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Lussu con l'archeologo Giovanni Lilliu (a sinistra). Federico Francioni — Nazione, Autonomia e Federalismo in Emilio Lussu I parte -- [II parte] -- [Note .pdf] Nella
storia della Sardegna contemporanea il primo dopoguerra segna in modo
decisivo l'emergenza di un potente sentimento dell'individualità. C'è
da chiedersi tuttavia se si siano instaurati legami di continuità fra
di esso ed un passato in cui il termine «nazione sarda», sia pure con
molteplici e differenti accezioni, non aveva mancato di palesarsi. Per
stabilire se con il sardismo abbia preso corpo una sorta di nazionalismo
isolano, quali siano stati i contenuti inerenti a questo fenomeno, quali
significati si siano attribuiti a queste idealità, il confronto con il
concetto di «nazione fallita», elaborato da Emilio Lussu, è
ineludibile. (*) 1.
Com'è
noto durante il conflitto il Comando supremo aveva fatto «confluire
nella Brigata «Sassari» militari di «stirpe sarda» (I). Il sostrato
ideologico di questo termine richiama immediatamente alla memoria tutte
quelle sedimentazioni della filosofia positivistica che negli ultimi
anni dell'800 aveva guidato le indagini antropologiche sulla «zona
delinquente» di Alfredo Niceforo che ad essa applicava i più generali
schemi interpretativi di Cesare Lombroso («atavismo») e di Giuseppe
Sergi (la «stirpe mediterranea»). Tale universo teorico reca
all'interno del proprio impianto categoriale anche concetti come «razza»
e «sangue» (2). Esso acquista una salda egemonia su vasti settori
della vita politica e culturale italiana e compare in contesti che
magari al positivismo si proclamano contrapposti (3). In
Sardegna poi ceti dominanti ed intellettuali si inchinarono senza
esitazione di fronte alle opere di Sergi, di Niceforo e di Paolo Orano
che vennero tenuti in conto di amici illustri dell'isola (4). Ecco perché
i loro studi e il loro stesso lessico eserciteranno un notevole
condizionamento anche sull'ambiente del dopoguerra. Va rimarcato poi che
il sapere di costoro - sia pure con una certa resistenza -- venne col
tempo inserito nel patrimonio di cognizioni antropologiche e mediche
dello Stato che cosi «si aggiornò» al fine di controllare in forme più
rigide, capillari e «molecolari» una situazione cui le istituzioni
guardavano con preoccupazione per la sua singolare connotazione
socio-economica ed etnica (5). Di qui il ricorrere di «stirpe» nel
linguaggio dei vertici militari, la loro spiegazione in chiave razziale
e razzista del valore dei sardi -- visto come popolo ancora «fanciullo»
ai margini della «civiltà» e del «progresso» -- che si riversa
nella prosa dei corrispondenti dal fronte dei principali quotidiani (6). In
ogni caso la grande guerra rappresentò per i proletari sardi e per i
loro ufficiali una traumatica, lacerante ma anche insostituibile
esperienza che fece della Brigata un corpo ben distinto da tutti gli
altri (7). 2.
