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Parigi 1937, Lussu ai funerali di Carlo Rosselli, 

assassinato, con il fratello Nello, in un agguato fascista


Simone Sechi – “Il socialismo libertario di Lussu. Il sogno d’una sinistra italiana oltre il comunismo e il laburismo”

La Nuova Sardegna , 02 marzo 2005

È il 17 novembre del 1927 quando Lussu è fatto scendere, attorniato da militi e ciclisti armati per nasconderlo agli sguardi dei cagliaritani, da Buoncammino fino al porto per essere tradotto al confino di Lipari. Le strade sono state sgomberate e chiuse al traffico. La paura che il fascismo ha di lui non ha consentito neppure un ultimo incontro con la madre ammalata.

Venti giorni prima, assolto per legittima difesa nel processo seguito all’uccisione d’uno degli assalitori della sua casa, è stato condannato a cinque anni di deportazione. In Marcia su Roma e dintorni racconterà che un giovane marinaio che arrivava al porto con la sua barca lo vide e s’alzò in piedi gridando “Viva Lussu! Viva la Sardegna!”. Quel porto, ancora più bello quando ci si allontana per mare col colore della città sempre più stemperato dal progressivo incupirsi della trasparenza dell’acqua, non lo saluta con l’addio. Non vi tornerà a corpo morto per la sepoltura. Non è un perdente e uno sconfitto, è un prigioniero. Non lo anima la fede in un destino radioso, non ha niente del martire per la causa comune (non l’avrà mai nella coscienza di sé). Fuggirà, si rivolteranno le genti di Sardegna e le cose, e tornerà. Si augura.

Il Lussu che lascia la sua terra è provato nel fisico dalla pleurite e dalla tisi, eppure cammina ritto e altezzoso. Nobile e fiero come il capo dell’opposizione a quella che, non solo nella pratica ma anche formalmente dal 1926, è una dittatura totale.
L’Emilio Lussu che lascia la Sardegna è stato molte cose. Ufficiale ed eroe della Grande guerra, bandiera epica del movimento degli ex-combattenti, fondatore del primo vero partito di massa della Sardegna moderna, membro di un gruppo di intellettuali e uomini “nuovi” che dall’esperienza della guerra e dal sacrificio dei sardi traggono le speranze di una Sardegna non più subalterna. È stato anche dentro le istituzioni, nel Consiglio provinciale e nella Camera dei deputati, disponendo di salde convinzioni sul rapporto fra democrazia e istituzioni e sull’antitesi d’eversione con rivoluzione.  

L’anno precedente aveva guidato l’ultimo congresso del Partito sardo d’azione nella convinzione, malgrado le defezioni della “fusione” orchestrata dal generale Gandolfo due stagioni prima, di essere un saldo baluardo all’asservimento totale dell’isola al fascismo. Quel fascismo di cui ha chiari, caduti i veli sansepolcristi, movimentisti e “rivoluzionari”, i caratteri reazionari, di centralismo e antimeridionalismo, chiaramente evidenti ora che la fase degli enunciati liberisti va concludendosi. Anche nel disincanto di quanti, coinvolti nel primo sardismo come l’economista sassarese Gavino Alivia, vi hanno creduto.

“Dopo l’elargizione del suffragio universale, e poi della proporzionale - aveva scritto Camillo Bellieni ancora a ridosso del congresso sardista di Macomer del 1925 - la classe dirigente si dolse di queste due mosse false e vedendo il potere sfuggire di mano corse ai ripari”. Attestazione convinta dell’impossibilità di coniugare liberalismo e dominio oligarchico che Lussu riaffermerà, molti anni dopo, come propria, con chiarezza elementare, dando come prevalente nel sardismo delle origini la linea sua e di Bellieni e aggiudicando a ciò il naturale sospetto prima, e l’avversione poi, del partito sardista nei confronti del fascismo.

Il giudizio sull’epoca giolittiana come garante di un potere centrale ed oligarchico, costretto ad alcune riforme dall’incalzante pressione del movimento operaio e popolare e capace, una volta visti falliti i tentativi di ammansire la reazione violenta e criminale, di opporgli solo il costituzionalismo e la secessione aventiniana, è condivisa nel Lussu che lascia il porto di Cagliari con l’intransigenza radicale, antitrasformista e antigiolittiana di Salvemini e poi con la “rivoluzione liberale” di Gobetti e quella “meridionale” di Guido Dorso, alle quali intreccia un socialismo libertario e antisovietico, maturato e teoricamente fondato negli anni fra Lipari e Parigi passati a fianco di Carlo Rosselli.

Lussu rimette piede in Sardegna il 30 giugno del 1944. Allo sbarco vede la Cagliari della marina, che gli era stata familiare sin nei primi anni da studente, scheletrita e aggrumata dai bombardamenti. Sabato 1º luglio parla dai microfoni di Radio Sardegna: “Prima di avvistare le rocce della costa, io antivedevo la Sardegna, e vi salutavo, come fa trepidamente il marinaio, nel rientrare dopo una navigazione tempestosa, agitando la mano ancora prima di scorgere l’approdo del suo porto e la soglia della sua casa”. 

