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Joyce Lussu [http://www.joycelussu.org]


Eugenia Tognotti – “La femminista e il rivoluzionario”

La Nuova Sardegna, 20 febbraio 2005

“Mi chiamo Joyce Lussu perché le donne non hanno un nome proprio. Le donne devono sempre portare il nome di un uomo, o è il padre o è il marito. Il padre me lo sono trovato, il marito me lo sono scelto: c’è un briciolo in più di autonomia”. Nel raccontarsi - per un libro-intervista - alla giovane scrittrice Silvia Ballestra, Joyce introduceva uno dei cavalli di battaglia del femminismo classico, ma più, forse, come argomento ideologico che come personale convinzione. Fatto sta che il cognome Lussu Joyce lo aveva portato orgogliosamente, con e senza Emilio, per un lunghissimo tratto della vita. Una vita straordinariamente avventurosa, la sua, che attraversa i principali eventi del Novecento: la guerra, il fascismo e il nazismo, la Resistenza, la rinascita democratica, l’impegno nei partiti e nei movimenti come l’Unione donne italiane (Udi) di cui fu una delle fondatrici.

Nata a Firenze l’8 marzo 1812, Gioconda-Joyce, era figlia di Guglielmo Salvadori, docente universitario marchigiano, ma di ascendenze inglesi. Antifascista, traduttore del filosofo Herbert Spencer, il padre fu costretto dai fascisti, nel 1924, ad emigrare in Svizzera, con la famiglia. All’estero Joyce ha modo di formarsi in un ambiente cosmopolita, aperto e brillante a cui fa da sponda una famiglia di antica civiltà ed educazione, aperta al dialogo e al connfronto. Dopo il liceo, continua i suoi studi in Germania, in Spagna, in Francia, dove studia lettere alla Sorbona. Vicina agli ambienti del fuoruscitismo politico, si iscrive al movimento “Giustizia e Libertà”, insieme al fratello Max [...]. Dopo l’avvento del nazismo, lascia la Germania e viaggia, tra il 1933 e il 1938, in diversi paesi dell’Africa, maturando, per i temi del colonialismo, un interesse che l’accompagnerà per sempre. Pubblica allora i suoi primi testi poetici, di cui Benedetto Croce cura l’edizione. Per la polizia fascista è già “una sovversiva pericolosa”, che attraversa le frontiere, portando documenti e messaggi in codice.

E’ così che conosce, a Ginevra, Emilio Lussu destinatario di una lettera che suo fratello Max, confinato a Ponza, le aveva affidato. Joyce n’è subita conquistata, anche sentimentalmente. Ma Lussu era titubante. “Non aveva intenzione - racconterà Joyce - di formarsi una famiglia, incompatibile, a suo parere, con la vita che conduceva di rivoluzionario militante. Ma io ero convinta d’essere la compagna adatta per un rivoluzionario militante, e non mancavo di cercare tutte le occasioni per ripeterglielo e dimostrarglielo”. Alla fine Lussu cede all’amoroso assedio di Joyce e i due vanno a vivere insieme a Parigi, in un piccolo albergo del quartiere latino. Poco dopo si sposano con una cerimonia politica, laica, che fa a meno di preti e documenti ufficiali. I testimoni erano Emanuele Modigliani e Silvio Trentin, davanti al quale Emilio pronuncia, con la dovuta solennità, la frase “Questa è mia moglie”.

Sempre insieme, da allora, affrontano la drammatica e spericolata vicenda della clandestinità, intessuta di riunioni segrete, rischiose missioni, arresti, fughe improvvise, imbarchi e passaggi di confini, falsificazioni di documenti. In questa particolare tecnica, anzi, Joyce era una maestra: a Marsiglia, sotto la direzione di un pittore-decoratore italiano Ferrarin, aveva frequentato un vero e proprio corso che darà i suoi frutti in diverse occasioni. Inseguiti dalle polizie fasciste, i due si spostano di continuo in Francia, occupata dai nazisti, in Spagna, in Portogallo, in Svizzera, in Inghilterra. Brevissime le pause in cui riescono a creare qualcosa che assomiglia all’ordinario vissuto di una coppia. 

Entrambi, l’una in Fronti e frontiere, l’altro in Diplomazia clandestina, ricordano il soggiorno - nella primavera-estate del 1940 - in un piccolo paese ai piedi dei Pirenei, dove presero in affitto una camera con uso di cucina da una vecchia contadina del luogo. L’accordo era che gli inquilini curassero l’orto dietro l’abitazione, cosa che Emilio faceva con grande scrupolo, alzandosi all’alba per zappare, dare acqua alle piante, eliminare le erbacce, piantare ravanelli e lattughe, preparare i sostegni per piselli e pomodori. Se avanzava tempo, aiutava gli altri contadini nei lavori di campagna e talora accompagnava l’anziana padrona di casa, Madame Maria, a portare a spasso il maiale: “Mi sentivo Ulisse ed Eumeo insieme”, avrebbe raccontato più tardi Lussu, ricordando quei giorni.

