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Lussu ad Armungia


Guido Melis – “Una grande lezione rimasta senza eredi nella scena politica” La Nuova Sardegna, 13 febbraio 2005

Interrogati sull’attualità o meno di Emilio Lussu verrebbe da rispondere d’istinto: inattuale, anzi inattualissimo. Niente o quasi nella politica di oggi assomiglia più al Cavaliere dei rossomori. Non il pensiero debole dei partiti, compresi quelli di sinistra. Non il fiume di danaro ormai diventato misura e scopo dello scontro elettorale. Non il culto dell’immagine fine a sé stessa, i sondaggi e la comparsata in tv al posto dei comizi e dei volantinaggi, l’Auditel come arbitro della verità, le candidature comprate e vendute sul mercato dell’effimero come fossero detersivi. E neanche, mi si passi la battuta, la ricrescita dei capelli al posto della crescita delle idee.

Lussu fu viceversa, nel corso di tutta la sua lunga e avventurosa esistenza, uomo di idee radicatissime e tenacemente difese; capace sempre di pagare di persona; fisicamente coraggioso, ma di un coraggio sobrio, senza spavalderie; indifferente come nessun altro verso il proprio arricchimento personale e sprezzante verso la corruzione degli altri; tagliente come una lama nei giudizi politici e allo stesso tempo capace di slanci inauditi di generosità umana; incapace di compromessi sempre; persino impolitico, a volte. Radicalmente agli antipodi, dunque, dei politici pret-à-porter cui ci ha abituato la seconda Repubblica (e in parte anche la prima).

Di Lussu conservo un ricordo personale: primi anni Settanta, nella sua casa cagliaritana di via Dante; io ventenne storico in erba, alle prese con la storia del movimento operaio sardo delle origini e con quella dello squadrismo fascista; lui già vecchio (a me sembrava addirittura vecchissimo), quasi cieco dietro le spesse lenti nere, scheletrico, ieratico come un bronzetto nuragico. La storia, anche quella che lo aveva visto protagonista, non gli interessava: voleva parlare dell’oggi, della Sardegna operaia dei poli di sviluppo, dei pastori, e soprattutto (almeno con me) degli studenti contestatori di quegli anni infuocati. Un uomo (questa fu l’impressione che ne trassi) completamente a proprio agio nel suo tempo, un militante rivoluzionario degli anni Settanta. Pur avendo rappresentato più di una leggenda (quella della Brigata Sassari prima, quella dell’antifascismo militante poi), Lussu non si lasciò mai ingabbiare nel clichè dell’ex combattente, né tanto meno (e ne avrebbe avuto diritto più di tanti altri) nell’icona melensa del padre nobile della Repubblica. La politica, intesa come impegno nell’attualità, era per lui passione assoluta, senza temperamenti. Del resto, se per caso gli fosse capitato di cedere all’onda dei ricordi e dell’autocompiacimento, ci avrebbe pensato la sua compagna di sempre Joyce a richiamarlo severamente ai doveri della militanza nell’ora presente.

Sembrava uscito da una pagina di Piero Gobetti. Campione dell’anti-retorica in un Paese ammalato di retorica e di cattiva letteratura, aveva scritto libri memorabili per lo stile asciutto e la cifra ironica con la quale vi aveva affrontato realisticamente le grandi tragedie del Novecento (il massacro della guerra mondiale, la violenza del fascismo al potere). Rientrato in Sardegna da dirigente del Partito d’Azione dopo un esilio durato vent’anni, aveva cercato di spostare a sinistra il suo vecchio Partito Sardo, non esitando davanti al passo estremo della scissione pur di uscire da quello che gli era parso l’insopportabile compromesso del sardismo interclassista dei dirigenti sassaresi e nuoresi. Confluito poi nel Psi, vi si era collocato a sinistra. Ne sarebbe uscito, per aderire al Psiup, in segno di protesta contro la svolta di centro-sinistra e la rottura coi compagni comunisti.

