico militare tedesco Gerard Schreiber e di Lutz Klinkhammer, il rinnovato interesse storiografico per il tema delle stragi di civili è alimentato anche dalla polemica tuttora aperta sull' ''armadio della vergogna'' -- e che ha prodotto tra gli altri i lavori di Paolo Pezzino, Michele Battini e Mimmo Franzinelli, mostra chiaramente che la ''guerra ai civili'' costituisce fin dalla fase iniziale dell'occupazione una modalità fondamentale della condotta bellica delle forze armate tedesche, così come fin dal 1939 avveniva in tutti i territori dell'Europa occupata, soprattutto nell'Est e nella penisola balcanica. In uno dei momenti di più acuta crisi dello schieramento militare tedesco, nel pieno della rapida ritirata verso nord successiva alla liberazione di Roma, nel giugno 1944 Kesselring emanerà ordini che prevedono la distruzione totale per i centri che si ritiene siano coinvolti nelle azioni dei reparti partigiani, la fucilazione di tutti gli uomini sopra i 18 anni e l'avviamento al lavoro di donne e ragazze. Il computo finale dei morti civili per mano tedesca oltrepassa le 9.000 unità.

Del reperimento delle vittime e dell'esecuzione viene incaricato il tenente colonnello Kappler: gli ufficiali del reggimento Bozen si sono infatti rifiutati, malgrado fosse stato il loro reparto ad essere direttamente colpito. Kappler ha pochi uomini, pochi prigionieri a disposizione e poco tempo: tutta l'operazione verrà condizionata da una estrema frettolosità, cui devono senza dubbio essere ricondotti anzitutto i cinque morti eccedenti il risultato dell?aritmetica della strage. Una volta accintosi alla redazione della lista degli eliminandi, l'ufficiale SS si rende conto ben presto che i condannati e persino i giudicati dal tribunale di guerra tedesco non coprono che una minima parte della cifra da raggiungere; per riuscirci, svuota il carcere tedesco di via Tasso, il braccio del carcere di Regina Coeli sottoposto all'autorità germanica, aggiunge 75 ebrei romani in attesa di deportazione; poi ricorre ai prigionieri della banda Koch e infine chiede 50 uomini al questore di Roma Caruso, il quale glieli concede dopo essere consultato con il ministro degli interni della RSI, Buffarini Guidi. Nella confusione finale, finiscono nella lista detenuti comuni, spesso per piccoli reati, e persino alcuni arrestati in fase di rilascio da Regina Coeli. Naturalmente, ai primi posti ci sono i resistenti, e non c'è formazione della Resistenza romana che non sia ampiamente rappresentata.

Nel primo pomeriggio del 24 i 335 vengono trasporti su camion coperti ad alcune cave di pozzolana abbandonate sulla via Ardeatina, poco fuori dalla cinta delle mura Aureliane, ed eliminati a gruppi di cinque con un colpo alla nuca. Ad eseguire il massacro sono gli uomini delle SS, dipendenti da Kappler, e fra essi un giovane tenente di nome Erich Priebke, già tristemente noto per la sua attività poliziesca in via Tasso. Kappler dispone che gli ufficiali sparino per primi, in modo da dare l'esempio ai dipendenti; per l'emozione e il crescente disagio degli esecutori il massacro avviene peraltro in modo disordinato, non diversamente da quel che in circostanze analoghe era avvenuto anni prima agli Einsatzkommando responsabili delle prime stragi di ebrei nella Polonia e nell'Ucraina occupate (da notare che, oltre a Kappler e Priebke, nessuno degli esecutori verrà condannato). Quando tutto è finito la volta delle cave viene fatta saltare dai genieri tedeschi. Le salme verranno esumate, riconosciute e composte solo a partire dal mese di luglio, dopo la liberazione di Roma, in un clima di acuta emozione pubblica che le pietose operazioni in quelle che per tutti sono divenute le Fosse Ardeatine accentuano ed esasperano. Nell'immediato, il luogo del massacro e la lista delle vittime non vengono resi noti: la scelta stessa delle cave e le operazioni successive di occultamento sono indicative di una precisa volontà degli esecutori di mantenere sull'operazione un angoscioso stato di incertezza che ne accentui l'impatto e il peso nell'ambito della strategia di terrore messa in atto da parte tedesca nei confronti della cittadinanza romana. Lo stesso annuncio dell'azione di via Rasella e della strage successiva viene dato esclusivamente nella giornata del 25 dall'Agenzia Stefani, a cose già avvenute; ed infatti il comunicato si chiude con la nota formula ''Quest'ordine è già stato eseguito''.

