Roma - Sabato 17 Novembre 2001

                        

STRATEGIE  VITALI  DELLA  RAGIONE.

Franco Bosio 

 

 

Meta-ontopoiesi: la philosophia perennis di Anna-Teresa Tymieniecka

Daniela  Verducci

 

 

Bari - 1 Febbraio 2002

 

EMPATIA E AMICIZIA IN FENOMENOLOGIA

Angela Ales Bello

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

STRATEGIE  VITALI  DELLA  RAGIONE.

Franco Bosio 

                     

I

 

     “Ragione” e “vita” sono i due poli opposti entro cui la realtà si muove e si concentra. Fino a pochi decenni fa la filosofia credeva di poter muovere da una comprensione pressoché concorde fra i due termini. Che poi all’interno di questa comprensione comune potessero anche sorgere interpretazioni differenti delle due sfere, non inficiava tuttavia quella concordia di base. La ratio come erede del logos dell’antichità classica, trasformata tuttavia in un percorso di razionalizzazione che conduce la totalità delle conoscenze all’unità e all’unificazione, agisce nella vita, ne domina la potenza incontrollabile e disordinata; in sostanza ne esprime la verità che la vita da sola non sa trovare. La filosofia classica e la stessa filosofia moderna, fino all’Idealismo, Hegel compreso ha cercato e ha creduto di essere riuscita a trovare l’equilibrio e la sintesi fra “ragione” e “vita”. E’ proprio Hegel il filosofo che meglio di tutti conferisce l’espressione più nitida e più sicura a questa esigenza. La vera “ragione” (Vernunft) è la “vita” vera: la vita dell’ “Idea” nel suo svolgimento dialettico. L’intelletto al cpontraio, la potenza della negatività, dello smembramento, della disarticolazione, non è la vita. Anzi, ne è l’istanza più ostile e più nemica. L’intelletto è la morte, la cristallizzazione, la solidificazione della vita. Ma la Vernunft, la ragione, ha il potere di sormontare la contraddizione, il negativo, la morte. La “ragione” comprende e  s a  che la morte, la dilacerazione e il dolore stesso appaiono come i momenti necessari del processo del divenire dell’Idea. L’intelletto astratto è dunque una forza della vita stessa, che però non sa e non conosce se stessa come il momento del dirompersi in sé medesima della vita per poi riunirsi e riconciliarsi nella “ragione” e nell’idea. Tutta la Fenomenologia dello Spirito, preparata dai lavori giovanili della cosiidetta fase “teologica” è pervasa da questa visione ancor più di tutte le altre opere successive. Oggi però le cose non stanno più in questi termini. La bilancia dell’equilibrio fra la “ragione “ e la “vita” pende decisamente dalla parte di quest’ultima. La “vita”, nel pensiero del tardo Ottocento è molto di più della “ragione”. Consideriamo p.es. il “pragmatismo”. Per esso le “ragioni” della “ragione” nascono dalla vita e sono interamente al suo servizio. L’intelligenza e il “logos” sono appunto “strategie” che pervengono ad elaborazione e a maturazione all’interno del cammino della “vita” e che hanno valore solo in quanto riescono a soddisfarne le esigenze. In vario modo dunque le “filosofie della vita”, con Dilthey e con Simmel, individuano nel pensiero l’attività di un operare “strategico” proprio del divenire della “vita”. Anche a questo ci fa pensare il titolo del ponderoso volume di A. T. Tymieniecka, Impetus and Equipoise in the Life Strategies of the Reason, “Analecta Husserliana”, vol. LXX, Kluwer Academic Publisher, Dordrecht, 2000.

Potremmo naturalmente in proposito sottolineare con Habermas che l’operare strategico”, come lo chiama il filosofo tedesco che svolge in tutte le  sue opere questo tema per lui di primaria importanza, non configura affatto l’orizzonte della totalità di ciò che ha senso e valore. A suo vedere infatti l’agire strategico è soltanto strumentale e operativo. Il suo scopo è il successo. Il suo orizzonte rientra unicamente nella logica del rapporto mezzi-fini. Tale logica è dunque spesso incerta e può persino prevedere un rovesciamento del rapporto. Il fine può diventare un mezzo per un fine ulteriore. Dall'ipertrofia dell'agire strumentale, dunque “strategico” nasce la posizione di nuovi fini che trasformano e spesso stravolgono la gerarchia e la subordinazione del mezzo al fine. La tecnica oggi è la potenza suprema di questo stravolgimento e pervertimento. La potenza del relativismo vitalistico di un pensatore come Nietzsche, che è stato su ciò il più radicale di tutti, consiste proprio nell’aver compreso e configurato questa possibilità, con tutte le sue conseguenze pericolose. Il libro di A. T. Tyminiecka ha secondo noi il merito di non situarsi su questa linea e in tale prospettiva.

 

II

 

    Siamo entrati in un’età che volentieri si suole definire “postmoderna”. Scrive in proposito l’Autrice: “va concesso al postmodernismo che non esiste nella filosofia una prospettiva che possa reclamare una validità assoluta al di sopra delle altre” (p. 3). Tuttavia lei stessa subito dopo si dichiara fiduciosa nelle possibilità dell'intelligenza di risalire alle sorgenti della ragione che ci può condurre in vista delle scaturigini dell’immensa e fluente corrente della vita. E’ questo un lavoro che ella viene svolgendo da anni e che si è anche concretato in numerosi convegni e incontri internazionali, documentati dalle raccolte degli Analecta Husserliana.

    Si deve ben riconoscere che nel suo immenso frammentarsi in una miriade e in una pluralità di prospettive, il pensiero della postmodernità non è più capace di appuntare il suo sguardo sulla “vita”. Non ne riconosce più né il segno né la forza. Se il carattere essenziale della “postmodernità” (ma meglio sarebbe definirla “tarda modernità”) si riassume e si compendia nell’espressione “pensiero debole”, ciò significa che la vita stessa oggi è ormai indebolita, illanguidita, estetizzata nelle parvenze di tante prospettive

Che si collocano in un relativismo della più totale indifferenza. Ma, e ciò deve far riflettere, non ci si può limitare a prendere atto di ciò e a sancirlo come un destino assoluto e irrevocabile. Bisogna tener conto, che più che essere un’età di relativismo la nostra è anche “l’età della complessità”. Vale a dire un’epoca in cui si riconosce che la realtà ammette più di un’interpretazione, ammette visioni e spiegazioni che possono anche entrare in conflitto fra di loro. Si pensi ad esempio al conflitto e alla polarità del modello “ondulatorio” e di quello “corpuscolare” nella fisica. Si pensi all’alternativa, propria delle scienze della natura e della fisica in particolare, fra indeterminismo statistico e determinismo classico. Ed anche la conflittualità rientra nell’essenza della vita e del suo divenire. “Uno è tutto”, ricorda l’A:, citando Eraclito; i riferimenti all’efesino sono numerosi, e in particolare dobbiamo ricordare il celebre “la guerra è madre di tutte le cose…”.Ma si tratta di un Eraclito che non vuol certo essere quello di Hegel. Un altro Autore fondamentale per A. T. Tymieniecka è Husserl. Perché Husserl è tra i “moderni” non tanto lo “scopritore” della vita,ma soprattutto il pensatore che ha insegnato che se vogliamo ridare senso e valore alla “ragione” dobbiamo riuscire a comprendere la genesi delle sue costruzioni a partire dal “mondo-della-vita” in cui da sempre esse sono calate. Secondo lei la fenomenologia della vita è la filosofia per eccellenza (p. 288). E la vita è più che vita “costituente” e “costitutrice”, come la vuole Husserl: è addirittura “creatrice”, ontopoietica. L’A: fa emergere dunque la questione: “è il concreto che è sempre in divenire in opposizione radicale all’universalità oggettiva della manifestazione?” (p. 287). La ricerca della stabilità e della permanenza è il compito del “logos”; ma tale compito è soltanto annunciato. L’impresa da condurre a termine è grande e difficile.