«La
guerra -- scrive Lussu nel 1938 -- è stata per noi tutti, politicamente
arretrati come ogni regione del Mezzogiorno e della Sicilia, una grande
lezione umana e nazionale. Nazionale in senso sardo, ché la
Sardegna, per oltre un millennio staccata dalla vita italiana, altro non
è che una nazione fallita storicamente» (8). Egli si
esprime così a vent'anni dalla fine del conflitto, cioè sulla base di
più ricchi strumenti culturali e teorico-politici, mutuati dal
dibattito europeo degli anni trenta, ma soprattutto seguendo un'ottica
fortemente retrospettiva. In
un altro scritto Lussu, dopo aver parlato di una coscienza unitaria
isolana che però non considera una «forma di nazionalismo», paragona
il gruppo dirigente degli ex-combattenti, per l'approssimazione
ideologica che lo caratterizzava, a quelli dei «movimenti popolari
nazionalisti nei paesi coloniali». Questa affermazione può essere
collegata ad altre lotte di liberazione: intorno al 1918-1920, per
esempio, c'erano stati in Egitto episodi di ribellione contro il dominio
inglese; ma è meglio evitare troppo facili ed immediate
identificazioni. Più avanti Lussu aggiunge che la forza e la capacità
di mobilitazione degli ex-combattenti investirono in Sardegna tutte le
classi e incisero perfino sul comportamento di magistratura e
carabinieri: ciò potrebbe legittimare l'interpretazione secondo la
quale Lussu vedeva in questo verticale sommovimento di tutta la
composizione sociale una tensione, in qualche misura, «nazionale». Ma
anche questo scritto non è databile con sicurezza e comunque occorre
procedere cautamente (9). Ci
si può domandare in che cosa sia veramente consistita allora l'idea di
nazione sarda. In effetti se ci furono convinti assertori dell'italianità
della Sardegna, questi furono proprio alcuni fra i principali capi del
combattentismo e del Partito sardo d'azione: da parte loro ciò non fu
solo un espediente polemico per rintuzzare denuncie -- che piovevano da
più parti – di separatismo e di mancanza di amor patrio verso la
penisola ma anche e soprattutto la conseguenza di un avvicinamento o di
un'adesione, più o meno cosciente, ai principi del nazionalismo
italiano. Essa non è in contrasto, anzi, si concilia e si completa con
la concezione secondo la quale il sangue versato dai fanti sardi nelle
trincee era come un peso da gettare nella bilancia per chiedere in
cambio allo Stato una politica finalmente «riparatrice» nei confronti
di una terra così a lungo «negletta». «La
madre, la Gran Madre, non è soltanto di là al mare, -- dalle Alpi
all'Etna come declama l'obliosa retorica: -- scrive Umberto Cao fin
dal 1918 -- la Gran Madre è di qua dal mare, come di là: qui una sua
sede essenziale e il suo cuore palpita nel Gennargentu come in centro
vitale, non come in umile arto lontano: Italia
è qui dove è intatta, sanità e vigore di sangue, profondo sentimento
di razza, incontaminata verginità della stirpe. Italia
è qui, immune da ogni commistione di interessi e di stirpi ostili: dove
nessun linguaggio suona che non sia latino: dove l'internazionalismo --
della banca, dell'industria, delle sette -- non inquina i centri nervosi
della vita nazionale... Qui
veramente è sola e pura e tutta Italia!» (1O). Questi
valori, questa terminologia non sono casuali. Cao ripropone qui il
retaggio positivistico attraverso i due concetti centrali di «razza» e
«stirpe» sia pure «riscoperti» con un significato non spregiativo: e
su tutto ciò tornerà in altri luoghi con assonanze quasi identiche
(11). Per Cao, autonomista e deputato sardista che poi passerà al
fascismo, parlare di nazione vuol dire avere come unica prospettiva
l’Italia e niente altro. La cultura di Cao, attraversata da un
nazionalismo di tipo conservatore, può spiegare (almeno in parte) le
sue teorizzazioni, i suoi equivoci, il suo stesso repentino voltafaccia.
C'è poi addirittura chi tenta d'impadronirsi dell'armamentario
razzista cercando di ribaltarlo nel suo complesso, come fa Egidio Pilia.