 

La polemica su via Rasella e l'attacco alla Resistenza

Intorno a questo dato di fatto ruota invece uno degli elementi di più macroscopica equivocità dell'intera vicenda: nel senso comune, oggi, prevale un'interpretazione della vicenda imperniata sul seguente assioma: i tedeschi chiesero ai responsabili dell'azione di via Rasella di presentarsi, minacciando in caso contrario la rappresaglia; i gappisti non si presentarono; ergo, su di loro ricade la responsabilità dei trecentotrentacinque morti.

A parte il fatto che tutta la Resistenza europea mette in atto azioni come quella di via Rasella e non meno cruente -- le uniche d'altra parte possibili per i movimenti di opposizione armata nell'Europa occupata dai nazisti -- mettendo in conto anche le possibili risposte, sulla cui durezza ai primi del 1944 ci sono montagne di testimonianze ed esempi, e che nondimeno nessun resistente pensa di offrirsi volontariamente al nemico; nel caso di Roma, alle precedenti azioni partigiane aveva fatto riscontro una risposta sul piano poliziesco, mai un massacro. Usiamo qui i termini ''strage'' e ''massacro'' (se si vuole, anche il più aulico ''eccidio'') perché il termine ''rappresaglia'' ha un preciso significato giuridico, precisato dalla Convenzione dell'Aja del 1907 che riconosce la legittimità della rappresaglia da parte di un esercito attaccato secondo modalità quali quelle impiegate in via Rasella. La legittimità della rappresaglia tedesca viene infatti in un primo tempo riconosciuta dal tribunale militare italiano che nel 1948 condanna Kappler; ma il carattere di forza armata legittimamente riconosciuta -- e non di franchi tiratori -- dei GAP viene affermato in modo inequivocabile dai tribunali ordinari italiani davanti ai quali negli anni Cinquanta vengono portati i gappisti romani e i capi della Resistenza, e con esso il carattere di legittimo atto di guerra -- portato verso un esercito di occupazione -- dell'azione di via Rasella; tale giudizio è stato sostanzialmente confermato in anni vicini a noi anche dalle sentenze contro Erich Priebke.

Posto quindi che non c'era ragione giuridica né politico-militare perchè i gappisti si dessero in mano tedesca, resta da precisare un elemento: il preteso invito a presentarsi semplicemente non esiste, non è mai stato scritto né diramato. I romani sapevano di via Rasella, il boato dell'esplosione aveva scosso gran parte del centro cittadino; lo sapevano i comuni cittadini, come lo sapevano le gerarchie fasciste che collaborarono alla strategia del terrore tedesca; come lo sapevano il clero e le autorità vaticane; come lo sapevano Pio XII e Benito Mussolini i quali, per ragioni diverse fra loro ma forse anche per la rapidità della risposta violenta tedesca, ritennero non dover intervenire per evitare la strage; ed i tempi fulminei ancorchè caotici della strage impedirono anche un tentativo partigiano di predisporre un attacco ai camion che trasportavano i prigionieri, per tentare di salvarne almeno alcuni. Ma un invito a presentarsi non vi fu: tanto è vero che anche gli autori che maggiormente battono sulle presunte responsabilità morali dei gappisti per la loro mancata presentazione -- cito per tutti Giorgio Pisanò, del quale ho consultato il I volume della Storia della guerra civile in Italia -- si dimenticano di precisare come quando e da chi sia mai stato emanato e diffuso tale invito. Sul quale, e il dato è di ben diverso peso, tacciono anzitutto coloro che avrebbero avuto il maggiore interesse a produrre un documento del genere, ovvero il questore Caruso e i comandanti tedeschi Kappler, Mackensen e Kesselring (e più tardi Priebke) che mai lo producono nel corso dei processi che li vedono come imputati per il massacro. Ma tant'è, una menzogna ripetuta con insistenza per sessant'anni non fa fatica a diventare una quasi-verità. Soprattutto perché la responsabilità della circolazione di questa sorta di leggenda metropolitana non è da attribuire in primo luogo alla stampa fascista, che non insiste particolarmente su questo punto preferendo sottolineare la capacità della ''rinnovata amicizia italo-tedesca'' di rispondere duramente alle azioni militari partigiane: ''non si tratta di fucilazione di ostaggi o di rappresaglia  -- scrive ''Il giornale d'Italia'' all'indomani dei fatti  -- ma di una rigorosa e severa applicazione delle leggi di guerra''. La leggenda nasce sì a pochi giorni della strage, in un rapporto del federale fascista di Roma ai quadri del partito, ma viene alimentata soprattutto nel dopoguerra dalla stampa degli schieramenti moderati del CLN.