Soltanto dopo la Liberazione, i due, col loro unico figlio Giovanni, avranno una vera casa, a Roma. Tornata in Italia - dove fu decorata con medaglia d’argento al valore militare - Joyce può conoscere finalmente quella d’Emilio, ad Armungia, e la piccola patria di cui aveva tanto sentito parlare. Quando vi giunge, nel 1944, si trova di fronte ad un mondo dissimile da qualsiasi cosa avesse conosciuto fino allora, nonostante i numerosi viaggi. Il rapporto che Lussu ha con la sua gente è una rivelazione. Intorno a lui “uomini, donne, pastori, poveri ed era proprio uno di loro, non si distingueva più. Ogni tre metri, per strada, parlava con qualcuno, dell’umano, del quotidiano, era una comunicazione paritaria, chiedeva della pecora malata, del gregge, con qualsiasi persona trovava qualcosa di cui parlare in modo non gerarchico, che non fosse quello dell’intellettuale che parla con chi sa meno”. 

Questa capacità d’identificazione - “un’etica della specie” - rappresentò per lei una lezione che non dimenticherà: la Sardegna come porta del mondo, nel quale si avventurerà più tardi, con i suoi viaggi con organizzazioni internazionali della pace, con movimenti di liberazione anticolonialistici da cui prenderà corpo l’interesse per la poesia dei popoli “altri” - albanesi, curdi, vietnamiti, afroamericani - che farà conoscere in Occidente grazie alle sue traduzioni.

Ma il viaggio in Sardegna rivela a Joyce un altro mondo sconosciuto: l’universo femminile. I caratteri e la specificità della condizione femminile, le s’impongono soprattutto nelle zone pastorali come la Barbagia, alcune aree del Sulcis, del Gerrei, del Logudoro e della Planargia. Una condizione di minore subalternità delle donne che distingueva la Sardegna dal resto del Mezzogiorno e dell’Europa Mediterranea. 

Aiutata anche dalle lucide analisi storico-politiche di Emilio Lussu - racconta Joyce - riuscì ad evitare di cadere vittima, anche in questo campo, delle trappole del “romanticismo esotico”. Trappole in cui sono caduti e continuano a cadere, tutti o quasi coloro che scrivono della Sardegna e delle donne sarde, continuando a perpetuare il mito del matriarcato, che Joyce respingeva con la passione e la veemenza che le erano proprie. L’essenza del potere patriarcale, argomentava, era basata sulla proprietà della terra, sulla forza delle armi e su un compatto nucleo di ideologie “verticistiche e monoteiste”. Poiché le donne sarde non avevano mai dato vita ad un siffatto tipo di costruzione sociale, non si poteva parlare di matriarcato. Le comunità barbaricine, insomma, erano maschiliste come tutte le società storiche conosciute, in cui terra e armi appartenevano agli uomini: la maggiore libertà spaziale femminile, i ruoli di autorità e di prestigio delle donne barbaricine, erano dovuti ad uno stato di necessità, come quello che aveva prodotto analoghe condizioni nelle comunità marinare e nelle società mercantili-manifatturiere.

Il legame di Joyce con la Sardegna non si è mai spezzato. Alimentato da una rete di rapporti e di interessi culturali e scientifici con singoli studiosi e con associazioni, è continuato per anni, con frequenti comparse nell’isola in occasioni di anniversari, incontri di studio e convegni su Emilio Lussu. Bisogna dire che non sempre le ricostruzioni della lotta clandestina e dell’evoluzione del suo pensiero politico hanno intrecciato le due vite, così strettamente legate l’una all’altra.

E, alla fine, a raccontarcele meglio è una poesia di Joyce: “Emilio ti ricordi/ quando ci siamo incontrati/ la prima volta/ in una casa svizzera linda e lustra/ di cera e di tendine/ e già la sera stavamo abbracciati/ in un letto a una sola piazza/ e poi tanti decenni di cose fatte insieme/ e le assenze/ i viaggi lunghi e brevi/ tu partivi io partivo/ ci mandavamo cartoline fino all’incontro successivo/ E a un certo punto sei partito/ per un viaggio più lungo/ un posto dove non ci sono uffici postali per mandar cartoline/ o negozi per comprare regali/ ma i pensieri arrivano lo stesso/ Che ne direbbe di questo? sarebbe contento?/ gli sembrerebbe fatto male?/ Forse se usassi bene gli occhi/ sotto le palpebre chiuse ti vedrei arrivare/ da dietro gli archi e i sempreverdi con un sorriso/ affettuoso e divertito/ per lo scherzo che hai fatto/ di non mandare notizie/ Non c’è niente di buio e di definitivo/ in questo tuo essere assente/ e il mio non è un aspettare/ ma nemmeno una perdita o una voragine/ in cui non sei più/ Perché sei/ sei dentro tante cose/ parole immagini idee sentimenti/ aspirazioni stimoli movimenti/ presenti” (da L’uomo dell’altipiano: riflessioni, testimonianze, memorie su Emilio Lussu, a cura di Eugenio Orrù e Nereide Rudas, Ed. Tema, 2003).

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
   
 
 
 

 

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