Tutti i popoli della terra celebrano la loro festa nazionale, ricordando un grande evento del proprio passato.

Un evento che sia rimasto storico, con un significato particolare e di esempio della storia d'un popolo nel sentimento della libertà.

Una Festa dell'intero popolo che si riconosce nella sua nazione, nel luogo della nascita e dell'appartenenza, nella casa nella quale si sente radicato e che lo fa identico a se stesso.

Festa nazionale, dunque, di ogni popolo. Il popolo italiano (e in questo anche noi Sardi) ha la festa nazionale del 25 del mese di aprile, il giorno della liberazione dalla tirannia e dallo straniero. il popolo sardo celebra, come sua festa nazionale, il 28 di aprile: Sa Die de sa Sardigna.

L'evento di riferimento di questa festa è l'espulsione da Cagliari e dalla Sardegna dei Piemontesi e di altri forestieri servi della corte sabauda, e, con essi, dello stesso Viceré Balbiano: "sa die de sa ciappa". Una festa di liberazione da chi negava ai Sardi i loro diritti. Il governo torinese non aveva risposto alle domande fatte dai rappresentanti del Regno sardo autonomo al Re, per riconvocare il Parlamento, per confermare i privilegi antichi e le leggi fondamentali del Regno, e per riservare ai Sardi le cariche pubbliche, un Consiglio di Stato a Cagliari, vicino alla sede del Viceré, l'istituzione a Torino di un Ministero per gli affari della Sardegna.

Venivano, queste richieste, dal diritto del luogo e dal godimento dei privilegi, sin dall'origine e per costume, da parte dei Sardi, in virtù di parti secolari. Nello stesso tempo avevano il significato, dopo tanti dominii, di recuperare la dignità di popolo e l'autonomia sino all'autodeterminazione in un movimento di liberazione nazionale.

Questi diritti erano presenti nel progetto politico preparato dall'Abate Giovanni Francesco Simon nella primavera dell'anno 1775.

I diritti muovevano dalla vittoria sui francesi; a seguito di questo fatto se ne aspettava il rispetto da parte del governo di Torino. In più si chiedeva la fine dei gravami del dazio e dei pagamenti forzosi e dell'ingiustizia dei baroni verso i vassalli, proprietari di terre e aziende e persino di beni pubblici dei quali venivano privati i paesi, i lavoratori e i poveri. 

Dice Francesco Ignazio Mannu in "S'innu de su patriotu sardu a sos feudatarios": dice d'esseret una inza, una tanca, unu cunzadu, sas biddas hana donadu de regalu o a bendisione, come unu cumone de bestias berveghinas. Sos homines e feminas hant bendidu cun sa cria". E dei Piemontesi, protettori dei baroni: "Fit pro sos Piemontesos sa Sardigna una cuccagna, che in sas lndias de Ispana, issos s'incontran inoghe. Nos alzalat sa foghe finzas unu camareri. O plebeu o cavaglieri su sardu si deviat umiliari". Da queste ragioni nasce Sa Die de sa Sardigna, voluta dal Consiglio Regionale in forza di legge del 14 settembre 1993. E', pertanto, la festa nazionale della Regione sarda, che dà visibilità alla stessa Regione. Nasce per corrispondere a passioni e sentimenti compresi da istituzioni e dalla comunità. Tutti devono celebrare questa festa con partecipazione sincera, tutti insieme per creare domani una società più giusta, fedele all'idea sarda, orgogliosi di appartenere alla nostra terra, nostra mamma, di essere cittadini di questa terra nell'attesa della sua liberazione. Una festa, Sa Die, di incontro e occasione di gioia, nella quale si devono mettere da parte brighe di ogni giorno, per ragionare gli uni con gli altri in pace, nel sogno e nell'attesa d'un tempo sereno a venire.

Una festa anche di riflessione sull'istituto della Regione oggi, che è ancora incompiuto nel sentimento dell'autonomia, e sull'istituto della stessa nel futuro: quello che avrà radice nella sovranità del popolo sardo arrivato a capo di una nazione concorde e democratica. Una festa di pausa per riflettere sul presente, con la virtù del ricordo, per arrivare domani alla "frontiera paradiso", uscendo dalla "riserva", dal chiuso, e tornare al mare, liberi come una volta: al mare del quale eravamo padroni, protagonisti della nostra storia. Una Frontiera nuova, aperta a parlare col mondo.

Perciò bisogna seguire gli esempi dei nostri antichi Padri, in unità politica e morale, in un tempo nel quale bisogna stringere i valori della scienza e della tecnica, propri di noi come degli altri popoli, alla tradizione della nostra civiltà millenaria. Di fatti, noi siamo anche quelli che siamo stati e lo saremo sempre. Ci portiamo dentro queste cose e non ce ne libereremo mai. Siamo attaccati come ostriche alla roccia per millenni, e la roccia è qualcosa di noi; se non ci fosse, noi non saremmo mai.

Oggi la Sardegna sta tornando a ritrovare l'identità di popolo e cultura. Forse siamo all'inizio di una storia nuova in questo millennio. Non sono mancati sforzi per recuperare secoli perduti nei quali i Sardi hanno contato. Essi vogliono contare ancora, oggi che stiamo entrando in Europa, senza dimenticare il Mediterraneo, mare nostro e degli altri popoli di una sponda e dell'altra, che sognano di vivere in pace.

Dunque, radici e ali sono la migliore eredità che noi possiamo lasciare ai nostri figli. Così è possibile, nello stesso tempo, difendere la nostra identità di popolo, di cultura e di vita, e mostrare nuove strade a coloro che verranno.

                        E il miglior tempo dell'avvenire non mancherà, se l'antico peccato della divisione lascerà il passo all'unità  dei  Sardi.

Sa Die de Sa Sardigna

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