    La vita è “ontopoiesi”. Si tratta di scoprirne e di elucidarne il “piano universale”. La metafisica tradizionale mirava solo ad una “logica delle essenze”. Ma essa si scontra con la “logica della contraddizione”. La vita non sa nulla, proprio nulla di una possibilità di accordo precostituito logicamente nel piano dell’”Idea” tra le due logiche. La concezione hegeliana da cui abbiamo preso le mosse in apertura, non è più condivisibile. Il procedimento che l’Autrice intende seguire non sembra certo ripercorrere le vie della tradizionale “dialettica”. Preferisce un altro approccio: quello che potremmo definire “empatico”, o anche “simpatetico” nei confronti della vita, con evidente riferimento all’approccio fenomenologico. La vita, dicevamo, è “creatività”, e come tale “ontopiesi”: Sono queste le istanze principali che attraversano e pervadono tutto il libro di A. T. Tyminiecka. L’ontopoiesi però ha un ritmo, ha tendenze, direzioni. Nelle prime pagine l’A. ci avverte che questa creatività non è un’esplosività disordinata e caotica. Ma nemmeno la si può intendere come un processo di svolippo lineare che progredisce con avanzamenti addizionali. Dobbiamo ancora ricordare con Husserl e con Merleau-Ponty questo: “è la vita e non il mondo che si presenta come base dell’indagine scientifica da cui dobbiamo partire; e solo la vita comprende e intende il proprio operare” (p. 20). Ricorre spesso nell’opera il termine “interpretazione”. Il problema dell’interpretazione come “atto vitale” e dunque anch’esso come una forma che non è certo tra le meno significative di “ontopoiesi” meriterebbe uno sviluppo a parte. Ci sarebbe piaciuto che l’A. stessa avesse dedicato un’attenzione ancor maggiore ai possibili sviluppi. Sappiamo bene tutti, anche se tendiamo a sorvolare sul problema, come l’interpretare sia l’atto vitale per eccellenza. E’ Nietzsche il pensatore che ha avuto il merito di avvedersene per primo. Sul tema egli ci ha lasciato molte riflessioni sparse nei “Frammenti Postumi”, raccolti e ordinati da Colli e Montinari. E’ celebre questa sua massima in materia di morale: Non esistono fatti morali ma solo interpretazioni morali. L’interpretazione è un po’ tutto, o per meglio dire in tutto c’è attività interpretante: dall’atto vitale elementare dell’assunzione di cibo alle trasformazioni che il vivente opera a partire dal suo ambiente vitale ed in esso, fino al linguaggio, alla comprensione dell’altro, all’elaborazione di visioni del mondo, alla fondazione di comunità e di Stati. Nella vita così come scorre ordinariamente non ci accorgiamo di esercitare un’attività interpretante. Ma la sua imperiosa e inomissibile necessità salta subito agli occhi là dove la vita si è come bloccata, si è irrigidita, è entrata in conflitto con se stessa. E’ la lezione di Gadamer, il grande teorico dell’ “ermeneutica”. Una lezione memore sia di hegel sia di Nietzsche. Quando qualcosa ci si è reso estraneo e però nello stesso tempo ci sollecita e ci provoca al domandare e all’interrogare, allora nasce la volontà di interpretare e di capire. E ciò accade tutte le volte che la vita entra in un vicolo cieco da cui cerca in ogni modo di uscire. Questo succede quando una tradizione in cui riponevamo la nostra fiducia incomincia a divenirci straniera o addirittura ostile. Ma accade anche, in un ambito più individuale, più modesto e più ridotto, quando cominciamo a non capire più i comportamenti di un nostro amico, di un nostro caro. Creatività ed arresto, impeto ed equilibrio, come momento di stasi in una sorta di ondeggiamento sono i momenti del farsi della vita. L’atto interpretante come momento “ontopoietico” vuole superare un conflitto, colmare mancanze e lacune. Noi tuttavia ci discosteremmo da un semplice “monismo della vita”, quale si configura nel filosofo della “volontà di potenza”. Su questo punto l’A. non è sempre chiara. Atto vitale e vivente sì; ma di quale “vivere”, di quale “vitalità”? Siamo qui sullo stesso piano di quell’intepretare assimilante che è il nutrirsi, il lavorare per trasformare l’ambiente, lo scambio di segnali e di informazioni, o non c’è nel comprendere vero e proprio qualcosa di più e di diverso che è “più che vita” come ha ben visto Scheler, forse meglio di molti altri. E’ qui che si potrebbe bene innestare la tematica del Logos,o se si vuol dire, pur sapendo ben tenere presenti le differenze semantiche, della “ragione”. E’ proprio questa l’impresa in cui le scienze non possono aiutarci e spoccorrerci in nessun modo. E a proposito del rapporto scienze-vita, sul piano dell’”interpretazione”, mi rifaccio ad autori importanti e significativi, i biologi sudamericani H. Maturana e F. Varela, e ai loro libri L’albero della conoscenza (trad. it. 1987) e Autopoiesi e cognizione (trad. it. 1985). Gli autori sostengono che il vivente è un “sistema autopoietico” e che la conoscenza e la vita hanno la stessa radice. “Ogni azione è conoscenza ed ogni conoscenza è azione” (“L’albero della conoscenza”, trad. it., Milano 1987, p. 22). Il vivente ha un’organizzazione ed essa è ciò che gli consente di conservare la sua identità. Perciò “l’essere e l’agire di un’unità autopoietica sono inseparabili” (p. 53). Il vivente, e non solo il vivente in generale, ma ogni vivente in particolare ha un “suo” mondo “chiuso” e distinto che si può comprendere solo dall’interno (p. 22). L’uomo interpreta i sistemi viventi come sistemi autoregolati. Ma con ciò proietta sulla vita la sua mentalità cibernetica e tecnologica. In tal modo la assimila a sé e all’intelligenza artificiale che egli stesso ha prodotto e sovrimposto alle cose. Ma questo è un fraintendimento. Nasce da un’autocomprensione che è anch’essa un’autointerpretazione vivente. Si tratta infatti di un’attività vitale che ha preso una direzione inautentica, riduttrice, e dunque distorta. Si tratta infatti di una vita che si è modellata sull’operare tecnico-pratico, ma è un atto vitale parziale che si autofraintende facendosi passare per il tutto. Il vivente è autopoietico, mentre le macchine che hanno come fine del loro funzionamento qualcosa di diverso da loro stesse sono “allopoietiche” (Autopoiesi e cognizione, 1985, p. 131). Perciò nozioni quali “codifica, messaggio, informazione non sono applicabili al fenomeno dell’autoriproduzione; il loro uso nella descrizione di questo fenomeno costituisce un tentativo di rappresentarle nel linguaggio della rappresentazione eteropoietica” (Autopoiesi e cognizione,cit. p. 160 e inoltre L’albero della conoscenza, cit. pp. 118-119). Non possiamo diffonderci ulteriormente in questa sede, ma non possiamo mancare di ricordare anche H. Jonas (Dio è un matematico?, trad. it. Genova 1995):  dice Jonas nelle ultime pagine del suo breve scritto, al “Dio matematico” (il “dio”della ratio intellettualistica, del logos convertito in “ragione”, sfugge il punto decisivo della vita stessa: ossia che essa è individualità che ha in sé il proprio centro, che si pone in opposizione rispetto al resto del mondo, e che conosce un confine tra “mondo esterno” e “mondo interno” (e possiamo aggiungere che si tratta di un confine, che come sostengono Maturana e Varela è spesso da noi delimitato in modo arbitrario). Per Jonas è il vivente che ricrea in continuazione il proprio equilibrio (pp. 42-45).  Dove la ratio della scienza non può che fallire è la filosofia la potenza spirituale chiamata a dare le ragioni di questo fallimento e ad offrire un diverso quadro interpretativo della realtà. Di fronte ad una ratio per la quale l’individuazione e l’individualità non sono che pure accidentalità senza rilevanza è necessario rivendicare la necessità dell’individualità e dell’individuazione (Tymieniecka, pp. 226 sgg.). E con l’individuazione si afferma e si rafforza il processo “entelechiaco” della vita come interiorizzazione e sforzo in cui l’ontopoiesi diviene coscienza e coscienzialità.

Il metodo che l’opera ha voluto seguire si è fondato, fenomenologicamente, in ossequio all’atteggiamento raccomandato da Husserl, non su una veduta speculativa presupposta, ma sulla visione, sull’ascolto e sul rilievo descrittivo che ha voluto seguire passo per passo il divenire e lo sviluppo della vita. Ma il punto d’arrivo induce a porre queste domande fondamentali: come si concentra nell’uomo la vita per elevarsi a qualcosa che certamente è “più che vita” e che possiamo chiamare “spirito”, mondo dell’idea e dell’ideale? Il tendenziale, anche se non espressamente dichiarato orientamento “monistico” andrebbe modificato. La strategia di implicazione di “slancio” e di “equilibrio” sufficiente per comprendere la “vita” e il fenomeno originario della “vitalità” si configura nelle medesime modalità anche nel mondo dello spirito o c’è qualcosa che muta nel profondo? E inoltre la “vita” contiene propriamente in embrione un piano “logoico” (logoic per differenziarlo dal “logico”) che consente l’apparire dello spirito nell’uomo, oppure siffatta embrionale e potenziale presenza non c’è ? In tale caso non è più possibile parlare di “piano” o di “progetto”. La “trascendenza” dell’uomo come essere spirituale è trascendenza  d e l l a  vita come suo proprio autotrascendersi o è trascendenza  s u l l a  vita? Le domande rimangono aperte.

    Una visione della spiritualità e del mondo dello spirito nutrita di senso della vita e per la vita ha fatto rivolgere il pensiero ad alcuni, anche a scienziati come il fisico F. Capra, al Dharma indù e buddhista e al Tao cinese, visioni di una grande fusione e di un abbraccio totale fra l’uomo e il cosmo naturale da cui invece sia il teismo sia l’antropocentrismo dell’Occidente e della sua filosofia, non meno che della sua scienza, hanno a torto preteso di liberarsi. La “trascendenza sulla vita” e la ricerca di una “trascendenza” a prezzo però di una soggezione e sottomissione al dominio del Logos proprio della moderna ratio è in ogni modo l’errore infausto da evitare.

 

Meta-ontopoiesi: la philosophia perennis di Anna-Teresa Tymieniecka

Daniela Verducci

            Per chi ha seguito l’iter speculativo della fenomenologia della vita di Anna-Teresa Tymieniecka, la pubblicazione del volume  Impetus and Equipoise in the Life-Strategies of Reason, come quarto della serie Logos and Life, ha significato una vera e propria sorpresa. I tre volumi precedenti sembravano, infatti, costituire una unità compiuta, nella cui articolazione, l’ontopoiesi della vita e la condizione umana creatrice, i due capisaldi della nuova fenomenologia della vita di Anna-Teresa Tymieniecka, avevano potuto trovare espressione piena.

Più in particolare: nel primo volume si  era avviata l’integrazione della facoltà razionale nell’esperienza creativa e reciprocamente dell’auto-poiesi della vita  nell’ontopoiesi della vita umana (Logos and Life: Creative Experience and the Critique of Reason, Book 1, Analecta Husserliana,  XXIV  1988); nel secondo , The Three Movements of  the Soul (Logos and Life, Book 2, Analecta Husserliana,  XXV  1988), erano stati analizzati i passaggi  di trascendenza dell’anima umana secondo il suo telos transnaturale, già evocato nel primo libro, accanto all’entelechia naturale. Nel terzo infine, The Passions of the Soul and the Elements in the Onto-poiesis of Culture, (Tractatus Brevis in Analecta Husserliana, XXVIII 1990) la nuova visione dell’ontopoiesi esistenziale era stata contestualizzata nella corrispondenza tra gli elementi primordiali, luce e acqua, e le passioni elementari dell’anima.

Il ciclo indotto dal nuovo approccio filosofico a partire dalla condizione umana creatrice

sembrava, dunque, tracciato per intero e destinato a svilupparsi  ormai in approfondimenti parziali e comunque al proprio interno. Invece dalla spontaneità dell’immaginazione creatrice è scaturito un esito meta-ontopoietico (the meta-ontopoietic closure, p. 643) ovvero si è prodotta  la  possibilità di “riguadagnare la grande visione del tutto” (=recovering the Great Vision of the All) e di considerare la vita reale  come il prototipo di ogni rappresentazione artistica teatrale. Di essa noi possiamo fruire immaginativamente,  cioè dalla posizione unica del fulcro poietico di tutto (Fulcrum of All), che ci appartiene, senza affannarci o disperderci nella ricerca dell’inizio o della fine.

