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Dal film "Banditi a Orgosolo" (1961) di Vittorio De Seta.


Andrea Cabassi* - Globalizzazione, indipendenza, violenza vista da un non sardo dell’interno.

Dentro e fuori.

Non sono sardo. Sono nato, abito, lavoro a Parma. Ma ho una casa, da anni, ad Onifai, Baronia.

Ad Onifai vado spesso quando sono in ferie. E’ un luogo strategico perché è a pochissimi chilometri dal Golfo di Orosei. Tuttavia non mi sento un turista, non voglio esserlo. Non amo il folklore ad uso e consumo dei turisti, quel folklore che, così concepito, lo stesso Gramsci paventava. Durante la mia permanenza in Sardegna tento di vivere il tempo e gli spazi autentici dell’isola. Leggo, studio, osservo, soprattutto parlo con la gente e con i vecchi amici sardi che mi fanno sentire integrato nella comunità.

Vivo il mio status come quello di uno che sta sul confine tra il dentro e il fuori. E’una strana sensazione, una strana oscillazione. Sono uno di fuori che si considera dentro e che non ha nessuna nostalgia per il continente. Mi percepisco, allora, come uno di dentro a tutti gli effetti. Tuttavia la realtà è che rimango uno di fuori. C’è qualche vantaggio in questa mia pendolarità? Il vantaggio è che da questa posizione ho una vista periferica, posso posare lo sguardo su cose o fatti che, altrimenti, mi sarebbero nascosti. Lo svantaggio è che, nel mio status di uno di fuori, mi sfuggono le differenze tra i microcosmi, non ho né l’occhio, né l’orecchio per catturare le sfumature del linguaggio e della lingua o dare significato a comportamenti che sottovaluto ed invece sono importanti.

Tuttavia, partendo da questa condizione, tenendo conto di limiti e vantaggi, vorrei fare una riflessione sull’identità sarda, la violenza, la globalizzazione.

Ero ad Onifai nei giorni tristi degli ultimi omicidi commessi ad Irgoli. Ero ad Onifai nei giorni degli incendi ad Orosei. Mi sono interrogato a lungo su questi fatti e questo mio interrogarmi mi ha portato a fare considerazioni su quest’isola di cui mi ritengo essere un innesto per usare le belle parole di Joyce Lussu. Buono o cattivo non so. Agli altri giudicare.

Credo che la domanda da porsi, il luogo da cui partire sia la lo scritto di Giovanni Lilliu “La costante resistenziale sarda”. Come si declina oggi la costante resistenziale sarda? Cosa significa? Esiste ancora? E se esiste dove? Quale valore attribuire ad essa? Prima di tentare di rispondere a tali quesiti vorrei fare una digressione a 360 gradi utilizzando numerosi scrittori e intellettuali sardi. E citandoli senza risparmio. Della qual cosa mi scuso anticipatamente. Infine tornerò al punto cruciale, allo snodo essenziale.

Tempo dell’isola, spazio dell’isola.

Cos’è un’isola? Un’isola è un territorio unitario dislocato in mezzo al mare. Rubando i concetti alla teoria dei sistemi ( che io, quotidianamente, uso nella mia prassi di psicoterapeuta della famiglia) un’isola potrebbe essere definita un sistema autopoietico, un tipo di sistema che è stato scoperto e studiato dai biologi cileni Francisco Varela e Humberto Maturana.

Un sistema autopoietico è un sistema i cui processi sono autosufficienti, è un sistema che si autogenera, che non ha input e output. E’ un sistema che ha un tempo suo, uno spazio suo.