E qui bisogna fare un passo indietro. L'azione di via Rasella produce infatti la conseguenza di far esplodere i contrasti interni al Comitato di Liberazione romano: solo latenti sul piano militare, essi divampano invece nei giorni dell'azione e del massacro sul piano politico per l'impossibilità di comporre il contrasto fra una sinistra che reclama una maggiore durezza del Comitato nei confronti della monarchia e del governo Badoglio, e una componente moderata che si rifiuta di seguirla su questa strada. Alla riunione del CLN successiva ai fatti, ed in un clima di già accentuata contrapposizione, alcuni partiti moderati attaccano il rappresentante comunista Amendola per le modalità e le conseguenze dell'azione, ma la proposta di prendere le distanze da essa fallisce per l'opposizione degli altri partiti di sinistra e dello stesso rappresentante liberale, e il CLN finisce per assumersi la responsabilità politico militare dell'atto; pochi giorni dopo la svolta di Salerno verrà a ricomporre anche la spaccatura politica.

Non così avviene in Vaticano, dove ''L'Osservatore Romano'' commenta in questo modo l'accaduto: ''Trentadue vittime da una parte; trecentoventi persone sacrificate per i colpevoli sfuggiti all'arresto dall'altra'' e conclude invocando ''dagli irresponsabili il rispetto della vita umana che non hanno il diritto di sacrificare mai; il rispetto per l'innocenza che ne resta fatalmente vittima'' (OR del 26 marzo 1944, cit. in Portelli, p. 4). In queste frasi c'è il nocciolo di sessant'anni di polemica su via Rasella:

 

1.      i tedeschi delle truppe di occupazione diventano ''vittime'' e vengono posti sullo stesso piano dei caduti nell'eccidio, che diventano ''persone sacrificate''; nel senso comune si aggiungerà il fatto che ''erano altoatesini, manco tedeschi'' (per quanto dell'esercito tedesco portassero la divisa ed eseguissero gli ordini, anche quelli sanguinari, altro che ''innocenza'') e che erano ''territoriali anziani'' (secondo Pisanò avevano invece dai ventiquattro ai quarant'anni). Naturalmente, in quanto soldati ''eseguivano degli ordini'': loro, come le SS delle Ardeatine, come Priebke, come Kappler, come Mackensen, come Kesselring, su su fino a Hitler ed Himmler ai quali, ormai morti, non è difficile addossare le colpe ultime. Sull'argomento dell'obbedienza e i suoi sostenitori -- i  gerarchi processati a Norimberga, gli Eichmann, gli Hess, gli Stangl, e via via fino ai massacratori di Srebrenica -- c'è una bibliografia tanto vasta che non è possibile nemmeno accennarvi.