Nelle oltre 600 pagine del IV volume della serie Logos and Life, infatti, Anna-Teresa Tymieniecka  delinea un quadro filosofico in cui, essendosi ormai il logos e la vita manifestati come compenetrati, la ragione pone in atto strategie vitali (life-strategies of reason),  lasciando alternare slanci pulsionali (impetus) e bilanciamenti razionali (equipoise).[1] L’opera si qualifica così come una metafisica, che nell’individuazione di un  logos, unico e totale, descrive “le cose secondo la loro visione ultima” (the ultimate vision of things), nella quale il fenomeno della poiesi,  che in quanto autopoiesi è proprio della vita in genere e nell’uomo rivela la sua pregnanza ontopoietica, si esprime ora anche nella sua capacità meta-ontopoietica. Ad essa l’armonia universale si offre come spettacolo e il logos ne fruisce in forza della stessa virtualità creativa che  lo ha reso e lo rende anche parte produttrice.  E’ la stessa energia vitale che percorre il cosmo naturale, la forza  che,  raggiunta la coscienza, la rende generatrice di onto-poiesi e di meta-ontopoiesi ovvero non solo veicolo di un “creare conforme all’essere” ma anche del sapere propriamente metafisico che a tale creazione è relativo. Dalla fenomenologia della vita di Anna-Teresa Tymieniecka si apre pertanto la possibilità di afferrare il logos prima nel suo impeto costruttivo  poi nel suo dispiegamento nella vita, la quale proprio sulla misura del logos si auto-individualizza:

 

…we will first seek to grasp the Logos in its constructive impetus and then in the unfolding of its vehicle, the self-individualization of life. The latter receive the impact of the impetus as the measure of a constructive equipoise. There lies the centralizing factor of the logos of  life ” (= cercheremo dapprima di afferrare il Logos nel suo impeto costruttivo e poi nell’espansione del suo veicolo, l’autoindividualizzazione della vita. Quest’ultima riceve l’impatto dell’impeto come la misura di un bilanciamento costruttivo. Qui sta il fattore centralizzante del logos della vita). [2]

 

            Il logos della vita fa capo infatti alla creatività della condizione umana e l’atto creativo, proprio di tale nostra condizione,  prendendo parte al più profondo lavorio della vita, svela l’originario “modellare” (fashioning)[3] delle funzioni preconsce e riflessive dell’agente osservatore. Per questo noi non dobbiamo limitarci, come consiglia C. S. Peirce, a tener conto dell’agente riflessivo e della interrelazione in cui si trova, nel tentativo di comporre il dualismo di teoria e prassi.  Qui non c’è il pericolo di ricadere nel dogmatismo o nel dualismo metafisici, da Nietzsche tanto paventati, perché il logos che la coscienza coglie è quello della vita, che l’ha coinvolta nella sua dinamica poietica.

L’apertura alla vita della assolutezza della coscienza trascendentale costituente husserliana è stato, d’altro canto, uno dei primi risultati conseguiti da Anna-Teresa Tymieniecka nel corso della sua pluridecennale attività di  ricerca e promozione fenomenologica, avviata ufficialmente con  la comparsa dei primi due volumi della rivista Analecta Husserliana, rispettivamente nel 1971 e nel 1972. Con tale pubblicazione periodica si intendeva venire incontro all’esigenza dei numerosi cultori  del metodo di filosofia husserliano di ritrovare un luogo  stabile di comunicazione e di discussione, dopo che da quarant’anni lo storico Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung  aveva cessato le sue pubblicazioni.

 Individuati i due principali  punti di appoggio dell’assolutezza della coscienza trascendentale husserliana, da un lato nell’assunzione della corporeità come punto-zero (Nullpunkt) della costituzione del mondo-della-vita e, dall’altro, nella presa in considerazione dell’esperienza vissuta esclusivamente nella sua regolarità, la Tymieniecka  osserva che notevoli sono stati gli sviluppi delle scienze della natura dall’epoca di Brentano e Husserl ad oggi. Essi hanno addirittura condotto al capovolgimento  del primo asserto-base della costituzione trascendentale del mondo-della-vita, mostrando che il conscio (das Bewusste) si radica nel “corporeo-naturale” (in dem ‘Leiblich-naturlichen’). La coscienza, infatti, possiede una peculiare modalità di “essere-corpo” (Verleibung), graduale e rispettosa della sua autonomia, che si manifesta nell’esperienza del “conscio-corporeo”(das ‘Leiblich-bewusste’) dove, attraverso i vissuti dei processi psichici in generale (la loro successione, intreccio, motivazione), essa entra in contatto  con l’intera compagine della natura  (Naturgefüge), a sua volta intesa come autonoma.[4] Ovvero: non si dà all’origine del conscio una corporeità-limite, coscienzialmente indecifrabile e da considerare perciò punto-zero; va invece riconosciuto che anche del “corporeo” si ha una trascrizione coscienziale e che, inoltre, per il tramite di tale suo originale modo-di-essere, la coscienza può diramarsi nell’ambito della natura. Anzi, se si vuole davvero venire fenomenologicamente a capo del conscio oggettivo-o-vissuto (Gegenständlichen-oder-Erlebnisbewusste), occorre istaurare una ricerca genetico-fisiologica e intendere il progresso dei risultati delle scienze della natura come un’indispensabile fonte di conoscenza in carico alla filosofia: c’è, infatti, un conscio-corporeo che precede e sostiene la coscienza costituente, insieme de-assolutizzandola e ponendola in intima relazione con il mondo-della-vita .[5]

Insomma, ad una indagine fenomenologica rinnovata, cioè resa ancora una volta libera dai pregiudizi della conoscenza naturale e scientifica, anche l’algida coscienza trascendentale costituente è risultata viva, o almeno con la vita connessa e compatibile. Al di sotto della datità (givenness) essenziale della genesi costitutiva dell’oggettività, c’è un

 

inner workings as the locus whence eidos and fact simultaneously spring. That amounts to saying that not constitutive intentionality but the constructive advance of life which carries it may alone reveal to us the first principles of all things ”.[6]

(= intimo lavorare come il luogo da cui simultaneamente sorgono eidos e fatto. Il che equivale a dire che non l’intenzionalità costitutiva, ma la marcia costruttiva della vita, che la sostiene, può da sola rivelarci il principio di tutte le cose)

 

Così A.-T. Tymieniecka raggiunge il centro dell’esperienza fenomenologica, quello  da cui il fondatore stesso aveva tratto l’energia propulsiva per dar vita a un progetto, che non era solo di philosophia prima, ma anche di scientia universalis e dunque si rivolgeva sia al mondo umano sia al cosmo, organico e inorganico.

Certo, diversa sarebbe stata la fecondità speculativa di questa nuova fenomenologia della vita se A.-T. Tymieniecka, anziché seguire con decisione la più ampia intenzionalità filosofico-fenomenologica, si fosse appiattita sulla dinamica riflessiva di tipo biologico che, curiosamente, proprio in quegli stessi anni, veniva sviluppata in Cile da  due neurofisiologi, Humberto R. Maturana e Francisco J. Varela.  Nel 1973 essi scrivevano, infatti, in un interessante saggio di elevato valore euristico anche in campo filosofico, che l’intera organizzazione di ogni singolo vivente poteva essere ricondotta, quanto alla sua genesi e al suo sviluppo,  ad un unico procedimento, designato, con termine di loro invenzione, come  “autopoiesi”. Negli anni ‘90, poi, Varela giunse a rappresentare la dinamica autopoietica dell’essere vivente come base, necessaria e sufficiente, per interpretare e volgere ad adeguato compimento realizzativo i comportamenti del vivente umano.

Quella che emerge, invece, dal Tractatus Brevis di Anna-Teresa Tymieniecka, comparso nel 1986,  nel volume XXI di Analecta Husserliana, non è affatto una antropologia biologistica. E’, viceversa, una descrizione della vita su base antropologica,[7] che  si dirama facendo centro sulla condizione umana (the human condition), intesa in senso “cosmologico”[8] ovvero come quel luogo delle relazioni tra essere umano e natura, che è oggetto di studio delle scienze umane. Qui, si manifesta che il vivente-uomo sa riconoscere, selezionare e portare a realizzazione le virtualità del proprio essere, gestendo in modo creativo le funzioni e gli automatismi psico-fisici, suoi e dell’ambiente che lo circonda, sia umano e animato che inanimato. Secondo la Tymieniecka, cioè, raggiungendo il livello della condizione umana, la vita consegue un grado di  individualizzazione per cui sia  prende  coscienza di sé sia si esplica come capacità di auto- ed etero-plasmazione.[9]

La visione (vision) che da questa posizione si apre non contempla affatto, però, al suo inizio l’essere umano quale demiurgo, al pari della concezione trascendentale-strutturale della fenomenologia classica. Piuttosto, in essa 

 

[man] appears caught up in the turmoil of a generating progress, and thus as one of innumerable moments of the immensurable stream of life”. [10]

(= l’uomo appare coinvolto nel tumulto del progresso generativo e dunque alla stregua di uno degli innumerevoli momenti dello smisurato flusso della vita).

 

Il livello umano del flusso vitale, tuttavia, non si identifica con uno dei segmenti delle altre sequenze reciprocamente subordinate:  sorge, infatti, dal groviglio delle reti vitali come il “vortice” (vortex) in cui si incontrano tutte le reti dei vari ordini della vita, il loro “nocciolo” (knot), “il vortice del senso universale”(= the vortix of the universal sense). L’uomo-fonte della fenomenologia classica diviene qui uomo-vortice, essendo stato “riposizionato” (resituated) all’interno di un più ampio campo ontologico d’indagine, quello della vita: “alle [cui] articolazioni la visione filosofica produce i suo propri punti interrogativi ” (= philosophical vision bears at its junctures its own points of query).[11] A questo punto, il dinamismo più originario del vivente umano, quello creatore, si mostra coscienzialmente nella sua fondatività e, sovvertendo la gerarchia tradizionale dei tipi umani:

 

le poète devient le créateur de l’homme et le philosophe le témoin”.[12]

 

A.-T. Tymieniecka, d’altro canto, non trascura di prendere in considerazione, dal suo punto di vista, anche l’ipotesi dell’umano assestamento sulla vita naturale. Infatti, attestarsi sulla condizione umana nella sua datità,  ricercando, autopoieticamente, l’unità, l’interconnessione e l’armonia  del tutto circostante, dal primordiale al divino, anziché dare corso ontopoietico, teorico e pratico alle virtualità dell’immaginazione creatrice, è certo uno degli stili di vita perseguibili e sembra promettere, all’essere umano, una ultimativa autosoddisfazione ed  un equilibrio, difensivo da ogni coinvolgimento con il minaccioso pulsare della vita: l’uomo si sente creatura debole, vana, codarda e se “avverte il bisogno di inventare universi immaginari, è per annegarvi il nocciolo della vita” (= He needs fictitious universes to drown the gist of life). Ma limitarsi a una simile stabilizzazione omeostatica significa impedirsi di partecipare a quella che la Tymieniecka chiama “la gloria unica della vita” (the unique GLORY of life), cioè al rutilante sfavillio della incessante produttività formativa vitale, impiegando gli strumenti speculativi e simbolici, di cui solo l’uomo è dotato, non per vivere con la maggiore intensità che esclusivamente a lui è consentita, ma per costruire difese e protezioni dalla vita, come fanno i bachi, le farfalle, i molluschi.