Un’isola potrebbe essere esempio caratteristico di sistema autopoietico. In effetti, sovente, un’isola ha un tempo suo, scandito da ritmi suoi. Pensiamo alla Sardegna: il suo può essere un tempo lento diverso dal tempo della post/modernità. Inoltre ha spazi specifici suoi: zone dell’interno poco popolate che danno il senso della profondità, spazi circondati dal mare che danno il senso della compattezza, del raccoglimento, dell’isolamento. Sono quegli spazi/tempi che sono stati stupendamente descritti, nei suoi saggi e nei suoi romanzi, dal più europeo(insieme a Salvatore Mannuzzu) degli scrittori sardi: Giuseppe Dessì. Egli descrive sia in “Paese d’ombre”, sia nei saggi raccolti in “Un pezzo di luna” questi tempi rallentati, questi spazi poco popolati , colmi di silenzio e di parole appena sussurrate. E sono questi silenzi che danno un’idea dello spazio e del tempo. Ad ogni mia permanenza ad Onifai, ad ogni mio viaggio in auto che mi portava da Galtellì a Dorgali ho potuto constatare una vera e propria fenomenologia del silenzio. Sono stato colpito dal silenzio della controra in cui odi soltanto il rumore delle stoviglie o qualche grido di bambini; sono stato sorpreso dal silenzio del lutto quando odi solo le campane che suonano a morto; e ad Onifai suonano a morto anche per annunciare la scomparsa di qualcuno che non viveva più in quella comunità, ma che in quella comunità era nato, che di quella comunità aveva fatto parte, quasi a ribadire che la comunità (anche se disgregata dall’emigrazione, dagli assalti di una modernità selvaggia) deve essere unita in tutte le sue componenti. Questo è un silenzio assoluto, assorto, raccolto che non deve essere infranto e che induce alla meditazione sulla nostra precaria condizione umana. Ho provato un senso di spaesamento e compreso il senso della profondità in tutte le occasioni che percorrevo la strada che da Galtellì porta a Dorgali: verde, poche auto, silenzio ed ancora silenzio rotto solo dal vociare degli animali ed eco lontane, molto lontane di rumori che erano brusii indefiniti.

E, nella fenomenologia del silenzio, non può mancare il silenzio dell’omertà, ora non più così assoluto come in passato perché anche da esso sfuggono bisbigli che è necessario ascoltare. Ma su questo tornerò più avanti.

Un tempo proprio, uno spazio proprio circondato dal mare. L’isola è isolata, isolamento, una prigione? Fu la sensazione che ebbi quando vi approdai per la prima volta ormai quindici anni fa. Ma è proprio tutto così? Le cose non sono un po’ più complesse? Erri de Luca nel suo libro “L’isola è una conchiglia”, parlando di Ischia, sostiene che solo ad Ischia, circondato da un mare in cui poteva dare libero sfogo al suo desiderio di nuotare, ha potuto assaporare la libertà allo stato puro.

L’isola: un sistema aperto.

La mia prima, provvisoria, definizione per la Sardegna è stata quella di sistema autopoietico. E’ una definizione sufficiente per l’isola, l’isola per eccellenza del Mediterraneo? Penso di no. Perché se è vero che essa è un territorio unitario, che trova la sua omeostasi nell’autogenerarsi interno dei suoi elementi non dobbiamo dimenticare che i bordi della Sardegna sono la costa e che questi confini sono lunghi più di duemila chilometri. Ce lo ricorda spesso, nei suoi libri, Bachisio Bandinu. Un confine sul mare è un confine che ha il massimo di apertura. Bandinu in “Lettera ad un giovane sardo” definisce l’insularità come “forma intima di riflessione interna e come apertura alla comunicazione esterna. Duemila chilometri di costa come orlo di definizione e di apertura”. (pag. 56). Forma intima di riflessione interna come momento di chiusura e raccoglimento, apertura alla comunicazione interna come sistema aperto all’altro. Momenti che si alternano, momenti che convivono.

Stein Braten sociologo norvegese che studia la teoria dei sistemi e la geografia umana, e con il quale sto collaborando per una definizione di isole come quella che sto descrivendo, ha scoperto che non esistono sistemi completamente aperti o sistemi completamente chiusi come quelli autopoietici. Ha scoperto, e questo è un bel paradosso logico, sistemi aperti e chiusi allo stesso tempo. Isole come la Sardegna sono sistemi di questo tipo. Il che echeggia quanto scritto da Bandinu e porta ad una serie di conseguenze.