Questi non ha alcun dubbio nel definire la Sardegna una «nazione»,
essa è tale, in primo luogo, per la sua struttura geologica, in quanto
relitto della «misteriosa Atlantide» di cui si troverebbero residui
anche nell' Altopiano marocchino settentrionale: fa così la sua
ricomparsa l'analisi sergiana sull'origine della stirpe mediterranea da
cui deriverebbe il particolare tipo psico-somatico del sardo. Altro
elemento della «nazione sarda» è la lingua che conserva ancora
pressoché intatto il prezioso tesoro dell'antichità romana e greca. Componenti inconfondibili sono pure il canto, il ballo e lo spirito
d'indipendenza con cui i sardi hanno sempre reagito alle invasioni. In
base a ciò egli considera l'autonomia come un momento tattico, cioè
come una leva per muovere verso una modificazione dei rapporti con lo
Stato italiano e per arrivare alla costituzione di uno Stato sardo
indipendente (12). Pilia è l'unico esponente del combattentismo prima e
del sardismo poi che avanzi l'idea di nazione e, in correlazione,
l'indipendentismo. Esso invece fu sempre decisamente respinto da Camillo
Bellieni da Pietro Mastino, dallo stesso Lussu e, con motivazioni diverse, da Orano; l'autore del
libello razzista Psicologia della Sardegna, dal canto suo, non
mancò di sprofondarsI in mille omaggi al Piemonte sabaudo e in inchini
servili al re e alla monarchia (13). Il
fatto che Pilia attinga alla più deteriore tradizione antropologica
inficia radicalmente tutto il suo discorso. Le posizioni di Pilia, capo
elettore di Orano, rinviano a quelle del gruppo autonomista cagliaritano
che andò raccogliendosi fin dal 1918 intorno al giornale «presardista»
«Il Popolo sardo» e che si contraddistinse subito per le sue simpatie
filo-dannunziane ed anche filo-mussoliniane (14). Nei
confronti di queste ultime fu invece risolutamente alieno e poi sempre
più avverso Bellieni, unitamente a Luigi B. Puggioni e al gruppo degli
ex-combattenti e dei sardisti di Sassari. Con un approccio ben
altrimenti problematico e profondo Bellieni si pone esplicitamente il
problema dell'esistenza o meno di una questione nazionale in Sardegna in
un articolo del 1920: «Uscendo quindi dal campo della fantasia, e
rientrando nell'obbiettiva considerazione delle cose, dobbiamo
riconoscere che la nostra posizione è questa: esiste la materia nel
nostro paese per costruire una nazione, ma questa materia per il passato
non divenne mai coscienza, ed ora che lo è, è pensata da noi con
intelletto d'italiani. In questa constatazione di fatti è
ritrovata, secondo me, la via da seguire» (15). Credo
si possa affermare che la «nazione pensata in italiano» di Bellieni
sia un'acuta e penetrante intuizione che riesce a rendere conto in
qualche modo del grado di consapevolezza etnica raggiunta dalle masse
sarde, in specie da quelle contadine, soprattutto per il tramite
essenziale dei suoi intellettuali «organici»: questa coscienza fu poi
politicamente tradotta in un'insorgenza regionalistica e autonomistica
interna alla compagine statale unitaria. Per
il resto anche Bellieni, in queste stesse pagine, paga il suo tributo
all'ingombrante concetto di «razza». Infine, egli confonde Stato e
nazione o comunque tende a far coincidere i due termini in quanto
definisce «nazioni abortive» tutte quelle comunità e minoranze che
non sono riuscite a conquistare una statualità indipendente e sovrana:
anche la Catalogna rientrerebbe in questo novero. Di conseguenza per
Bellieni assumere la volontà politica di sviluppare compiutamente un
processo di formazione della nazione sarda equivarrebbe automaticamente
a rivendicare, ancora una volta e vanamente, l'obiettivo di uno Stato
sardo che va invece fermamente abbandonato. L'idea di nazione sarda va
dunque lasciata cadere in quanto non può non portare a esiti politici
pericolosi e controproducenti. Bellieni, insomma, ha il grosso merito di
mettere a fuoco il tema che poi però si limita a «fotografare»: non
lo considera cioè e non lo articola dinamicamente, diacronicamente,
nelle sue linee di sviluppo storico. Rimane
da capire perché Pilia sia rimasto sostanzialmente un isolato con le
sue rivendicazioni spinte alle estreme conseguenze e nel tentativo —
fallito -- di conferire ad esse una dignità teorica. L'unica risposta
è da ricercare non solo nello scarso spessore culturale del primo Psd'a
ma proprio nella natura di classe di questo partito che non era (e non
è mai stato) nazionale o nazionalista bensì, più semplicemente, regionalista,
diretto da intellettuali urbani ma con una prevalente base di massa
nei ceti rurali che da soli non esaurivano la piramide sociale isolana.