 

For like a silkworm he [the human being] spins around himself an incomparably complex cocoon, within which he is caught immobilized, enclosed, a butterfly in his crysallis, a pearl in its shell. Not enlightened by exposure to the vast span of rays of the sun, but blinded by his own anguish, incapacitie, fear of life, nostalgia – unfitness to delve into the gushing stream of existence”(= come un baco egli [l’essere umano] fila intorno a sé un bozzolo incomparabilmente complesso, all’interno del quale è afferrato immobilizzato, racchiuso, come una farfalla nella sua crisalide, come una perla nella sua conchiglia. Non illuminato dall’esposizione alla vasta apertura dei raggi del sole, ma accecato dalla sua stessa angoscia, incapacità, paura della vita, nostalgia – inettitudine a scavare nello zampillante flusso dell’esistenza). [13]

 

D’altra parte, paradossalmente, anche mantenendosi su questa via evasiva e difensiva, per l’uomo l’atto della vita ricorre (= the ACT OF LIFE occurs) e ogni volta si segnala con un tremito (THRILL), come avviene quando si paventa  un rischio incalcolabile.[14] Allora perché non spingere l’essere umano a riconoscere che, sebbene impieghi le sue energie a preservarsi dalla vita, egli vi si trova  già  dentro, è un vivente e rappresenta quella modalità originale di vita, che con eroico-fervore (HEROIC-FERVOR) sa forgiare canali sempre nuovi per la sua sopravvivenza, fino a consumare tutte le sue forze, nel nobile compito di crearsi (CREATION) un nido sul campo di battaglia della vita? Perché non invitarlo a cercare se stesso anzichè nelle strategie che si è formato (ideali, sogni, desideri di compimento),  nel gioco dell’esistenza da cui è afferrato? Da quel turbine all’interno del quale

 

your hand follows your eyes, your leg follows your desire to move: all your vital vibrations fall into an operational pattern and canvass a stupendously rich and cogent fabric: you open your eyelids and a universe surrounds you” (= la tua mano segue i tuoi occhi, la tua gamba segue il tuo desiderio di muoverti: ogni tua vibrazione vitale assume un assetto operazionale e sollecita un manufatto stupendamente ricco e convincente: tu apri le tue palpebre e un universo ti circonda)?[15] 

  

Il livello delle ontologie regionali è insufficiente a descrivere il punto sintetico cui siamo giunti, poichè non abbiamo più a che fare con un essere “costituito”, polo noematico prevedibile di una intenzionalità noetica altrettanto prevedibile. Ugualmente inadeguata risulta la circolarità autopoietica della vita biologica. La condizione umana ci offre la chiave per l’accesso all’essere nella sua trama vivente, cioè continuamente in divenire, produttivo di forme sempre più complesse e diversificate, percorso da tremiti. Su di esso la regionalizzazione ontologica dispone schemi rappresentativi, funzionali alla mera sopravvivenza difensiva dell’essere umano, finchè quest’ultimo non prenda consapevolezza della forma individuale di vita che egli è e la accetti responsabilmente, cedendo “all’e-stasi dell’abbandono finale” (the EKSTASIS OF THE ULTIMATE  SURRENDER)  al proprio essere vivente-creatore. L’uomo, infatti, non soltanto segue gli schemi, spontanei e già tracciati, della vita universale, ma ne inventa e ne produce di nuovi. Incessantemente,  crea dispositivi per la vita (life-devices), prodotti del lavoro, opere d’arte, esaltando e trasfigurando il tremito dell’esistenza nel palpito della creazione. Né è sommerso dall’influsso di sostanze, idee, valori, ma sospendendo con attimi di tregua (truce for ‘a while’) la processualità della reazione istintiva, tutto volge a suo vantaggio di “esistenzialità caratterizzata e auto-determinata dal bastione della stabilità assunta all’interno di se stessa” (a distinctive , self-enclosed beingness with the bastion of assumed stability within [himself]). Così, l’intimo senso dell’ attività creatrice dell’uomo si rivela nel trasformare  la lotta della vita in espressione dell’umana esistenza:

 

Human creation ties the final knot of the universal communion of everything-there-is-alive; the axis around which the life and the social world evolve is incarnated in the maxim: everyone his due!” (= La creazione umana stringe il nodo finale della comunione universale di tutto quanto c’è di vivo; l’asse intorno al quale si evolvono la vita e il mondo sociale si incarna nella massima: ad ognuno il suo! )[16].

 

Dalla vita si sprigiona dunque una sistematicità evolutiva e problematica che trova nella condizione umana non solo voce ed espressione, ma anche, e soprattutto, libero sviluppo creativo vale a dire progresso inusitato e imprevedibile: questo è il fatto innovativo della fenomenologia della vita di A.-T. Tymieniecka che, nei primi tre volumi della sua esposizione sistematica,  delinea i nessi tra il logos e la vita a partire dall’assunto per cui,  rispetto a tutte le altre datità, quella dell’uomo all’interno del suo mondo non è semplicemente equiparabile ad un processo-secondo-natura (a process-like nature), ma esprime uno specifico tipo di costruttivismo (CONSTRUCTIVISM).[17] Aprendosi alla prospettiva della condizione umana creatrice, infatti, la coscienza, che si è scoperta a sua volta viva e vitale, si trova ad assistere allo zampillare stesso della vita e insieme ad esserne coinvolta.  Un nuovo contesto si delinea, dunque, per l’indagine filosofica: esorbitante sia rispetto all’antica visione di un cosmo ordinato dall’essere (Being), unico principio ultimo, sempre e ovunque presente e perdurante in qualunque condizione di stasi o di flusso; sia nei confronti della concezione dei moderni, che ricavano i principi ultimi dell’esistente (of what-there-is) dal potere costitutivo-offerente (constitutive-envisioning) della mente umana e dal suo circuito trascendentale di funzionamento. Neppure la messa in gioco di essere (being) e divenire (becoming) insieme, d’altra parte,  è in grado ormai di esaurire la domanda metafisica, che ha raggiunto un grado di profondità estremo. Chi la pone, infatti, non è un vivente tra gli altri, ma è il vivente che sa che l’espansione della sua vita è frutto di individualizzazione esistenziale e perciò non si esaurisce nell’effettuazione di automatismi anonimi, ma è suscettibile di essere significativamente plasmata dalle produzioni simboliche, teoriche e pratiche, cui egli può e vuole dare corso. Come la Tymieniecka preciserà:

 

the creative function guided by its own telos, generates Imaginatio Creatrix in man, as the means, par excellence, of specific human freedom: that is, freedom to go beyond the framework of the life-world, the freedom of man to surpass himself.[18]

(= la funzione creativa, guidata dal telos suo proprio, genera nell’uomo l’Imaginatio Creatrix, quale mezzo par excellence, di libertà specificamente umana: cioè libertà di andare oltre la struttura del mondo-della-vita, la libertà dell’uomo di sorpassare se stesso).

 

Per questo, l’uomo è  portatore dell’esigenza metafisica più radicale: perchè ha bisogno di trovare le ragioni della  “esistenzialità” (beingness), se vuole orientare i propri atti creativi nel senso della positiva realizzazione delle virtualità in suo possesso.

Da un lato, allora, l’essere umano con la sua attività creatrice va incluso, secondo la Tymieniecka, nel processo di poiesis che è proprio della vita, la quale, esplicandosi secondo una costruttività progressiva, conferisce, istante per istante, relativa stabilità a ciò che esiste. Ogni esistenza vivente che esercita le sue funzioni vitali, infatti,  opera l’individualizzazione e la concretizzazione del processo di dispiegamento della vita, introducendovi vettori di interiorizzazione/esteriorizzazione, successione/durata, avanzamento/regresso. Ma, d’altro canto, la progressione evolutiva dei tipi dei viventi individuali raggiunge lo zenith dell’avanzamento nella fase della condizione umana. Nell’uomo i vettori di interiorizzazione/esteriorizzazione della vita assumono ampiezza e significato unici, tanto che gli consentono di “contemplare dall’interno l’esterno” (to survey from within the without) e di sollevare la domanda metafisica ultima: quali sono i definitivi fattori ontopoietici del progresso individualizzante della vita? E quali sono i fattori primi elementari che presiedono all’istaurazione e alla sussistenza della vita?[19]

A partire dalla condizione umana, dunque, una nuova corrente di vita si innesta sul flusso della vita naturale, corredandolo di potenzialità inedite, quali il poter sapere e decidere di sé.   Infatti, l’uomo, che sa esercitare l’attività immaginativa e simbolica, trasfigura conoscitivamente l’intera realtà: ad essa egli può perciò rapportarsi in modo non deterministico ma innovativo,  animando la dinamica produttiva della vita, biologicamente intesa, con il soffio ontopoietico della libera creatività che gli appartiene e che è regolata dal principio dell’essere, all’origine della scala della formazione esistenziale e dei criteri della nostra mente. E’ in forza di tale calibro ontologico che la poiesi umana risulta esistenzialmente costruttiva: esso consente agli atti creativi dell’uomo di conferire alle creazioni quell’indispensabile carattere di forma ‘oggettiva’ umanamente adeguata,  che sola può mantenersi nel corso del divenire dei soggetti individuali, i quali, vivendo, continuamente diventano, per l’appunto, ciò che non sono ancora . Conclude perciò la Tymieniecka:

 

I call it [the becoming of life],  going back to Aristotle’s Poetics, a ‘poietic’ process: onto-poietic. In brief, the self-individualization of life is an ontopoietic process” (= io lo chiamo [il divenire della vita], tornando alla Poetica di Aristotele, un processo ‘poietico’: onto-poietico. In breve, l’auto-individualizzazione della vita è un processo ontopoietico). [20]

 

Se, dunque, la vita produce incessantemente forme sempre più individualizzate in virtù di una poiesi che è conforme all’essere, di tale processo autopoietico vitale-naturale, solo a partire dalla condizione umana liberamente creatrice, si può riconoscere la costruttività ontopoietica, perché esclusivamente a livello umano si pone l’esigenza di orientare all’essere virtualità produttive che possono  anche condurre ad esiti antropologicamente riduttivi e addirittura nichilistici. Così si esprime in proposito la Tymieniecka:

 

The creative act,…, emerges within the human-being-in-conflict, in man rebelling against the interpretation of the  Real that the present phase of the constituted world gives us” (= l’atto creativo,…, emerge all’interno dell’essere-umano-in-conflitto, nell’uomo che si ribella contro l’interpretazione del Reale, che la fase presente del mondo costituito ci offre). [21]

 

Aggiungendo inoltre:

 