L’isola ha il suo spazio ed il suo tempo. Ma l’isola si apre all’altro sul mare, il suo tempo si ibrida con l’altro, il suo spazio diviene contiguo a quello dell’altro. Tempi diversi che si incontrano, spazi diversi che si contaminano. Antagonismo di tempi e di spazi quando l’isola tende a chiudersi su sé stessa e a farsi sistema autopoietico.

Il tempo della globalizzazione è tempo della contaminazione e dell’ibridazione quando l’isola funziona come sistema aperto. Dell’antagonismo quando funziona come sistema chiuso. In questo caso la globalizzazione è vissuta come qualcosa che ruba e stravolge la temporalità isolana nel tentativo di scandire un tempo altro, un altro tempo.

E’ la globalizzazione ad attualizzare l’antico detto sardo “Furat chie venit da e su mare”?

Se globalizzazione significa scambio culturale, meticciato, convivenza tra identità e differenza è un’occasione che non va perduta. Se globalizzazione significa instaurazione di un pensiero unico, di uno stile di vita unico che distrugge lingua, tradizioni, cancellazione delle differenze allora va combattuta strenuamente. Ma la globalizzazione è un fenomeno molto complicato che va studiato con grande attenzione e in profondità.

Per comprendere la polarità sopra descritta, per comprendere gli intrecci tra tempo locale e tempo globale, tra stili uniformati e resistenze identitarie ritengo che sia indispensabile leggere il disincantato, ironico, e insofferente, rispetto ad alcune derive identitarie, libro di Flavio Soriga “Sardinia Blues”. E’ meglio di qualsiasi saggio, di qualsiasi trattato, di qualsiasi discorso politico. Tutta la dinamica tra identità e differenza vi è profondamente descritta ed i personaggi del romanzo lo affrontano a più riprese. Basta riportare alcune parole che uno dei protagonisti del libro pronuncia: “Noi siamo perdutamente sconfitti in partenza da queste paranoie identitarie e antidentitarie e non se ne esce, in quest’isola maledetta, il danno di essere isolani… Noi dobbiamo liberarci dei fantasmi della storia, dei nostri immensi stordenti sensi di inferiorità e di marginalità e di perifericità, accettare che siamo come gli altri, tutti gli altri, né meglio né peggio, eccellenti uomini qualunque del mondo, questa è la rivoluzione che ci toccherà di fare, prima o poi…” ( pag. 12 ).

Stridente il contrasto tra questa pagina e lo scritto di Lilliu “La costante resistenziale sarda”.

Alla luce di quanto detto finora riformuliamo la domanda: cos’è, oggi, la costante resistenziale sarda?

Mediterraneo e Sardegna, scambi e dominazioni.

Il Mediterraneo è, storicamente, stata una zona geografica di scambi, commerci, dominazione. La Sardegna ha vissuto sulla propria pelle tali fasi storiche. Scambi con i fenici. E dominazioni: da quella cartaginese a quella romana, a quella aragonese a quella catalana fino a quella ingombrante dei Savoia..

Per Lilliu lo snodo è l’arrivo dei cartaginesi e la loro occupazione dell’isola. Occupazione che pone fine alla cultura nuragica e divide in due la Sardegna: quella “coloniale” disponibile alla collaborazione con gli occupanti e quella “resistente” che si ritira sulle montagne. Da questo momento nasce la dicotomia tra continente-mare, tra libertà-integrazione. Forse è in questo periodo che qualcuno pronuncia, in un sardo autentico, la famosa frase: “ Furat chie venit da e su mare”. Per Lilliu nasce da qui “il graffio della resistenza contro l’oppressione e la fedeltà alle origini autentiche”, nasce da qui il balente che diventa eroe, lo spirito del ribelle allo statuale che non è il suo, da qui si crea un conflitto normativo permanente con i colonizzatori. Costante di rifiuto che assume anche forme violente, “costante di resistenza che è resistenza all’assimilazione all’acculturazione esterna”. Resistenza che va dai cartaginesi per arrivare fino al neocapitalismo. In questo ultimo caso è l’elemento popolo, nella sua componente etnico-etica, che si muove e non l’elemento di classe. Lilliu rilegge sia la storia della Brigata Sassari, sia l’opposizione a certo tipo di industrialismo come costante resistenziale sarda.

