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Lussu  alla testa delle sue truppe durante la prima guerra mondiale

«... ancora oggi, sogno i nostri soldati, sul Carso, in piedi, diritti, attaccati agli alti fili spinati -- infissi a terra sul cemento e sostenuti da spranghe di ferro -- rimasti lì, cadaveri...»


Luciano Marrocu – “La nuova politica nata in trincea. Dal mito della grande guerra all’opposizione contro il fascismo”

La Nuova Sardegna, 3 marzo 2005

Quando, nel novembre del 1919, la guerra finisce, Emilio Lussu è già in Sardegna una figura leggendaria. Quattro medaglie al valore, il racconto giunto ai più sperduti villaggi delle sue imprese al fronte ne fanno un eroe di guerra, anche se eroe di una specie nuova. Un eroe sardo, prima di tutto. Il nome di Lussu è sempre associato a quello della Brigata Sassari. Lussu e la Brigata Sassari hanno dato corpo al mito dei “sardi ottimo materiale di guerra”, una delirante autocandidatura al macello che sin dal maggio del 1915 echeggia dalle pagine della Unione Sarda, e alla menzione che “degli intrepidi sardi della Brigata Sassari” ha fatto il bollettino dello Stato Maggiore dopo l’azione alle Frasche.  

Il racconto delle imprese del capitano Lussu presenta però, come si è detto, un eroismo diverso da quello che di solito si celebra nelle cerimonie militari: parla non solo di coraggio fisico ma anche di coraggio morale, ed elegge Lussu a capo della tribù dei sardi che cerca di sottrarre i suoi al macello e riesce a volte a difenderli dalla sanguinaria stoltezza degli alti comandi. Il capitano Lussu vuole che le forme, anche quelle del comando, siano rigidamente osservate -- che i soldati si alzino in piedi al suo passaggio, che le giberne siano sempre allacciate, il fucile sempre pulito -- ma è anche capace, ancora tenente, di disobbedire a un generale che gli ordina di portare per l’ennesima volta all’assalto (e alla conseguente carneficina) il suo battaglione.

La guerra ha voluto dire per la Sardegna 13.602 morti, il che significa 138,6 morti ogni mille abitanti, una media considerevolmente più alta di quella nazionale. Ha anche voluto dire, la guerra, che 98.142 maschi adulti, l’11 per cento degli 870.077 abitanti dell’isola, sono stati mobilitati. Un’esperienza di nazionalizzazione di massa, visto che grandissima parte dei 98.142 sardi mobilitati proprio in questa occasione entrano per la prima volta direttamente, personalmente, fisicamente, nella sfera dell’italianità. Cosa c’è di più italiano di morire per la patria italiana, rischiare di morire per essa, provare ogni giorno il terrore di morire per essa? Cosa c’è di più italiano di condividere questa esperienza con calabresi e lombardi, siciliani e veneti, romani e milanesi? La peculiarità dell’esperienza dei sardi in guerra - dei “sassarini”, certo, ma anche di quelli, e sono i più, che “sassarini” non sono - è che nel loro caso il processo di nazionalizzazione risulta doppio, e insieme a una nazionalizzazione di segno italiano se ne svolge un’altra, una “nazionalizzazione sarda” per così dire.  

Nello stesso momento in cui i sardi chiamati alle armi imparano sulla loro pelle ad essere italiani, imparano anche ad essere sardi: a questo, ad imparare ad essere sardi, serve la Brigata Sassari, a questo servono le citazioni al merito. E questo racconta, in modo dolente, un canto di allora che dice: “Pro defender sa patria italiana/Distrutta s’este sa Sardigna intera.” Emilio Lussu è un interprete particolarmente espressivo di questo processo, anche se nel suo caso va tenuto presente che, diversamente dai fanti pastori-contadini al suo comando, è un ufficiale, che si è laureato, che ha fatto il liceo a Roma, e che non ha dovuto aspettare la guerra per sentirsi italiano. Come la gran parte degli studenti universitari italiani, Lussu, prima ancora che l’Italia entrasse in guerra, ha manifestato per l’intervento. Semmai, nel suo caso, la scoperta fatta in trincea è quella della sardità.

La nuova politica che prende forma all’indomani dell’armistizio utilizza risorse e linguaggi tratti dall’esperienza della guerra. La comunità di trincea è il nucleo intorno a cui recluta i suoi adepti e li organizza. La nuova politica è permeata dal linguaggio della violenza, così a destra come a sinistra, sia che si tratti della violenza rivoluzionaria rigeneratrice sia che si tratti della mistica del “santo manganello”. I nuovi partiti sono partiti di reduci. Nel tumulto politico e organizzativo che accompagna in Sardegna la nascita dell’Associazione combattenti, il capitano Lussu, prima ancora di essere tornato a casa, viene acclamato capo, lui che è stato il capo tribù dei giorni della trincea. L’otto giugno 1919, quando è ancora col suo reparto in territorio jugoslavo, viene eletto all’unanimità presidente dei reduci di Cagliari.