Thus, man’s elementary condition – the same one which Husserl and Ingarden have attempted in vain to break through to, by stretching the expanse of his intentional bonds as well as by having recourse to prereduced scientific data – appears to be one of blind nature’s elements, and yet at the same time, this element shows itself to have virtualities for individualization at the vital level and, what is more, for a specifically human individualization. These latter virtualities we could label the ‘subliminal spontaneity” (= Dunque, la condizione elementare dell’uomo – la stessa attraverso la quale Husserl e Ingarden hanno tentato invano di aprirsi un varco, estendendo l’espansione dei suoi nessi intenzionali e insieme ricorrendo ai dati scientifici ante-riduzione – appare essere costituita dall’ elemento cieco della natura, eppure nello stesso tempo, tale elemento mostra di avere virtualità per l’individualizzazione a livello vitale e, ciò che è  più importante, per una individualizzazione specificamente umana. Tali ultime virtualità potremmo denominarle “spontaneità subliminale”).[22]

 

Tuttavia, la conoscenza (cognition) e la rete intenzionale delle sue manifestazioni più elevate non sanno  condurci a scoprire l’origine dell’ordine che l’uomo prescrive al mondo-della-vita e al suo mondo sociale, se non vengono integrate con le modalità essenziali con cui l’essere umano  delinea la messa-in-atto (enactment) del corso della vita e la pone in atto (enacts). Il fattore-guida del progresso della vita sta, infatti, nella sua messa in atto: per tale enaction anche la conoscenza è progettata e, anzi, all’esecuzione (performance) di essa sono funzionalizzati i principi della stessa emersione cognitiva e della sua natura.  Nella realtà dell’esperienza, del resto, non c’è soluzione di continuità fra le due serie operative e mentre determina il corso della sua vita, formulando e mettendo in atto reazioni, deliberazioni, selezioni, scelte, invenzioni immaginative, pianificazione ecc.,  l’individuo umano realizza la sua auto-interpretazione-nell’esistenza, mescolando l’uso dell’apparato di messa-in-atto della vita e quello della conoscenza,  all’unico scopo di compiere il suo lavoro essenziale: istaurare, nella vita, un significato (in the essential work of life-meaning establishment)[23]. Si rivela così che l’atto creativo dell’uomo è il prototipo dell’azione capace di innescare il progresso della vita: come in un dispositivo cruciale, vi si radicano tanto la messa-in-atto della vita quanto la funzione cognitiva dell’essere umano e

 

the entire span of man’s questioning emerges  in its full extent with a pristine appearance in which all the lines of life’s assumed progress gather in order to receive their significance” (= l’intera ampiezza  dell’umano domandare vi emerge nella sua piena estensione con una sembianza intatta, nella quale tutte le linee del presunto progresso della vita  si riuniscono per ricevere il loro senso).[24]

 

Da tale incessante attualità si sviluppa lo sguardo metafisico o contemplativo, come una forma della creatività propria della condizione umana che non ingabbia la vita ma anzi la potenzia, accettando essa stessa di essere in trasformazione e di acquistare continua consapevolezza del suo essere parte propulsiva  della multiformità dello spettacolo della vita. Per questo, nella nuova metafisica dinamica, esposta nel sorprendente IV volume di Logos and Life, non si utilizza principalmente la speculazione come hanno fatto gli antichi cercatori del logos, Eraclito e gli Stoici, anche se l’ascesa al primo principio dell’ordine universale è sempre impresa speculativa. Piuttosto, si procede impostando via via congetture su ciò che ha condotto all’essere del logos, che si ritrova già posizionato all’interno del gigantesco schema dinamico della realtà. La  congettura, infatti, porta con sé  anche l’ essenziale punto d’appoggio del suo montare, quell’istanza del logos in cui la sua destinazione viene anticipata (= In the conjecture itself is contained an essential element of the foothold of its surging, a logoic instance, as well as anticipation of the answer point of logoic destination, p. xxiv). Nel contesto della fenomenologia della vita, vale a dire, il logos metafisico non è  postulato come la risposta alle molte domande che il mondo e il cosmo e l’enigmatica natura dell’essere umano portano avanti, ovvero

 

“come risposta che cela tutte le risposte concrete, saltando oltre sulle ali della mente umana, che vola verso il suo limite” (as an answer that hides all concretes answers, jumping on the wings of the human mind as it flies to its limit).[25]

 

 

Si preferisce seguire la rete dinamica e persino flessibile delle strategie che il logos via via

formula, esprimendosi secondo la sua natura di “ragione di tutte le ragioni” (=reason of all reasons, p. xxxiv), perché  anche il logos partecipa della categoria di “costruttività” che appartiene  qui all’intero universo, animato e inanimato, naturale e umano. Addirittura, questa meta-ontopoiesi, in cui l’antica metafisica speculativa è trasfigurata, tanto poco appare sovrapposta estrinsecamente al fluire vitale che anzi risulta esigita dalla vita stessa, nella misura in cui quest’ultima ha maturato il livello della condizione umana creatrice. Lo sguardo teoretico sulla realtà, sull’essere umano, sulle aspirazioni e sui limiti dell’impresa umana, accompagna, infatti, come bisogno di comprendere il tutto, ogni impegno della mente con il reale, dalla nascita alla morte. L’urgenza filosofica presiede ogni nostro introdurre differenze tra le cose, ogni conoscerle e costituirle in idee e valori e  se la mente si volge all’indietro nel suo ritmo sintetico (= in a reverse turn of the mind in its synthetic swing, p. xxix), il discernimento appare fissato nella trama delle modalità individuali di esperienza .

 Tuttavia, la radicale ricomposizione dell’orientamento trova espressione solo in una filosofia esplicita, in cui dopo aver perseguito la sua opera (work) costruttiva e cognitiva per la propagazione della vita, il logos si volge alla scoperta e all’esame del suo proprio operare (working). In parte ciò accade anche nel corso dell’esplorazione e della riflessione scientifica, sia esaminando il lavoro di costituzione compiuto nella fondazione della manifestazione del mondo, della natura, della vita  sia recuperandolo di nuovo originalmente nelle modalità inventive/cognitive del logos. Solo la filosofia però comporta per il logos inquisitore della mente umana quella svolta radicale , quel consapevole slittamento “meta-aletico”  della sua ricerca, (after “truth”). In ciò il logos dionisiaco si concentra nella comprensione del tutto, si eleva al di sopra di quanto è singolare, specifico e concreto e, dopo averne colto il ritmo differente, ne trova il senso. La filosofia implicata in questa ricerca diventa il segugio (the hound) di ogni conoscenza e la mente, mentre si applica a scoprire un principio unificante, produce nessi unificanti che danno forma a un “grande piano” della vita (p. xxx).    La “primalità” (“firstness”) ontopoietica  della vita emerge così nella sua portata metafisica,  nei modi dell’umano coinvolgimento funzionale nell’ambito vitale.  La datità (Giveness)   rimane l’obiettivo diretto del nostro conoscere/costituire, ma essa si manifesta ora altresì come “l’interna datità del progresso della vita comune ad ogni essere vivente in quanto tale” (the inward giveness of the life progress common to all living being as such): possiamo dunque aspettarci

 

“di districare e afferrare i tipi della vita solo nell’intuizione diretta, immediata del costruttivismo della vita e della sua coincidenza con il nostro costruttivismo creativo” (= it is only in a direct, immediate insight into the constructivism of life and its coincidence with our own creative constructivism that we may expect to disentangle and grasp life’s patterns).[26]

 

A conclusione dell’esposizione del libro IV di Logos and Life, il logos si mostra nella vita e vi agisce  da corifeo (choragus), fondando la possibilità di una philosophia davvero perennis perché incessantemente esercitata: il logos che sta nella vita, infatti, non imita, porta con sé i suoi modelli, improvvisa nella danza ciascuna figura,  il suo ritmo e tempo, guida la danza e l’annuncia. Si raggiunge qui il limite trascendentale del “nostro logos umano di interrogazione” (= our transcendental, that is, human logos of interrogation): siamo circondati dallo spettacolo e dal suo specchio, partecipando ad entrambi e ad altre infinite prospettive. E il volume si conclude proprio aprendo, con la frase che segue, una fuga di rappresentazioni filosofiche:

 

“Questo meravigliarsi meta-ontopoietico di fronte all’enigma del Logos, risposta al Tutto, potrebbe esigere una chiave ancora differente per penetrare i suoi misteri” (=This meta-ontopoietic marveling at the enigmas of the Logos, answer to All, might call for a still different key in which to unravel its mysteries).[27]

 



[1] ID., Logos and Life. Impetus and Equipoise in the Life-Strategies of Reason, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht/Boston/London 2000, pp. viii-xxxvii, 1-684.

[2] Ibid., p. 6.

[3] Ibid., p. 15.

[4] E’ appena il caso di segnalare l’importanza della differenza terminologica che separa A.-T. Tymieniecka da Husserl nella trattazione del tema della “corporeità”. Husserl, infatti, tanto in Ideen II e III, quanto nelle Méditations Cartésiennes, formalizza l’uso fenomenologico del sostantivo Leib (=corpo-vivente-proprio), distinguendolo dal Körper delle scienze fisiche. La Tymieniecka invece ritiene di potersi spingere più in profondità nella descrizione della esperienza della corporeità e utilizza il vissuto coscienziale corporeo come tramite per l’esperienza del corpo.  

[5] ID., Die Phänomenologische Selstbesinnung, in: Analecta Husserliana I (1971), pp. 2-3.

[6] ID., Tractatus Brevis. First Principles of the Methaphysics of Life Charting the Human Condition: Man’s Creative Act and the Origin of Rationalities, in Analecta Husserliana, XXI (1986), p. 3.  A.-T. Tymieniecka chiama in causa i seguenti contributi specialistici: H. EY, La Conscience, P.U.F., Paris, 1963; G. LANTERI-LAURA, Les problèmes de l’inconscient et la pensée phénoménologique, in: L’inconscient, Desclée de Brouwer, 1966; H. AZIMA, Problèmes biophysique de la conscience, 1954; Cl. BLANC, Conscience et inconscient dans la pensée neurobiologique actuelle, 1966. Sull’indirizzo fenomenologico in psichiatria ci si può rifare a E. W. STRAUS, Phenomenological Psychology (tr. inglese parziale di E. Eng), Basic Books, New York  1966; M. ROSSI  MONTI, Psichiatria e Fenomenologia, Loescher, Torino 1978. Inoltre: E. ENG, Constitution and Intentionality  in Psychosis, in: Analecta Husserliana, III (1974), pp. 279-289; B. CALLIERI, The Experience of Sexual ‘Liebe’in the Toxicomaniac. Phenomenological Premises, in: Analecta Husserliana, XVI (1983), pp. 211-216. Oggi si potrebbe forse utilizzare la documentazione proveniente dalle neuroscienze. Alcuni testi del genere, appena usciti sul mercato italiano, confermano l’importanza della dimensione corporea per lo sviluppo del pensiero cosciente: G. M. EDELMAN-G. TONONI, Un universo di coscienza, Einaudi, Torino 2000 e A. DAMASIO, Emozione e coscienza, Adelphi, Milano 2000. Cfr. anche: J. PIGEAUD, La maladie de l’âme, Paris 1981; H. GARDNER, The Mind’s New Science (1985), tr. it., La nuova scienza della mente. Storia della rivoluzione cognitiva, Feltrinelli, Milano 1985; J. KRISTEVA, Les nouvelles maladies de l’âme, Fayard, Paris 1993; D. GOLEMAN, Emotional Intelligence (1995), tr. it. , Intelligenza emotiva, Rizzoli, Milano 1996.  

