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Cagliari 1945, Emilio Lussu al centro di un gruppo di sostenitori


Aldo Borghesi – “Dalla Resistenza al governo democratico”

La Nuova Sardegna, 17 febbraio 2005

Quando nell’estate 1943, rientrato in Italia dopo tredici anni di esilio, Lussu aderisce al Partito d’Azione, tiene a marcare la continuità fra questa esperienza politica e quella di Giustizia e Libertà, che ha fondato nel 1929 dopo la fuga dal confino di Lipari. Oggi essa potrebbe apparire scontata, ma non lo è: nel 1942 concorrono a fondare il PDA gruppi estranei all’esperienza di GL - quello milanese che fa capo a Ugo La Malfa; i liberalsocialisti toscani - e che non si riconoscono nella svolta in senso socialista impressa al movimento dalla leadership di Lussu dopo l’assassinio di Carlo Rosselli, e che nel dilagare della guerra non era stata discussa né assimilata dai nuclei rimasti attivi in Italia.

Si profila così, fin dalle origini, la dicotomia di posizioni che segna il percorso breve e intenso del Partito d’Azione: il contrasto fra quanti vedono in esso il nucleo di un partito dei ceti medi, che li sottragga all’egemonia conservatrice e reazionaria stabilita su di essi prima dal liberalismo postunitario, poi dal fascismo, e ora dal sorgere dell’astro democristiano; e coloro che ritengono possibile una rivoluzione italiana in grado di spazzar via i centri di potere tradizionali, solo a patto di aggregare un’alleanza fra i ceti “che vivono del proprio lavoro senza sfruttare quello altrui”: in primo luogo classe operaia e contadini del Sud.

Questa posizione aveva caratterizzato l’ultima fase di GL, non senza oppositori di spicco, fra cui Tarchiani (che alle origini di GL vi rappresentava l’orientamento liberale, come Rosselli quello socialista e Lussu quello repubblicano-sardista) e soprattutto Salvemini, già da tempo critico nei confronti di Lussu. I due coniugavano affettuosi rapporti personali e taglienti giudizi politici: nell’epistolario con Ernesto Rossi, Salvemini definisce Lussu “scrittore di prim’ordine” ma anche “un tipo perfetto di squinternato politico”; Lussu, dal canto suo, lo ritiene isolato dalla situazione italiana e non in grado di esprimere valutazioni politiche fondate.

La posizione di Lussu è caratterizzata da un socialismo non marxista, inseparabile da un’idea forte di democrazia (“all’infuori della democrazia non c’è socialismo ma terrore permanente”) fondata sullo spostamento verso il basso dell’esercizio concreto dei poteri, che le posizioni federaliste del Lussu costituente cercheranno di tradurre in meccanismi istituzionali. Il leader di GL è quanto di più lontano dalla III Internazionale, ma considera i comunisti interlocutori necessari nel processo di unità delle sinistre, senza accettarne l’egemonia e senza i complessi di inferiorità che egli rimprovera al Partito Socialista.

Dopo l’8 settembre, Lussu si impegna nella Resistenza romana, come membro della giunta militare del Cln centrale. Critica la svolta di Salerno e il compromesso con la monarchia, malgrado la presenza di alcuni azionisti del Sud nel governo Badoglio: nel congresso meridionale del PDA, a Cosenza nell’agosto 1944, sulle sue posizioni si ritrova la grande maggioranza dei delegati.

Proiettato al vertice del partito, con la nascita del governo Parri diviene anche ministro per l’Assistenza Postbellica (“il ministero della miseria italiana”): esercita la carica con senso dello Stato e rigore di amministratore. “Se non si ristabilisce l’Amministrazione, non si risolleva il Paese dalla miseria morale in cui il fascismo l’ha prostrato”: parole che oggi possono apparire fuori dal tempo, ma niente affatto isolate in un’epoca pur difficile e in quella corrente politica. Ernesto Rossi - giellista, in carcere dal 1930 - diviene con Parri presidente dell’Arar: l’ente gestiva l’assegnazione e la liquidazione dei residuati bellici (rottami metallici, ma anche camion, tessuti...), ovvero una delle poche risorse in un paese in ginocchio; Rossi riesce a sottrarlo alle pratiche clientelari divenute poi normali nell’Italia democristiana e socialista, imponendo un modello di gestione economica corretto e finalizzato al pubblico vantaggio.

Lussu presenta la propria esperienza governativa - proseguita brevemente nel primo ministero De Gasperi - come un sacrificio necessario a garantire almeno gli essenziali obiettivi di democratizzazione. Ma il compito principale che Lussu riconosce svolto dal PDA è il sostegno alla lotta partigiana delle formazioni Giustizia e Libertà. Nella sua opera del 1968 Sul Partito d’Azione e gli altri, Lussu ne traccia un quadro ancora sommario - e oggi largamente superato dagli studi - ma carico di fierezza per la diffusione territoriale e il peso che esse ebbero nella lotta armata (60.000 combattenti, 4.500 caduti; particolarmente forti in Piemonte e Veneto). Fra i capi militari, cita con orgoglio i sardi Piero Borrotzu, Fausto Cossu e Massenzio Masia. Dopo la caduta di Parri e il sopravvento delle forze moderate e conservatrici, il PDA cade in una crisi irreversibile. Il partito si divide sulle opzioni ideologiche: quando per la prima volta si riunisce a congresso, nel febbraio 1946 a Roma, una delle ipotesi politiche per salvarlo è la “sforbiciatura delle ali”, ovvero l’emarginazione delle correnti estreme che fanno capo a Lussu e a La Malfa. Il contrasto tra le divergenti visioni dei due leader circa il ruolo del PDA rimane ancora oggi l’elemento di maggiore visibilità nella parabola finale dell’azionismo. Lussu lo liquida da par suo, netto e sprezzante: “La differenza sostanziale fra La Malfa e Lussu era stata sempre e solo questa: Lussu aspirava alla ricostruzione dell’Italia repubblicana con al potere la classe operaia tutta unita, con quelle alleanze consentite a una direzione di governo socialista, in alternativa alla Democrazia cristiana, a costo di attendere ancora in anni di lotta; La Malfa alla direzione politica di un governo di centro al di fuori degli estremi”.