Era assente cioè un fondamento «strutturale» tale da fornire ai
dirigenti sardisti una visione globale, totale della società isolana (e
dei suoi rapporti con quella italiana) da configurare anche ed
eventualmente come nazione (il che non va meccanicisticamente inteso
come Stato indipendente). Essi si limitarono perciò a dare voce in modo
incerto e oscillante al sovversivismo, all'estraneità verso lo Stato e
alla carica anticolonialistica delle masse contadine. Che poi
Pilia abbìa adottato l'impostazione e la metodologia che conosciamo non
deve per niente meravigliare poiché il movimento degli excombattenti
e il Psd'a accolsero fra le loro fila un personaggio screditato come
Orano. Lo stesso Lussu, nel 1919, adoperò il suo già grande prestigio
affinché l'ex-compagno di viaggio di Niceforo ed ex-socialista venisse
eletto deputato (16). Con tale scelta si decretava l'impossibilità
intrinseca per il Psd'a di fare piazza pulita di un ciarpame ideologico
che poi non era solo di appartenenza oraniana. Poiché
il movimento degli ex-combattenti era un «crocevia» ove si
intersecarono salveminismo, crocianesimo e idealismo, itinerari politici
che approdarono sia all'antifascismo che al fascismo, esso poté anche
albergare il rozzo positivismo di Orano vanamente camuffato da nobile
idealismo (17). Che
in seguito il Psd'a fosse diventato un punto d'incontro, un crocicchio
di tendenze disparate e contraddittorie, spiega perché Mussolini abbia
pensato alla «fusione», ovvero all'integrazione del sardismo nel
fascismo. Siamo ben lungi dal credere di poter con ciò esaurire
l'argomento: ma vanno almeno ricordate al riguardo le dichiarazioni di
Lussu -- una volta che egli interruppe le trattative con il generale
Gandolfo -- secondo le quali questi rapporti una cosa avevano
inequivocabilmente mostrato e cioè che il Psd'a non era mai stato
partito «antinazionale», antitaliano (come invece avevano voluto
bollarIo i suoi nemici); altrimenti il fascismo non avrebbe mai cercato
di realizzare questo disegno (18). Possiamo
tuttavia avvertire uno «stacco» della figura di Lussu rispetto alle
altre già da allora. In
verità, del suo esordio politico sappiamo ancora molto poco. Da giovane
universitario egli si entusiasmò per l'interventismo (cioè, in un
certo senso, per il nazionalismo) sia pure per quello di stampo
democratico: e così entrò nella guerra. Ma presto questi ideali, che
dovevano essere confusamente di sinistra, si scontrarono con la
terribile esperienza bellica. Nei
primi anni venti il materiale teorico su cui Lussu lavora, in articoli,
interventi e discorsi, non è corposo come invece diverrà in seguito.
Egli non raggiunge la statura intellettuale di Bellieni. Con il gruppo
dirigente sardista condivide il feroce antiparIamentarismo, l'antigiolittismo
strenuo, le simpatie per il sindacalismo rivoluzionario, Ma già si può
notare che egli non indulge come gli altri all'uso della terminologia
antropologica razzista. Guarda con un interesse che del resto è
reciproco ai legionari fiumani e alla loro impresa, come dimostra la
lettera a lui spedita da Alceste De Ambris, capo di gabinetto di
D'Annunzio. Ma, con ciò, non si può certo dire che egli sia stato
influenzato propriamente dal nazionalismo italiano -- come accadde
invece a Orano e Cao -- nella versione demagogica dannunziana e
corradiniana; tantomeno da quella elitistica e aristocratica di
Prezzolini e Papini. Anzi, respinge i concetti tradizionali di nazione e
patria e scrive con piglio quasi marxiano nel 1921: «L'immensa schiera
dei nostri contadini non aveva Patria» (19). 3.
Alcuni
tratti del bagaglio culturale e politico della dirigenza sardista -- ed
anche di Lussu -- si possono rintracciare nell'atteggiamento assunto di
fronte al caso irlandese. È utile ritornare alla discussione che si
svolse alla Camera dei Deputati l'8 dicembre 1921 sull'indipendenza
dell'Irlanda. Nello
scacchiere politico europeo la questione nazionale tornava di nuovo
prepotentemente alla ribalta, come costante addirittura primaria nella
determinazione dei difficili e delicati equilibri interstatali. Poco
prima che sorgesse lo Stato irlandese, la sconfitta degli Imperi
centrali e la dissoluzione di quello asburgico avevano consentito la
ricomposizione delle membra della martoriata Polonia. Un nuovo Stato a
sua volta si era costituito in seguito all'accordo fra i movimenti
nazionali ceco e slovacco. In Italia questi avvenimenti trovavano
un’eco e si ripercuotevano più che altro sul fertile terreno creato
dal mito della «vittoria mutilata» e dall'irredentismo dalmatico, non
essendovi ancora «autocoscienza» delle minoranze nazionali ed
etnico-linguistiche. Alla
Camera l'intervento più lucido e coerente, secondo un'ottica cIassista,
fu quello di Graziadei. Egli si richiamò al nazionalismo rivoluzionario
irlandese, postulando un processo di rivoluzione ininterrotta dallo
Stato libero alla Repubblica dei consigli degli operai e dei contadini.