[7] ID., Tractatus Brevis , cit., pp. 1-73.

[8] ID., Logos and Life: Creative Experience and the Critique of Reason, Book 1, Analecta Husserliana,  XXIV (1988), p. 20.

[9] Nella serie di Analecta Husserliana sono particolarmente dedicati all’ argomento della “human condition” i volumi XIV (1981), The Phenomenology of Man and of the Human Condition e XVII  (1984), Phenomenology of Life and of Human Condition, in a Dialogue between Occidental and Chinese Philosophies. Va sottolineato il taglio particolare con cui la Tymieniecka coglie la condizione umana: quest’ultima dipende rigorosamente dall’avvenuto recupero coscienziale del  “vissuto corporeo naturale” e perciò esprime soprattutto il nesso, strettissimo e indissolubile, che nell’uomo unisce la coscienza alle funzioni e agli automatismi psico-fisici del corpo. La condizione umana rappresenta, nella riflessione di A.-T. Tymieniecka, il livello più avanzato della fenomenologia della vita e non va identificata ricorrendo agli elementi della cosmologia degli antichi, come fa H. Arendt,  sulla scorta di Heidegger, quando così si esprime: “La terra è la vera quintessenza della condizione umana, e la natura terrestre, per quanto ne sappiamo, è l’unica nell’universo che possa provvedere gli esseri umani di un habitat in cui muoversi e respirare senza sforzo e senza artificio” (H. ARENDT, The Human Condition, The University of Chicago, U.S.A. 1958. Tr. it. di S. Finzi, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1998, p. 2. Cfr. anche dall’ Introduzione di A. Dal Lago, La città perduta: p. XXV e nota  (62) di p. XXXII).

[10] A.-T. TYMIENIECKA, Tractatus Brevis, cit., p. 10.

[11] Ibid., p.11. Il motivo del “vortice” richiama immediatamente quella specie di Wirbeltheorie che Scheler enuncia in poche righe di Wesen und Formen der  Sympathie (Gesammelte Werke, 7, p. 240; tr. it. a cura di L. Pusci, Essenza e forme della simpatia, Roma, 1980, p. 347) per tentare di superare il solipsismo egologico husserliano, incapace, a suo giudizio, di dar conto della realtà dell’altro in generale (ibid., pp. 221-222; tr. it., pp. 322-323). Esso si collega inoltre ad una lunga e ricca tradizione, essendo un topos metafisico comune tanto al personalismo più recente (Maine de Biran, Renouvier, Blondel, Mounier), quanto alla fisica antica (Anassagora, Democrito, Epicuro) e alla metafisica moderna (Cartesio, Principia philosophiae) . Anche Teilhard de Chardin, nel saggio L’hominisation del 1925, per spiegare il sorgere del livello umano dell’evoluzione, usa l’immagine del vortice, quale analogia geometrica della generazione della figura solida del cono dalla rotazione di un triangolo rettangolo intorno ad un cateto. Cfr.: D. VERDUCCI, Il percorso dell’analisi dell’intersoggettività in Max Scheler, in: Figure dell’intersoggettività, a cura di G. Ferretti, “Quaderni di ricerca e didattica” del Dipartimento di Filosofia e Scienze Umane dell’Università di Macerata, X (1994), pp. 27-46.

[12] A.-T. TYMIENIECKA, Eros et Logos. Esquisse de phénoménologie de l’intériorité créatrice, illustrée par le textes poétiques de Paul Valéry, Louvain, Paris: Nauwelaerts,1972, p. 112.

[13] A.-T. TYMIENIECKA, Tractatus Brevis, cit., p. 11.

[14] Ibid., p. 12.

[15] Ibid., p. 13.

[16] Ibid., p. 17.

[17] Il sistema di pensiero di A.-T. Tymieniecka, nella sua esposizione organica, occupa tre volumi di Analecta Husserliana: ID., Logos and Life: Creative Experience and the Critique of Reason, Book 1, Analecta Husserliana,  XXIV (1988); ID., Logos and Life: The Three Movements of the Soul, Book 2, Analecta Husserliana, XXV (1988); ID., Logos and Life: The Passions of Soul and the Elements in the Onto-Poiesis of Culture, Book 3, Analecta Husserliana , XXVIII (1990).  Il quarto della serie, Impetus and Equipoise in the Life-Strategies of Reason, è comparso in volume autonomo, nel 2000.

[18] ID., Logos and Life: Creative Experience and the Critique of Reason, cit., pp. 25-26.

[19] ID., Logos and Life: the Passions of the Soul and the Elements in the Onto-poiesis of Culture, Book 3, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht, 1990, pp. 9-10. Il testo compare anche come Tractatus Brevis in Analecta Husserliana, XXVIII (1990).

[20] M. KRONEGGER and A.-T. TYMIENIECKA (eds.), Life. The Human Quest for an Ideal, in: Analecta Husserliana, XLIX (1996), p. 15. Così suona il testo: “’Onto-’ refers here to the ‘firstness’ of this process with respect to the scale of existential formation. Before this schema’s articulations there is no beingness that we may ascertain with the criteria of our minds – which are attuned precisely to this and no other reality. ‘Onto-’ here also means the indispensable and universal character of whatever there could be in the ‘objective’ form proper to human reality in the sense of the classical metaphysics of  ‘onto-’ logos, that is, ontology. However, and this is of crucial significance  for the understanding of our vision, this indispensable essential factor of all beingness does not concern beingness in its finished, formed, estabilished or stabilized state; it is the intrinsic factor of the constructive process of individual becoming. The individual remains always in the process of becoming. It acquires form and transforms it. ‘Becoming’ is ‘becoming something that is not yet’ Becoming is a process in its own advance, in qualification”.

[21] ID., Logos and Life: Creative Experience and the Critique of Reason, cit., p. 26.

[22] Ibid., p. 28.

[23] Anche R. Eucken  esortò i suoi contemporanei a lottare per lo scopo di conferire un senso alla vita, cfr.: R. EUCKEN, Der Kampf um einen geistigen Lebensinhalt, Lipsia, 1899, ma il suo appello rimase quasi del tutto inascoltato. Solo Max Scheler, suo allievo a Jena, dichiarò di aver tratto da quell’opera lo spunto per il saggio del 1899, Arbeit und Ethik (Gesammelte Werke 1, “Frühe Scriften”, 1971, pp. 161-197; tr. it. a cura di D. Verducci, Lavoro ed Etica. Saggio di Filosofia Pratica, Città Nuova Editrice, Roma 1997), dal quale prende avvio la sua riflessione sul lavoro.

[24] ID., Logos and Life: Creative Experience and the Critique of Reason, cit., p. 7.

[25] A.-T. TYMIENIECKA, Impetus and Equipoise in the Life-Strategies of Reason, cit., p. xxxiii.

[26] Ibid., pp. 4-5.

[27] Ibid., p. 664.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

EMPATIA E AMICIZIA IN FENOMENOLOGIA

 

Incontro-dibattito svolto nell’Università di Bari il giorno 1-02-02

da ANGELA ALES BELLO

Promosso dalla cattedra di Filosofia teoretica II (Luigia Di Pinto)

 

 

     Condurrò quest’analisi sotto forma seminariale perché mi sembra importante mettere in evidenza alcuni aspetti che riguardano il pensiero della Stein movendo dalle sue lettere e dai suoi libri. Vorrei cominciare con un confronto fra le lettere inviate a Roman Ingarden e due testi della Stein che rimandano al tema che sto per trattare e che si articola in due momenti: empatia e amicizia.

    Le lettere che sto per analizzare, pubblicate ora in traduzione italiana (Lettere a Roman Ingarden, a cura di A. Ales Bello, trad. it. di E. Costantini e E. Schulz, revisione e integrazione di A.M. Pezzella, Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001) naturalmente non hanno un carattere strettamente filosofico, non possono essere considerate un testo di filosofia. Presentano, tuttavia, riferimenti molto importanti a questioni filosofiche. Cercherò, pertanto, di leggere queste lettere riandando alle opere filosofiche della Stein.

    Empatia ed amicizia possono ricondurci a due momenti della ricerca della Stein: il primo riguarda il testo intitolato Il problema dell’empatia; il secondo riguarda Psicologia e scienze dello spirito. Questi due libri contengono significativi aspetti teorici sul tema dell’empatia e sul tema dell’amore-amicizia. Farò, pertanto, una lettura di due punti di questi due testi, per mostrare come nelle lettere si concretizza  la prospettiva teoretica in essi contenuta.

    Innanzitutto vorrei ricordare che nell’ambito della fenomenologia si parte sempre dal basso. Questa era un’idea che Husserl aveva proposto e che i suoi discepoli continuano a ritenere valida. È un aspetto realistico e sui generis della fenomenologia stessa: partire dal basso. Cosa vuol dire partire dal basso? Vuol dire partire dalla nostra esperienza umana, quotidiana, che non viene accettata però semplicemente come un’esperienza spontanea e acritica, bensì come un’esperienza da sottoporre ad indagine e analisi. Movendo da quest’analisi essenziale della nostra esperienza possiamo ricavare il significato più largamente antropologico dell’essere umano. È questo uno degli obiettivi che la Stein si prefigge e non solo lei all’interno della scuola fenomenologica, ma soprattutto lei.

     Ciò premesso, ci accingiamo ad esaminare il termine empatia. È un termine usato e abusato. È un termine usato nel nostro tempo, anche molto, nell’ambiente della psicologia e della psicopatologia. C’è una convergenza di ricerche intorno a questo tema. Cercherò di chiarire cosa significhi da un punto di vista più strettamente fenomenologico, quello proprio della scuola husserliana, perché la Stein segue accuratamente le indicazioni del maestro. Lo farò attraverso la lettura delle opere della Stein. Questo consentirà una prima considerazione: la scoperta geniale di Husserl è che all’interno dell’essere umano sono riscontrabili alcuni atti, alcune strutture, che lo caratterizzano. Tali atti vengono da Husserl chiamati vissuti. Possiamo esaminare questi vissuti nella loro caratteristica peculiare. Potrebbero essere per esempio i vissuti della percezione, del ricordo, dell’immaginazione e così via. Tra questi vissuti ce n’è uno che normalmente non viene posto in evidenza e che invece noi dobbiamo tirare fuori, scoprire attraverso l’analisi: è   il vissuto dell’empatia.