Era un classista, Lussu? A sentirlo parlare, anche in quel nostro incontro cagliaritano di tanti anni fa, avrei detto di sì: la prima cosa che mi mostrò, nel suo studio di via Dante, fu la xilografia di Mario Delitala con i quattro mori bendati sostituiti dalle teste del contadino, del minatore, del pescatore e del pastore sardi. L’emblema - tenne a dirmi subito - di come nella sua vita aveva sempre interpretato il suo “essere a sinistra”. Ma riflettendo e studiando la sua opera, guardando alle sue posizioni dagli anni Venti in poi, qualche dubbio sul classismo di Lussu mi è rimasto. Se fu marxismo, il suo, fu molto distante da quello della Seconda e poi della Terza Internazionale, diverso anche dalla variante italiana gramsciana e poi togliattiana, lontanissimo dall’operaismo anni Sessanta di certi strati del Psi (partito nel quale pure militò a lungo). Per certi versi fu un marxismo a base libertaria, che dopo il Sessantotto guardò molto oltre l’Europa, verso le esperienze rivoluzionarie del Terzo Mondo e dei movimenti di liberazione latino-americani e africani; per altri continuò a nutrirsi di quel radicalismo politico che doveva essere circolato a grandi dosi tra le file di “Giustizia e Libertà”, l’organizzazione politica che Lussu, fuggito rocambolescamente da Lipari nel 1926, aveva fondato a Parigi assieme al suo compagno di fuga Carlo Rosselli.

Si sarebbe detto (e si disse all’epoca, con qualche spocchia professorale) che Lussu era un marxista immaginario, uomo d’azione più che di teoria, spinto a sinistra dalla sua naturale, quasi fisiologica intransigenza più di quanto non lo fosse per origini sociali e per convinta adesione razionale ai sacri testi della tradizione socialista e comunista. C’era però in lui una sostanza preziosa che spesso mancava nelle storie personali di quanti erano giunti alla sinistra marxista attraverso percorsi più lineari e libreschi del suo: si intuivano la politica interpretata e vissuta come azione, l’immediatezza delle scelte di campo fatte, appunto, “sul campo” e non a tavolino. Insomma, un grumo di verità in più che ne faceva un grande leader carismatico, capace di affascinare e trascinare spendendosi personalmente, così come probabilmente gli era accaduto molti anni prima nelle trincee del Carso, da giovane capitano coi soldati-contadini della Brigata Sassari.

Non ci sono, nel panorama attuale, eredi dichiarati di Lussu. Gli echi delle sue idee nel dibattito politico nazionale sono anzi debolissimi, direi addirittura assenti. Ed anche in Sardegna non si va in genere oltre la citazione di rito del suo nome tra quelli dei padri dell’autonomia (salvo il caso del sardismo nelle sue diverse varianti, che di Lussu ha fatto, a mio avviso forzandolo e tradendolo, una lettura tutta identitaria e sardo-nazionalistica). Se si digita il suo nome in uno dei grandi motori di ricerca che servono a scandagliare Internet non si trovano che pochissime citazioni. La grande rete globale ignora Emilio Lussu.
Tutto ciò è anche la conseguenza di un certo silenzio degli storici, seguito alla intensa stagione di ricerca culminata nei due libri più belli: le biografie di Manlio Brigaglia (Emilio Lussu e Giustizia e Libertà) e di Peppino Fiori (Il cavaliere dei Rosso-mori).

Può darsi ovviamente che la politica comtemporanea, anche quella della sinistra, possa fare a meno dell’eredità di Lussu. Del resto anche i partiti nei quali militò lo considerarono spesso come un marginale, né può dirsi che, dopo la fortunata stagione di “Giustizia e Libertà”, l’uomo di Armungia abbia giocato nella politica del dopoguerra un ruolo davvero decisivo. Eppure mi azzarderei a sostenere che oggi più che mai c’è bisogno di Lussu: della sua schiettezza autentica e rude, della sua onestà radicale, del vigore polemico delle sue battute, della sferza della sua ironia impietosa. Domando: può esistere, e soprattutto può reggere, una politica che non abbia in sé un’alta temperatura morale?

Paradossalmente, attuale Lussu lo è ancora oggi, a trent’anni dalla morte, e proprio per quello che di lui sembrerebbe l’elemento forse più anacronistico, la maggiore dissonanza con il relativismo morale dell’epoca presente: per la coerenza intransigente, quasi feroce, con la quale restò sempre fedele alle sue idee; per il sogno, nutrito da giovanissimo e mai abbandonato, di un potere democratico, fuori dalle burocrazie e dall’autoritarismo centralista, imperniato su un federalismo moderno, fatto di autonomie di base e di democrazia popolare diffusa (tutto il contrario dunque del federalismo a base razzista della Lega); e infine - perché no? - anche per quel suo cocciuto dividere il mondo in due, senza troppi cavilli e sottigliezze: da una parte gli oppressori, dall’altra gli oppressi.

Inattuale questo Lussu? A me, al contrario, sembra attualissimo. Cosa c’è di più attuale, infatti, dell’impegno politico come dedizione incondizionata? Non è di questo che sentiamo oggi la mancanza, quando le parole della politica ci giungono così evanescenti e generiche, uguali le une alle altre mentre dovrebbero essere invece non solo diverse ma inconciliabili?

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
   
 
 
 

 

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