È ritornato.

Il fascismo epigone è ridotto ad una marionetta nelle mani del delirio nazista, contro cui si batte una parte consistente del paese che vuole riscattare l’onore della patria. Il leader del dopoguerra sardo è ora uno dei capi della nuova Italia che sta nascendo. Il fascismo è caduto, aggrovigliato nel suo funesto militarismo. Non c’è stata l’insurrezione di popolo e la rivoluzione che s’era augurato e per tutti gli anni dell’esilio. 

Della Resistenza, nella quale apprezza il contributo fondamentale e il sacrificio dei comunisti, esalta l’unità più della parte, e il fondamento di un’Italia nuova, opposta sia a quella fascista sia a quella trasformista e giolittiana.

Quando nel 1951 Lussu, a quel punto dirigente del Partito socialista, pubblica sulla rivista Il Ponte la ricostruzione della nascita del sardismo, attribuendo al movimento degli ex-combattenti prima, e al partito sardista poi, di non essere mai stati antioperai e, anzi, di avere da subito colto il ruolo necessario delle classi lavoratrici per rovesciare le oligarchie dominanti, dando al sardismo iniziale il carattere di un movimento che si proponeva e aveva valore non solo per la Sardegna ma anche per il rinnovamento dell’Italia, le polemiche sono tante, e molte di parte comunista.

Lussu non accetta di fissare il movimento sardista e autonomista dentro quello che riteneva l’involucro limitato del “meridionalismo contadino”, utile in quei tempi ad una rilettura in chiave gramsciana - comodamente gramsciana - della storia d’Italia, operai del Nord e contadini del Sud, e, quindi, dentro il feretro d’un socialismo primitivo e ribellistico a cui solo la guida del partito della classe operaia poteva ridare respiro. O che respiro avrebbe trovato nell’alleanza subalterna e nel programma di un’autonomia come concessione e articolazione del centro. Considera il ruolo della classe operaia, usa lo strumento d’analisi marxista, ma si mantiene distante da ogni idea di dittatura del proletariato o di socialismo statalistico. Rivendica come proprio ideale il socialismo, ma un socialismo libertario e non deferente del centrismo socialdemocratico.

Alla compagnia e all’ispirazione di Bellieni, nei primi anni del sardismo, ha unito la comunanza ideale e il modo di “essere a sinistra” di Carlo Rosselli. Un socialismo libertario, molto distante dal leninismo e anche dal turatismo, e venato dall’anarchismo e dai suoi ideali d’autogoverno. “Noi non siamo dei democratici borghesi e tanto meno dei socialisti riformisti. - scrive Rosselli a Luigi fabbri nel 1932 - Può darsi, anzi è certo, che anche dei democratici (non borghesi!) siano tra noi e che molti riformisti siano rimasti tra i socialisti che collaborano con noi”.

La rivendicazione della matrice socialista del primo sardismo che Lussu fa al suo ritorno nell’isola segna la sua opposizione sia al separatismo sia ad una concezione ombelicale e mistificata della storia e dell’economia dell’isola, tutta unita contro il “fuori” come se dentro non servisse rivoltare niente. Lo fa da subito, con ancora dentro l’odore del mare: afferma la sua sardità, appartenenza culturale e spirituale, connubio insolubile, ma non uguale in tutto a tutti i sardi e perciò contro le cricche e gli approfittatori, le rendite del conservatorismo agrario e lo sfruttamento della manodopera. Semmai il suo sguardo è stato chiuso - ma non era chiuso nemmeno nel 1923-24 - ora sa che il progresso della Sardegna, la salvaguardia della sua specificità non è possibile nel chiudersi e nel separarsi, pena il ricomporsi del vecchio assetto di potere prefascista e fascista.

Nel congresso sardista del 1948, alla manifattura tabacchi di Cagliari, sentirà l’assemblea urlare “Fuori Lussu! Fuori Lussu”. Esce a sinistra, con la bandiera dei Quattro mori e il simbolo socialista, rivendicando la sua coerenza e l’impossibilità d’essere sardi senza essere mondo, o di essere sardi e basta. Dal congresso sardista esce un Lussu italiano? Forse. Certo un “sardo” che è stato non di poco conto nella storia della Sardegna e dell’Italia e in quella della sinistra.

C’è stata nella storia italiana una sinistra non comunista e non socialdemocratica, di cui molto s’è discusso in questi anni, dopo il crollo dei muri e delle egemonie centriste, costretta dalla tenaglia di questi due a respiri corti e voci solitarie, per colpe forse anche sue ma non solo, che ha sognato e si è battuta in tutto il Novecento per un’Italia differente da quella d’oggi di cui Emilio Lussu è stato parte nobile. Nobile per moralità personale e per intenti, lontano dai rattoppi e dagli aggiustamenti di una classe dirigente, sarda e italiana, sempre in ritardo coi tempi, sempre tanto ideologicamente definita quanto inadeguata nella prassi, o così attenta alla prassi da non avere progetti e ideali e governare solo la propria riproduzione.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
   
 
 
 

 

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