     Nella sua dissertazione di laurea la Stein comincia ad analizzare in maniera specifica proprio questo vissuto, facendo un paragone con altri vissuti e cercando di mettere in evidenza comparativamente qual è la qualità dei diversi vissuti, soprattutto del vissuto empatico. Questo consente di cogliere ciò che caratterizza tale atto. Lasciamo pertanto da parte il termine vissuto, che è un tentativo di tradurre il termine Erlebnis, intraducibile nella nostra lingua. Usiamo invece l’espressione: ciò che è da noi vissuto (brevemente detto vissuto) per indicare ciò che caratterizza l’essere umano. L’empatia è uno di questi vissuti che consente immediatamente di metterci in relazione con l’altro essere umano distinguendolo nella sua peculiarità rispetto agli oggetti fisici e ad altre cose che incontriamo nel mondo. Con l’empatia è possibile cogliere intuitivamente, immediatamente,  che ci troviamo di fronte a esseri umani che sono come noi e nel contempo altri da noi, perché sono caratterizzati da un corpo vivente. Un corpo che vive, che ha sue strutture istintive, spirituali, che dapprima possiamo cogliere immediatamente nella globalità. Solo dopo potremo analizzare il vissuto empatico. Quest’ultimo è uno di quei vissuti che consente di uscire da noi stessi e cogliere l’altro soggetto umano, che a sua volta ha capacità di empatizzare.

     Se leggiamo Il problema dell’empatia della Stein in questa direzione, capiamo che cosa vuol dire tutto ciò. Scrive a p.79 nella sua tesi di dissertazione:«Il soggetto del vissuto empatizzato, però, non è lo stesso che compie l’atto dell’empatizzare». Ecco la dualità che qui si propone immediatamente: chi empatizza e chi è empatizzato. «Il soggetto del vissuto empatizzato è un fatto assolutamente nuovo rispetto al ricordare, all’attendere, al fantasticare i propri vissuti- dal momento che i due soggetti sono reciprocamente separati, non collegati come nell’altro caso come attraverso una coscienza di identità, una continuità nei vissuti». Qui la Stein vuole stabilire comparativamente la differenza ad esempio tra il ricordare, l’attendere, il fantasticare e l’empatizzare. Mentre nel caso del ricordare, dell’attendere e del fantasticare questa dualità non appare, nel caso dell’empatia invece è immediatamente evidente che  siamo rivolti intenzionalmente verso qualcosa che è altro. Il termine altro è molto importante perché corrisponde al termine alter ego che Husserl aveva sempre usato e che continuerà sempre ad usare. Quest’alterità è l’alterità dell’umanità dell’altro. Un esempio: mentre vivo la gioia provata da un altro, l’empatia consente in qualche modo di vivere ciò che l’altro sta vivendo (la gioia). Ma mentre io vivo la gioia provata da un altro, non avverto alcuna gioia originaria. Essa non scaturisce in maniera viva dal mio io. Ecco come si coglie l’alterità. La gioia dell’altro scaturisce dall’altro. E quindi non ha un carattere di originarietà: io capisco che l’altro la sta vivendo. È l’altro colui che prova in maniera viva l’originarietà. Sta vivendo la sua gioia ed io capisco che sta vivendo la sua gioia, anche se paradossalmente in quel momento posso essere molto triste. La mia tristezza rimane un fatto personale che non oscura (qualche volta in casi patologici può anche oscurare) il fatto che nell’altro posso cogliere un sentimento completamente diverso: quello della gioia. È questa la comprensione profonda che si stabilisce fra esseri umani. C’è una definizione molto importante che sintetizza questo punto di vista della Stein. «Nella mia esperienza vissuta non-originaria, io mi sento accompagnato da un’esperienza vissuta originaria, la quale non è stata vissuta da me». Originario vuol dire che l’altro sta vivendo qualcosa originariamente, qualcosa che io non vivo eppure comprendo, nonostante io non viva questa situazione. Ciò nonostante il suo vissuto «si annunzia in me –dice la Stein- manifestandosi nella mia esperienza vissuta non originaria». La sua gioia non è vissuta originariamente da me eppure la comprendo. Comprendo che la gioia che l’altro sta vivendo è vissuta dall’altro originariamente.

    Attraverso quest’analisi la Stein mette in risalto i limiti e le possibilità dell’empatia. Si tratta di un punto molto importante. Non dobbiamo infatti confondere l’empatia con la simpatia, che è tutta un’altra cosa, né con l’antipatia. L’empatia è una comprensione fondamentale, intuitiva e reciproca. Quali sono le possibilità che scaturiscono da ciascun atto di empatia? Una prima possibilità è data dal fatto che mi rendo conto di quello che l’altro sta vivendo. Quali sono i limiti? Non vivrò mai ciò che l’altro sta vivendo in prima persona. Questo stabilisce anche una situazione di fatto: noi non possiamo identificarci con gli altri. Se siamo di fronte ad altri, siamo sempre due, siamo tre, siamo cinque, siamo tanti. Il fatto di essere una pluralità non impedisce una comunicazione. La comunicazione avviene ad un livello di comprensione che resta sempre distinta dalla vita vissuta nella sua radicalità. Infatti se vivessimo reciprocamente con la stessa radicalità saremmo uno e non due, tre. Questa è una constatazione. L’analisi della Stein consegue ad un fatto che noi dapprima viviamo e  solo successivamente viene evidenziato, come stiamo notando, nelle sue strutture essenziali. Perché è molto importante l’aspetto teorico di questa convivenza? La Stein risponde:«In tal modo noi perveniamo per mezzo dell’empatia ad una specie di atti esperienziali sui generis». Sono atti molto diversi dall’atto dell’immaginare, del percepire e così via.

    Abbiamo visto fin qui limiti e possibilità dell’empatia. Ma questo non significa che noi stabiliamo sempre – riconoscendo l’alterità - rapporti positivi con l’altro. Non significa neppure che riusciamo sempre a comprendere fino in fondo l’altro. Ci sono anche degli errori dell’empatia. Inoltre non possiamo dimenticare che l’empatia passa anche attraverso la modalità che l’altro manifesta nella sua corporeità. Un esempio quotidiano: se qualcuno ride noi pensiamo che sia felice. Ci sono alcune espressioni che ci fanno cogliere secondo noi un aspetto di felicità o di gioia, ma non sappiamo mai veramente se quel riso è autentico o meno. Dentro ci può essere un grande dolore che è nascosto. Come possiamo scoprire se ci siamo ingannati o meno? Con un’analisi molto lunga, con un contatto con l’altro molto lungo, con un conoscerlo in situazioni diverse, con l’esaminare tutta la sua realtà nella sua complessità. C’è anche la possibilità che forse non riusciremo mai a comprenderlo. Potremo comprendere alcuni aspetti della sua personalità, ma forse in fondo l’altro rimane sempre un mistero per noi e questo salva l’individualità.

    Tale difficoltà è ben descritta proprio nelle lettere. Possiamo dunque ora ripercorrere le lettere per vedere come la difficoltà nell’empatizzare si configura in un concreto rapporto: quello fra Edith Stein e Roman Ingarden. Queste due figure sono molto significative perché consentono di capire come all’interno della scuola husserliana ci fosse una pluralità di presenze di discepoli che venivano anche da altri contesti culturali europei e stranieri. Molti erano attirati dall’analisi fenomenologica di Husserl. In particolare notiamo tra loro questo giovane filosofo polacco che studia a Friburgo per un certo periodo insieme alla Stein e poi torna in Polonia e qui prosegue la sua carriera universitaria: è Roman Ingarden. La Stein stabilisce con lui a Friburgo un’amicizia profonda. Forse da qualche lettera possiamo anche intravedere un’amicizia che sfiora l’amore fra due esseri umani. In una prima fase, legata soprattutto all’anno 1917, sembra infatti che si stabilisca fra loro (noi abbiamo le lettere della Stein non abbiamo le lettere di Ingarden) un’intesa profonda. Come agisce l’empatia in questo caso? Si manifesta come riconoscimento dell’alterità, ma anche come tentativo di capire che cosa l’altro sta vivendo. Ecco lo sforzo ulteriore richiesto dal punto di vista empatico. In questa prima fase del rapporto l’empatia è un primo momento di coglimento dell’altro. Ma poi possiamo anche cercare di capire veramente quello che l’altro sta vivendo. C’è un punto, sempre nella dissertazione di laurea della Stein, che illumina bene questa nostra possibilità. Leggo la p. 78 della tr. it. di Elio Costantini: «Io ho dinanzi [l’altro] come oggetto [come posso avere una sedia, un tavolo] mentre però mi rivolgo alle tendenze in esso implicite e cerco di portare a datità più chiara lo stato d’animo in cui l’altro si trova [cerco di fare questo e quindi l’altro non è un oggetto come la sedia, cerco di capire che cosa sta succedendo nell’altro] quel vissuto non è più oggetto […] dal momento che mi ha attratta dentro di sé». Come possiamo constatare, qui la Stein usa una parola che però non ha per lei un significato stretto. Dice addirittura: «immedesimandomi». Per la Stein immedesimazione non significa infatti che io posso concretamente immedesimarmi nell’altro fino in fondo e vivere ciò che l’altro sta vivendo. Posso fare tuttavia senz’altro uno sforzo di comprensione dello stato d’animo altrui: mettermi dal punto di vista dell’altro per quanto possibile. Il limite sta nel fatto che ciò non è possibile radicalmente. Ci può essere tuttavia questo sforzo ogni qualvolta «sono rivolto al suo oggetto, allo stato d’animo altrui, sono presso il suo soggetto», ogni qualvolta mi sforzo di essere al suo posto.

     Nelle lettere del 1917 sembra che si stabilisca fra Edith Stein e Roman Ingarden questo tipo di coglimento reciproco dello stato d’animo, un tentativo di entrare dentro l’altro accogliendolo. L’empatia si concretizza in questa prima fase come uno dei temi forti dell’amore umano, l’amore che ci può essere tra un uomo e una donna. Un altro esempio di amore umano è quello tra genitori e figli. Una delle lettere che testimonia l’empatia in questa forma di amore umano è per esempio la lettera numero 3 (Friburgo, 28 gennaio 1917) tradotta a p. 28.