È una visione schematica, e bisogna dire che lo stesso Lussu indica un possibile terreno di accordo sui numerosi punti comuni: l’intransigenza repubblicana, la lotta per uno Stato laico e autonomista, la riforma agraria, la sovranità della Costituente. Oggi appare inoltre chiaro che il disegno lussiano non aveva prospettive: l’idea dell’unità d’azione cozzava senza scampo con la collocazione internazionale del Pci dopo Yalta. La fine del Partito d’Azione è stata un lutto difficile da elaborare per la sinistra italiana non marxista: l’opposizione di sinistra ha infatti finito per costruirsi intorno all’egemonia del Pci, votandosi a un avvenire di sconfitte, ed è difficile non vedere in questo una fondamentale responsabilità storica del Partito socialista, partner supino del patto di unità d’azione come il PDA non sarebbe mai stato.

Il confronto congressuale nel PDA è duro ma corretto. A rileggerlo oggi, le questioni ideologiche su cui verte sembrano lontane anni luce dai termini della lotta politica attuale; ma allora esprimevano differenze sostanziali di identità. Il destino che attende i due spezzoni in cui il partito si divide è dolorosamente simile: entrambe finiranno sotto l’egemonia delle rispettive forze di riferimento, la Dc e il Partito comunista, fino a distinguersi assai poco da esse. I rapporti tra Lussu e La Malfa (e non solo fra loro) si deterioreranno: dopo che uno scontro in piena Camera nel corso della battaglia parlamentare sulla legge-truffa del 1953 trascende a vie di fatto, fra i due ci sarà persino una sfida a duello; ancora nel 1975, “La Voce Repubblicana” dedicherà a Lussu un necrologio gelido.

Riflettendovi a distanza di anni, l’esperienza azionista appare a Lussu comunque valida: “il compito del PDA può considerarsi assolto, con la negazione integrale del regime fascista, con la Resistenza individuale e collettiva armata, e coll’intransigenza repubblicana che ha portato alla costituzione democratica”. Nella stagione azionista l’uomo di Armungia ha dato il meglio di sé come leader nazionale, fino a divenire figura tra le principali di tutta la sinistra. Affascina ancora oggi, nel leggere i suoi interventi sulla stampa e in Parlamento, il ruolo centrale che sempre attribuisce alla Sardegna: terra di contadini poveri, di minatori, di pastori, ma punto di osservazione e pietra di paragone di ogni processo democratico in Italia e in Europa.

Questa visione di una Sardegna protagonista attiva della rivoluzione democratica italiana ed europea spicca grandiosa nell’azione politica di Lussu: le strategie di cambiamento delineate per l’isola (a partire dalla conquista dell’autonomia, su cui come tutta la sinistra di allora egli proietta grandi aspettative, ahimè quanto deluse) hanno un’ampiezza di respiro che non trova uguale in nessuna figura della classe dirigente sarda, né allora né dopo. Ovviamente, nulla ha a che vedere con l’assistenzialismo subalterno al potere centrale praticato dai governi regionali democristiani, o con il localismo conservatore che Lussu rimprovera al PSDA e stigmatizza nella battaglia contro un separatismo conservatore, che solo in parte può essere riportato ai temi all’odierna battaglia per l’indipendenza della Sardegna, ma ai cui temi appare ancora pericolosamente sensibile una parte non trascurabile dell’area nazionalitaria e soprattutto sardista.

Non stupisce dunque nemmeno la sfortuna di cui Lussu gode nell’odierno panorama politico sardo e che Guido Melis ha ancora di recente rilevato. Dovrebbe stupire in una sinistra che oggi si è liberata delle rigidità dottrinarie che emarginarono Lussu, e che nell’esperienza e nella pratica politica dell’azionismo potrebbe trovare una nuova identità ideale in grado di farle affrontare un futuro non facile.

Non è un caso che l’esperienza di GL e del Partito d’Azione sia fumo negli occhi della destra culturalmente meno rozza, che non perde occasione per lanciarle violente bordate polemiche. Ma a quanto pare il radicalismo democratico e socialista degli azionisti, e soprattutto una figura di libertario e federalista come quella di Lussu, non attraggono nemmeno le forze politiche della sinistra italiana di oggi. “Tutta la mia vita - scriveva - è stata sempre tesa a cercar di diventare un uomo: il che è ben difficile. Ma se il mondo crollasse, io spero di morire da uomo. Se il mondo crolla, sono parecchi quelli che muoiono da macchina da scrivere”. 

Di che meravigliarsi, se le macchine da scrivere d’oggi, ancorché computerizzate, non lo amano?

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
   
 
 
 

 

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