Le sue parole cioè facevano riferimento alle correnti di sinistra del
nazionalismo che avevano cercato di coniugare rivoluzione sociale e
rivoluzione nazionale (sarà sufficiente pensare a James Connolly).
Mentre Graziadei tenta di vincolare gli altri schieramenti al
riconoscimento di «Irlande», cioè di questioni nazionali interne allo
Stato italiano, l'intervento di Lussu, brevissimo, assume rilievo più
per il suo contenuto antimonarchico che per l'individuazione di
insegnamenti e di indicazioni provenienti da quegli eventi (20). Né
Lussu né il Psd'a ritennero mai che la questione sarda avesse una
valenza di tipo nazionale in qualche modo omologabile alla dimensione
irlandese. A chi nutriva timori in questa direzione Lussu rispondeva
prontamente il giorno dopo: «[...] io non ho mai affermato -- si legge
nel resoconto della seduta -- che vi potesse essere qualche affinità
fra l'Irlanda e la Sardegna (Bravo! Bene!). O meglio, perché
intendo di essere preciso, vi potranno essere ipotetiche affinità
storiche, etnografiche, geografiche, ma non vi sono assolutamente
affinità di aspirazioni [...]. I sardi non intendono rinunziare alla
loro italianità spirituale; dico spirituale perché ci sentiamo
italiani solo per il pensiero italiano di cui è fatta la nostra
cultura; ci sentiamo italiani più per l'immenso contributo di sangue
che abbiamo offerto, in ogni appello, alla pericolante patria, che per
la comunanza di vita, di interessi, di costumi e di storia. Non
dimenticate che nell' 800 in Sardegna si parlava ancora spagnuolo»
(21). Nella
concezione per cui la cultura italiana e la coscienza del tributo di
sangue versato in guerra si sono sovrapposti ad una diversità di
storia, lingua, costumi e tradizioni, è evidente l'influsso della «nazione
pensata in italiano» di Bellieni. A parte questo, il problema non fu
mai approfondito. Rimase
solo una cortina fumogena (22). Da una parte gli avversari
strumentalizzarono il mito dell'Irlanda per intensificare i loro
attacchi verso il Psd'a, tacciato di separatismo senza alcuna
distinzione fra dirigenti e diretti e fra gli stessi principali leaders:
e dall'altra questi, a ben vedere, fecero dell'Irlanda niente altro che
uno spauracchio buono da agitare in alcune circostanze. Essi cioè si
limitarono a ripetere che era un esempio, quello irlandese, che
avrebbero seguito solo se costretti, che sarebbero arrivati alla scelta
separatista solo se i governi, in particolare quello fascista, non
fossero intervenuti decisamente sui bisogni dell'isola (23). In
rapporto alla querelle sull'Irlanda va ricordata l'idea di «Federazione
mediterranea». Essa, a mio avviso, non può essere liquidata come
slogan folkloristico, occasionale, capriccioso e romanticheggiante,
secondo il giudizio che, in fondo, ne diede Gramsci. Infatti nei Quaderni
del carcere egli annotava che «qualcuno aveva preso sul serio il
programma, nato nel cervello di alcuni intellettuali (C. BelI. e qualche
altro: ricordo che Emilio Lussu cercava di far dimenticare l'episodio
ridendone), di creare uno Stato federale mediterraneo che avrebbe dovuto
comprendere la Catalogna, le Baleari, la Corsica e la Sardegna, la
Sicilia e Candia» (24). Lussu e Gramsci, quindi, ognuno partendo da un
differente background politico e culturale, erano arrivati ad
ironizzare su questo obiettivo. Ma poiché Bellieni non era uomo
facilmente proclive a parole d'ordine raffazzonate, bisogna verificare
che cosa realmente egli intendesse a questo proposito. Nella relazione
da lui tenuta al secondo congresso del Psd'a di Oristano (1922) e da
questo approvata, si può leggere: «[...]