In questo senso resistenza vuol dire combattere chi occupa con le armi la propria terra, vuol dire opporsi alla colonizzazione, ad ogni genere di colonizzazione, vuol dire ritirarsi nella riserva e non farsi risucchiare perché i rapporti di forze non permettono di ricacciare l’invasore oltre il mare, ma poi affacciarsi alla frontiera paradiso, fare puntate verso le antiche terre perdute(che assomigliano tanto alle bardane) e ritrarsi di nuovo nella casa guscio protettiva dell’interno.

Eppure in tutto mi pare di riscontrare un grave pericolo. Se la costante resistenziale sarda ha una origine (anche se non solo quella) etnica il pericolo è che la conseguenza sia la ricerca di una razza pura sarda. Ma è mai esistita una razza pura sarda? E’ mai esistita una razza pura nel mondo? Sappiamo a quali tragedie ha portato una ricerca di tal genere. In tal senso ben venga l’ antidoto Soriga.

Riprendo la dicotomia continente-mare. E’ pensabile che la popolazione costiera fosse più facilmente colonizzabile, ma anche sensibile agli scambi e a meticciarsi. E della popolazione dell’interno che ne è stato? Provocatoriamente mi domando e domando se ha sempre conservato la sua purezza, se la costante resistenziale non ha mai subito cedimenti.

Michelangelo Pira, in alcune belle pagine del suo classico “La rivolta dell’oggetto”, descrive il primo arrivo dell’automobile in Barbagia, la comparsa della televisione, il costante aumento degli impianti telefonici. Fu la prima omogeneizzazione, fu il momento in cui, a suo parere, usi, costumi, stili di vita si assimilarono a quelli delle altre parti d’Italia. Restavano ribellismi e sequestri di persona nelle zone interne. Ma non erano più l’estremo grido di un popolo che resisteva etnicamente. Era lotta di classe, anche se con una rudimentale coscienza di classe. Era la scoperta che prima della Nazione Sarda c’era la Sardegna divisa in classi dove la classe egemone era alleata alla classe egemone continentale.

Poi è arrivata la globalizzazione che non si è fermata sulle coste, che è penetrata in profondità nelle zone dell’interno. Presenza liquida, immateriale che si è andata ad inserire negli interstizi, nei pertugi aperti dalla vita quotidiana. Presenza non solo di merci ma anche di tecnologie, di internet, di un processo di delocalizzazione ad alta intensità. Così abbiamo pastori che lavorano con internet, che viaggiano con i SUV. E i banditi sono diventati elemento del folklore ad uso e consumo dei turisti.

Dov’è la costante resistenziale sarda? Sta nascosta nelle faide di Irgoli? Sta abbarbicata in quello che resta della balentia? Sta negli incendi di Orosei intesi come un rimasuglio,un frammento fantasmatico delle antiche bardane? Sta nella violenza riesplosa nelle zone dell’interno? Sta nella ricerca della pura razza sarda?

Ripristinare la legalità.

Che ne è della violenza delle zone interne? Cosa si può fare? Non lo so. Di una cosa sono certo: la necessità di ripristinare la legalità. Come ho scritto da altre parti Resistenza, oggi, è essere con Roberto Saviano, è essere contro la mafia e la camorra, è ripristinare la legalità in ogni luogo d’Italia in cui essa sia sopraffatta. Ripristinare la legalità significa mettere in campo associazioni, forze culturali e politiche. Anche le forze dell’ordine e lo Stato. Che non siano forze d’occupazione, che non siano forze con atteggiamenti neocoloniali.