L’Associazione dei combattenti è solo un primo passo. Nasce come fatto quasi sindacale - si tratta di difendere l’interesse dei reduci in tempo di pace - ma è da subito anche un fatto politico, se è vero che tra i suoi primi effetti c’è quello di contribuire a ridisegnare la mappa del potere locale. Lussu, che pure non ha alle spalle nessuna specifica preparazione politica, ha una percezione vivissima di tutto questo. Scriverà più tardi: “I soldati della Brigata Sassari avevano constatato che i colonnelli e i generali, considerati prima monumenti di autorità e di scienza, non capivano niente. Proprio non capivano nulla, tanto da sembrare che fossero là per errore e che il loro mestiere fosse un altro. Ma chi comandava in Italia? I governo del re. La critica militare si spostava elementarmente sul terreno politico. Nel villaggio, il sindaco, il farmacista, l’esattore, il maresciallo erano del partito del governo del re. Nemici anche loro? Tutti nemici”.

Insomma, l’esperienza della guerra si traduce in una percezione diffusa che il potere nazionale, quello dei generali e del governo del re, e il potere locale, quello dei prinzipales del villaggio, sono due facce della stessa medaglia. Intorno a questa idea nasce, dall’Associazione combattenti, il Partito sardo d’Azione, o almeno il Partito sardo d’Azione come lo vede Lussu. Non tutti infatti, nel nuovo partito, la pensano allo stesso modo.  

Questo emergerà nei primi mesi del 1923, quando il Psd’Az si trova ad affrontare una sfida decisiva. Mussolini ha appena fatto la sua Marcia su Roma e ha appena conquistato il governo: sino a quel momento tra fascisti e sardisti, in Sardegna, non è corso certo buon sangue, e i sardisti sono stati anche loro vittime dello squadrismo fascista. Ma Mussolini medita di imprimere un cambio d’indirizzo al fascismo isolano. Valuta che se il Partito Nazionale Fascista non cresce dell’isola questo è perché è troppo violento, e questo lo isola. Lo squadrismo, che va bene per il Nord, non va bene per il Sud, e soprattutto non serve in Sardegna. Serve trovare consensi, radicarsi nella società. E’abbastanza chiaro perché Mussolini individui nel Psd’Az il cavallo di Troia capace di espugnare la Sardegna.  

Insieme a molte cose che li dividono, fascisti e sardisti hanno tratti e un retroterra comuni. Nascono entrambi dall’esperienza della trincea, sono partiti di reduci, condividono antiparlamentarismo e antigiolittismo, guardano con disprezzo ai vecchi equilibri e alle vecchie clientele e a quella versione sarda del giolittismo che è il “coccortismo”.
Interprete della strategia mussoliniana è il generale Asclepia Gandolfo, che negli ultimi giorni del 1922 il capo del governo invia a Cagliari come prefetto. La direttiva è di realizzare in Sardegna una “fusione” tra Partito Nazionale Fascista e sardisti. Il mandato di Gandolfo è molto ampio e il generale può porre sul tavolo delle trattative l’impegno che a “fusione” avvenuta saranno i sardisti a dirigere il fascismo isolano. Vi è poi, molto più generica, la prospettiva di una realizzazione attraverso il fascismo degli obiettivi autonomistici del sardismo.  

Emilio Lussu, che nel 1921 è stato eletto deputato, viene delegato dal Psd’Az a trattare con Gandolfo. Nel gennaio del 1923 lo incontra. Non ci sono dubbi che, di primo acchito, Lussu giudichi favorevolmente la proposta di Gandolfo. Lo ammetterà lui stesso qualche settimana dopo: “Esposi lealmente al generale Gandolfo le ragioni per cui mi sarei mostrato favorevole alla unificazione dei due partiti superando ogni teorica riluttanza”. Poi insorgono i dubbi. Il 3 febbraio restituisce il mandato con cui il Psd’Az lo ha delegato a trattare con Gandolfo. A febbraio un primo gruppo di sardisti salta il fossato e aderisce al fascismo. Lussu non è tra questi. Come nell’aprile dello stesso anno non sarà con un altro gruppo di dirigenti del Psd’Az -- spicca tra essi il nome di Paolo Pili -- che aderiscono alla “fusione”. Nel giro di poche settimane i Fasciomori, come vengono chiamati i transfughi dal sardismo, occupano le posizioni di comando del fascismo isolano.

Il loro leader, Paolo Pili, diviene federale di Cagliari. Ma Emilio Lussu non è con Pili, sta dall’altra parte. Inizia per lui la lunga strada che lo porterà, ancora e sempre cavaliere dei Rossomori, attraverso il carcere, il confino, l’esilio all’antifascismo militante e alla Resistenza.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
   
 
 
 

 

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