2.      Gli artefici dell'azione di via Rasella sono ''elementi irresponsabili'' dalla cui azione sconsiderata scaturiscono conseguenze che ricadono su altri: ''persone'' che vengono ''sacrificate'' per espiare l'irresponsabilità di questi elementi. Lo scopo da parte della Santa Sede di scongiurare il pericolo che via Rasella costituisse un elemento di turbativa nello sforzo per una transizione senza traumi dall'occupazione tedesca a quella alleata, spiega in gran parte il senso di questo giudizio. Ma di esso si impadronisce la destra ciellenista, già all'indomani della liberazione della città, per criticare da un punto di vista attendista la strategia militare della sinistra e più tardi, amplificandolo a dismisura, la pubblicistica moderata, essenzialmente in funzione anticomunista. Pisanò riduce via Rasella ad un'azione preordinata dai comunisti per liberarsi, attraverso la reazione tedesca, dell' ''élite resistenziale'' azionista e monarchica (e aggiungiamo anche Bandiera rossa: di tutti questi schieramenti ha appena affermato l'inconcludenza sul piano militare), incontrollabile dal Pci e potenzialmente sua rivale, omettendo accuratamente di citare i nomi delle decine di comunisti finiti alle Ardeatine; senza ricorrere a simili acrobazie logiche, ed in un'epoca di forte delegittimazione del valore complessivo della Resistenza di cui il processo ai gappisti è una delle testimonianze principali, l'operazione punta scopertamente ad attaccare, su un episodio di altissimo impatto emotivo per l'alto numero di morti e quindi di elevato valore simbolico è quella parte della Resistenza che ha predicato e praticato l'azione armata, e soprattutto il partito al quale, a torto o a ragione, si attribuisce un'egemonia sull'intero movimento resistenziale.

 

Lapide che ricorda i martiri delle Fosse Ardeatine.

 

Tra revisionismo e oblio

Questo tipo di atteggiamento entra in crisi negli anni Sessanta quando, in tempi di centrosinistra e nell'occasione del XX anniversario, si afferma una nuova retorica della Resistenza: quella che la vede come ''la Resistenza di tutti'', precorritrice del concetto politico di ''arco costituzionale'' e sotto questa definizione costruisce una visione unanimistica del processo resistenziale in cui attenua e oblitera le divisioni, i contrasti, le contraddizioni e le tragedie, lasciando il monopolio della polemica antiresistenziale agli schieramenti più conservatori, in definitiva ai soli neofascisti, eredi dei ''non uomini'' vittoriniani e quindi destituiti di credibilità anche quando sollevano, magari senza la capacità di leggerli correttamente, problemi reali. Le punte estreme dei movimenti giovanili a cavallo del Settanta rilanciano l'interpretazione classista della Resistenza come rivoluzione mancata, cercando in essa le premesse dello scontro esasperato con i movimenti di destra, e persino della pratica della lotta armata; ma l'insorgere di quest'ultima come emergenza democratica, in un clima di larga intesa fra gli schieramenti politici, contribuisce ad esasperare la retorica unanimistica finendo per determinare una cesura crescente fra la memoria della Resistenza e buona parte dell'opinione pubblica, anche avanzata, del paese, soprattutto delle giovani generazioni. I motivi della polemica antiresistenziale attraversano questi anni come un fiume carsico, per rispuntare prorompenti negli anni Novanta, imponendosi progressivamente nella stampa moderata (''Il Corriere della Sera'' per il cinquantesimo anniversario delle Ardeatine ribadisce a chiare lettere la tesi della responsabilità dei partigiani) e poi in televisione, fino a diventare oggi senso comune diffuso. L'allontanarsi nel tempo degli avvenimenti; la sparizione progressiva della generazione dei protagonisti e dei testimoni adulti; la scomparsa totale in Europa e in Italia, fino a tempi assai recenti, dell'esperienza diretta della guerra; il fallimento pressochè totale del sistema formativo italiano nel campo della creazione di una consapevolezza storica, particolarmente della storia del Novecento e degli ultimi cinquant'anni, fanno il resto. Il libro di Portelli sulla memoria di via Rasella e delle Ardeatine L'ordine è stato eseguito, bel libro di storia scritto da un professore di letteratura, mostra a chiare lettere la tragica realtà di giovani generazioni che non sanno pressochè nulla dei fatti e tanto meno delle interpretazioni, e nulla si curano di sapere poiché lo ritengono del tutto estraneo al patrimonio di conoscenze essenziale per affrontare il proprio tempo. Quei pochi che di sapere si curano, aderiscono quasi tutti alla vulgata antiresistenziale: non c'è praticamente occasione in cui Bentivegna sia chiamato a parlare di Resistenza e in cui non sia accolto da manifestazioni ostili: a Sassari, non più di cinque anni fa. Gli inviti a ''riscrivere la storia'' e a mettere, ancora una volta sullo stesso piano le ''vittime'' tedesche e fasciste e le ''persone sacrificate'', o ''i combattenti dell'una e dell'altra parte'' si moltiplicano e debordano, e le manifestazioni di ignoranza della Storia vengono ormai anche dalle più alte autorità dello Stato. A chi soprattutto fra gli addetti ai lavori della storia - si stupisce che ciò avvenga, vorrei leggere un passo di Portelli: ''Sarebbe bastato leggere i giornali moderati, o prestare orecchio alle conversazioni da scompartimento ferroviario in tutti questi anni: ma questi livelli di discorso sembrano al disotto dell'attenzione dei politici, degli storici, degli antropologi, la pubblicistica antiresistenziale è spesso davvero indecente, e l'illusione di una resistenza plebiscitaria lasciava credere che questi discorsi fossero destinati a estinguersi nell'Italia nata dalla resistenza. Perciò, la sinistra intellettuale e politica non ha ritenuto che fosse il caso di occuparsene. E se li è ritrovati davanti, aggressivi e arroganti, negli anni del revisionismo'' (p.326).