il nostro autonomismo è preparazione all'internazionalismo,
inteso però non come semplicistico abbattimento di frontiere in nome di
un astratto ideale umanitario, ma come accordo di interessi per la
creazione di una forma statale che superi le attuali divisioni
nazionali. Lungo è il cammino da percorrere, ma sin d'ora noi guardiamo
con simpatia ai movimenti autonomisti della Catalogna, della Corsica,
della Provenza. Il nostro mediterraneo occidentale è tutto pervaso da
questi fremiti di vita nuova» (25). Qui
Bellieni -- contro il feticcio del centralismo statale -- cerca di
schiudere la politica sardista a nuovi orizzonti e a simboli da additare
alle masse. Sul tronco della loro cultura egli innesta l'auspicio di una
«aurorale» civiltà mediterranea. Essa avrebbe dovuto unire con
vincoli di solidarietà le comunità sottomesse, «povere», «proletarie»,
in opposizione alle naioni «ricche» e industrializzate. Comunque
lo si valuti, a questo obiettivo -- che Bellieni in ogni caso vedeva a
lunghissima scadenza -- si fece appello più frequentemente di quanto
possiamo pensare (26); ma sempre in modo molto generico: su di esso cioè
non si fece mai chiarezza. A maggior ragione «La Nuova Sardegna» ne
approfittava per lanciare lazzi, dileggi e frasi di scherno verso questa
rivendicazione (27). È significativo poi il fatto che essa sia rimasta
una mera proclamazione e non sia mai diventata una premessa atta ad
instaurare più intensi colloqui e scambi di tipo politico-culturale con
organismi e raggruppamenti operanti fra le minoranze nazionali. Il
Psd'a inoltre, nonostante l'appoggio accordato alle lotte linguistiche
dei catalani non promosse mai iniziative a favore della lingua sarda: ciò
ancora una volta si spiega con la cultura, ipotecata dal patriottismo
combattentistico, propria del suo gruppo dirigente. La sensibilità per
la questione della lingua sarda sarebbe stata l'indizio di una più
vasta e profonda coscienza nazionale autoctona: essa fu assai lacunosa e
carente nel Psd'a, consistente invece in quelle forze politiche catalane
cui ci si rivolgeva. Pertanto
alla comparsa di un sentimento nazionale isolano negli anni venti (di
questo a mio avviso è il caso di parlare, più che di un vero e proprio
movimento nazionalista sardo) non corrispose l'irruzione dell'idea di
nazione sarda la quale rimase piuttosto una latenza perché non fu
sottoposta né allora né in seguito ad una sistematizzazione teorica.
Essa fu, come s'è già detto, «pensata in italiano». Va debitamente
aggiunto però che la politica stessa fu pensata e parlata con la
lingua dello Stato, perché gli scherni organizzativi, le strutture, i
modi del dibattere e i suoi messaggi si concretizzarono e passarono
attraverso i canali della comunicazione linguistica cittadina. Ma
esistevano allora condizioni tali da permettere alla cultura sarda --
ancora prevalentemente legata ad una civiltà agro-pastorale -- di
urbanizzarsi e di fondare un concetto moderno di nazione? La mediazione
istituita dall'intellighentsia sardista era l'unica possibile e
capace di dare corpo e rappresentatività all' «alterità» delle
campagne? Sono questi i quesiti cui occorrerebbe rispondere. Lussu, dal canto suo, non pensò mai che da realtà come quella irlandese, corsa, basca e catalana potessero venire importanti lezioni. Alla penisola iberica, m questo senso, egli dedica nei suoi scritti solo brevi accenni. Nella visione politica, di respiro europeo, che lo stesso Lussu andò maturando negli anni dell'esilio e con l'esperienza della «diplomazia clandestina», le minoranze nazionali ed etnico-linguistiche trovarono sempre uno spazio assai scarso (28). [Note .pdf] |
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