Non sono un esperto. Sono un osservatore come tanti, ma implicato nel gioco del dentro e del fuori di cui parlavo all’inizio. Ho percepito movimenti, cambiamenti all’interno della criminalità. Poi basta leggere i quotidiani locali: i sequestri, del resto ormai rari, sono sempre più spesso definiti come atipici, gli omicidi non seguono più i codici consueti, le faide hanno elementi spuri che fanno sospettare che non si tratti solo di faide, i banditi che colpirono l’immaginazione di Sebastiano Satta e della stessa Deledda non esistono più. E, forse, poco rimane del codice barbaricino. Sui quotidiani si parla di bande modulari. Di certo il mondo del crimine ha subito processi di globalizzazione. Ipotizzo che in Sardegna stia accadendo quello che è accaduto nella mia città: una forte penetrazione della mafia e della camorra. Del resto basta leggere il romanzo di Carlotto e Francesco Abate “Mi fido di te”, ambientato a Cagliari, per vedere come le mafie entrino costantemente negli affari e li gestiscano. Nulla resta della costante resistenziale sarda.

Se le cose stanno così non è sufficiente ripristinare le risorse locali, seguire le paranoie identitarie e antidentitarie, rafforzare l’autostima. C’è bisogno di una lotta coordinata alla criminalità. E’ vero che in Sardegna c’è sempre stata una diffidenza storicamente più che giustificata nei confronti dello Stato. Ed è ancora vero che le riunioni provinciali, interprovinciali rischiano di essere vuoti rituali. Ma ad Irgoli, probabilmente per la prima volta nella storia del paese, sono stati i cittadini a chiedere una presenza più consistente dello Stato. Ad Irgoli tutte le associazioni culturali e del volontariato hanno raccolto firme per una petizione da inviare al Presidente della Repubblica in cui si chiedeva più presenza dello Stato. Sempre ad Irgoli ho avuto modo di parlare con amici e conoscenti. Più di una volta ho avuto la netta percezione che il silenzio dell’omertà fosse sul punto di spezzarsi. Un amico mi ha detto: “Se sapessi qualcosa parlerei. Ma lo farei solo se mi sentissi protetto dallo Stato”. Un altro mi ha detto “ Chi sa parli, a questo siamo stati invitati. Tanti che sanno lo farebbero se sentissero che lo Stato è al loro fianco”.

Piccoli segnali, forse. Granelli di sabbia in una spiaggia immensa. Eppure è da lì che bisogna partire. Bisogna partire anche dalle parrocchie della Baronia che poche settimane fa hanno organizzato una manifestazione che ha coinvolto amministratori, parrocchiani, laici, semplici cittadini che hanno il desiderio di tornare ad una vita normale e che hanno dato visibilità e voce al dissenso e alla voglia di legalità.

Credo che occorra capovolgere il senso della costante resistenziale sarda: non è nella violenza delle zone dell’interno che bisogna ritrovarla, ma nelle voci di dissenso e di opposizione a questa violenza. Trasformarla in luogo dove la priorità sia il ripristino della legalità. Lasciando da parte le questioni identitarie. Perché l’identità è data dal confronto continuo con la differenza. Dal loro gioco ininterotto: perché non esiste una ontologia dell’identità, ma solo relazionalità. Il che non vuol dire restare indifferenti alla messa all’asta delle aziende agricole e dei pascoli e al saccheggio dei litorali da parte dei costruttori come riporta “Repubblica” del 1° Novembre.

Tutte cose che ben sapeva quel grande sardo che fu Emilio Lussu.

 

* Psicoterapeuta infantile e della famiglia. Ausl di Parma. Membro non sardo del direttivo del Circolo Grazia Deledda di Parma

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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