 

Ricordare, studiare, operare: un debito ancora non saldato

Per questo occasioni come questa, occasioni di studio e di riflessione, non solo ci mera commemorazione, sono positive quanto purtroppo non molto frequenti, e fanno onore alle amministrazioni pubbliche che le promuovono. Perché questa è una memoria che va anzitutto conosciuta e studiata, con criteri scientifici; in secondo luogo promossa e salvaguardata. Non possiamo dare nulla per scontato, i nostri sono tempi di inversioni dei ruoli generazionali: il nostro Presidente della Repubblica, alla sua bella età, può affermare che ''i giovani sanno che senza la Resistenza (e il Risorgimento, aggiunge, ed è bene non dimenticarlo) questo paese sarebbe peggiore'', e darci con questo una salutare lezione di ottimismo della volontà; a noi, meno avanti negli anni ed a contatto quotidiano con le giovani generazioni e il tempo in cui crescono, è forse più opportuno praticare un non meno sano pessimismo della ragione, ed operare di conseguenza.

Senza dimenticare una cosa: il debito nei confronti di Rino Canalis non si esaurisce nel fatto che egli era figlio di questo paese. Se in questo palazzo oggi c'è un'amministrazione comunale democraticamente eletta dai cittadini, e non importa assolutamente di quale orientamento, e non un podestà di nomina prefettizia, è a lui e a quelli come lui che lo dobbiamo; perché prima non era così; se nelle scuole non ci sono verità di Stato da insegnare, è a lui e a quelli come lui che lo dobbiamo, perché la scuola fatta strumento di indottrinamento ideologico oggi non c'è ma allora sì, ed ha contribuito non poco a mandare una generazione a farsi ammazzare in una guerra scellerata; se dentro e fuori di qui confrontiamo liberamente le nostre opinioni e discutiamo -- magari con calore, come in questo tempo di elezioni -- senza timore di finire in villeggiatura a Lipari o a Ustica, è ancora a lui che lo dobbiamo. Dopo di che, e tanto più di fronte a un uomo che apparteneva alla corrente politica e ideale di Canalis, non si può non dire senza tema d'errore che l'Italia che lui avrebbe voluto veder uscire dalla lotta contro il fascismo non è certo quella che è concretamente stata, che al passato è così simile: basta leggere un qualsiasi documento di quel Partito d'Azione, nelle cui file Canalis combattè, per riceverne l'impressione. E forse è quest'impegno, a volere un'Italia con più giustizia, più libertà e più democrazia -- le parole d'ordine dell'azionismo -- ad essere ancora pendente, eredità ancora da onorare: per saldare, almeno in parte, il debito con lui e con i suoi compagni di lotta e di martirio.

 

 

La bibliografia e la sitografia possono essere richieste al Prof. Borghesi, scrivendo al nostro indirizzo e-mail: circologl@tiscali.it

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
   
 
 
 

 

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