    La Stein e Ingarden si rivolgono reciprocamente usando il “lei” sempre, tranne che in una lettera fra quelle che abbiamo conservate da Ingarden. Può darsi che ve ne siano delle altre ma noi non ne siamo a conoscenza. Sappiamo che i tedeschi tendono ad usare il “lei” molto formalmente anche ai nostri giorni. Il tu è un fatto assolutamente personale e privato legato soltanto all’amicizia o ai rapporti di parentela profondi. Questa è una caratteristica della mentalità tedesca. In Italia tra colleghi ci diamo del tu tranquillamente, ma ancora oggi nel mondo tedesco non è così. Non è una cosa che deve stupire. Proprio per questo Edith scrive: «Sono molto contenta che anche Lei guardi al futuro con ottimismo. È un risultato che ho sempre sperato dal Suo rientro in patria». Ingarden era stato molto poco a Friburgo ed era tornato in Polonia. «Del resto Lei conosce la mia fede nel futuro. E anche se talvolta sono stanca da morire e a stento riesco a sopportare il peso delle situazioni presenti, non permetto che questi stati d’animo abbiano il sopravvento e spero che tempi migliori mi rendano nuovamente le mie antiche energie vitali». Vediamo qui un chiaro tentativo di parlare di una situazione propria, profondamente vissuta.

    Passiamo ora alla p. 43, lettera numero 9 (Friburgo, 20 febbraio 1917), dove troviamo un riferimento interessante. Siamo sempre nel 1917. Solitamente attribuiamo la cosiddetta “conversione” della Stein –perché ufficialmente è così- al 1920-’21. Leggiamo però con attenzione cosa scrive la Stein in questa lettera del 1917, molto importante per capire la sua maturità religiosa. «Sono molto contenta che Lei si sia imbattuto in problemi religiosi». Ingarden era cattolico, però dalle lettere appare che il suo cattolicesimo non era vissuto in maniera forte. Aveva certamente un interesse per i problemi religiosi ma, andando avanti, si vede che questo diventa motivo di contrasto, di allontanamento. Per cogliere un altro motivo di allontanamento, leggiamo un’altra lettera: «Allora penso che i suoi capelli non si siano rizzati troppo per la metafisica di cui era impregnata la mia ultima lettera». Qui metafisica non ha un significato filosofico ma è in riferimento alla teoria della persona che, per la Stein, è impossibile da elaborare senza occuparsi dei problemi di Dio. Inoltre senza una teoria della persona «è impossibile comprendere che cosa sia la storia. Non appena avrò terminato con le Idee, vorrei approfondire tali questioni. Sono problemi che mi interessano. Forse lo farò quando Lei ritornerà». Quest’ultimo è un motivo ricorrente nell’epistolario Stein-Ingarden: l’essere umano che sta lontano può essere empatizzato anche attraverso la scrittura, attraverso una lettera. Però il contatto vivo, personale, è molto importante. Quasi in ogni lettera la Stein dice “Spero che Lei torni” oppure “Spero di poter parlare direttamente, di vedere, di cogliere sul suo volto i suoi sentimenti”. E ancora: “Potremo leggere insieme Agostino”. Nel 1917 desidera leggere Agostino insieme a Ingarden e sembra che proprio in questa prima fase del loro rapporto Ingarden accolga l’invito, sia disponibile ad empatizzare con lei nella lettura di S. Agostino, che ci sia una correlazione profonda che caratterizza gli stati d’animo di entrambi.

    Tuttavia pian piano notiamo una sorta di allontanamento da parte di Ingarden, non da parte della Stein che sarà sempre vicina all’amico anche quando questo sentimento d’amore si trasformerà in lei a causa di tale allontanamento. Ci sono molte lettere significative in questa direzione che indicano –dal punto di vista dell’empatia che qui c’interessa- una difficoltà sempre crescente da parte di Ingarden nel comprendere il contenuto di ciò che Edith vive. Nella lettera numero 32 (Friburgo, 12 maggio 1918), tradotta a p. 91, Edith dice: «Dopo avervi riflettuto in modo approfondito, la mia cartolina di stamane non mi sembra sufficiente. Non desidero affatto che tra di noi rimangano incomprensioni –proprio perché, presumibilmente, non ci vedremo né parleremo tanto presto e poiché chiaramente la lettera che ho scritto da Gottinga si è persa- voglio ancora cercare di farLe capire il motivo per cui non Le invio mie notizie da così lungo tempo. Guardi, tutte le Sue lettere dopo la nostra separazione (eccezion fatta per la prima che mi ha scritto a Gottinga) sono stranamente vuote e denotano un’assenza di partecipazione interiore, così come accade quando non si scrive per bisogno ma per dovere. Direi che sono ipersensibile sotto questo aspetto –sono molto critica rispetto a tali impressioni- se non avessi fatto un confronto con le Sue lettere dell’anno scorso, che mi facevano partecipare veramente alla Sua vita e se non mi potessi appellare al Suo sentimento: ogni volta, infatti, ha aggiunto che avrebbe voluto fornire più particolari se avesse avuto tempo. Non pensi che La rimproveri. Capirei benissimo se Lei avesse perso la Sua spontaneità nei miei confronti della qual cosa sarei colpevole io sola». Questa lettera mostra chiaramente una crescente difficoltà da parte di Ingarden nel riuscire a mantenere un rapporto. Chi è colpevole di ciò? La Stein non attribuisce mai la colpa all’altro, ma preferisce dire piuttosto: “É colpa mia forse”. Le lettere denotano tuttavia con chiarezza che Ingarden col trascorrere dei mesi scrive per dovere e non più perché vuole cogliere a sua volta lo stato d’animo della Stein.

     Passiamo ora alla lettera numero 33 (Friburgo, 17 maggio 1918) in cui Edith dice: «Oggi ho ricevuto la Sua lettera del giorno 3 e la cartolina con data 11 maggio». Sembrerebbe che il collegamento tra i due sia stato subito ripristinato, nonostante le difficoltà pratiche. Sono infatti gli anni di conclusione della prima guerra mondiale. C’è una rigorosa censura poliziesca e in molte lettere appaiono precisi riferimenti a questa difficile situazione. «Per contro sembra che Lei abbia risposto ad una lettera diversa da quella che ho scritto; è come se ogni frase (che riguarda fatti concreti) si basi su un malinteso. Che cosa Lei abbia considerato come espressione di una furia tenuta a freno, è per me assolutamente enigmatico, poiché in me non c’è mai stato nulla del genere, né contro il mondo in genere, né contro di Lei in particolare; ancor meno contro la mia persona che è ancora più vicina. Inoltre, non ho mai preteso da Lei che fosse tranquillo e felice, forse sono persino andata fin troppo oltre il dovuto partecipando allo stato d’animo che La domina. Dall’altro lato è un errore, se Lei crede che da noi [in Germania] sia tutto tranquillo e felice». Questo è un atteggiamento ricorrente nella Stein. Da un lato c’è un tentativo di stabilire un rapporto a livello umano e personale molto profondo. Dall’altro c’è un tentativo di universalizzare, di andare oltre la sua situazione personale per inserirla in un contesto politico e storico. La sua persona è coinvolta ma non è mai il punto di riferimento assoluto. La sua persona è legata ad un contesto umano, comunitario per cui la sua tranquillità e felicità è legata anche alla tranquillità e felicità del paese in cui vive. Sappiamo bene che la Stein ha un grande interesse di tipo politico che è espresso nelle lettere in modo forte per cui ha quasi pudore di presentare esclusivamente la sua situazione personale, che pure presenta, ma inserendola in un contesto più ampio. La sua non è dunque una posizione egocentrata, neppure quando si ritrova a descrivere il suo rapporto estremamente personale con Ingarden.

    Ma torniamo alle crescenti difficoltà di comprensione tra i due, difficoltà che culminano in una sorta di allontanamento. La Stein continua sempre a scrivergli, nonostante tutto. Lettera 64 (Breslavia, 2 dicembre 1919), p. 155. «Da circa quattro settimane non ricevo Sue notizie. Con l’ultima lettera Lei mi informava della Sua malattia. La prego insistentemente di darmi un segno di vita. Se Lei sapesse quanti spiriti maligni stanno pizzicando i miei nervi in questo momento, certamente non esigerebbe da me tanta pazienza». Si palesa uno sfogo personale nel raccontare che c’è qualcosa che non va, sia pure in un linguaggio che  ora sembra piuttosto quello di un rapporto di amicizia e non più quello di un rapporto di amore umano. La ragione di ciò è descritta nella lettera 65 del 16 settembre 1919: «Oggi ho ricevuto la Sua lettera del 1° ottobre. Il primo segno di vita dopo molti mesi. Innanzitutto i miei più cordiali auguri per la Sua nuova vita. Contrariamente a quel che pensa, mi ha sorpreso molto il fatto che non mi abbia detto una parola di Sua moglie». Si era sposato senza dirle nulla! «A dire il vero ho sempre saputo che prima o poi la Sua vita sarebbe cambiata e se questo Le procurerà quanto spero per Lei, allora nessuno sarà più felice di me». È questa l’autentica amicizia. «Naturalmente la mia amicizia per Lei rimarrà immutata. Inoltre, per quanto riguarda le altre cose che sono accadute vorrei che Lei le seppellisse in se stesso e bruciasse eventualmente anche le lettere di cui è in possesso. È solo un desiderio. Se Lei ritiene che un tale silenzio non si addica ad un matrimonio perfetto, in tal caso non può né deve tenerne conto». Si immedesima a tal punto nella situazione d’imbarazzo che Ingarden sta vivendo da scrivergli che, se non intende raccontare nulla a sua moglie, forse sarebbe meglio dirlo chiaramente all’amica. In fondo a lei non importa sapere cosa lui deciderà. Spetta solo a lui decidere se raccontarglielo oppure no. La sua amicizia verso Ingarden resterà comunque immutata perfino quando entrerà nel Carmelo.

    Ma torniamo al tema dell’empatia. Poi riprenderemo nuovamente il tema del rapido trasformarsi dell’empatia come amore umano tra Edith e Roman in empatia come amicizia. Vorrei infatti riassumere brevemente tutto quanto ho detto fin qui. Ho detto che l’empatia è immedesimazione, ho chiarito valore e limiti di questa immedesimazione ed ho descritto l’allontanamento di Ingarden. Ho precisato che la Stein vuole sempre capire, cogliere ciò che sta vivendo l’altro. Il rapporto con Ingarden è solo un caso emblematico di questo suo atteggiamento, un atteggiamento di comprensione che Edith ha per tutti. Ho cercato infine di mostrare come la Stein sia riuscita a realizzare lo sforzo estremamente difficile di una sorta di empatia intesa come riavvicinamento pur nell’estraneità da parte di Ingarden. Per quanto riguarda poi il secondo tema da trattare oggi, quello dell’amicizia, ho chiarito che per la Stein l’amicizia va intesa anch’essa come comprensione empatica dell’altro. Vi è certamente un aspetto più strettamente erotico dell’empatia come amore umano, che potrebbe anche essere stato implicato in una prima fase del rapporto Stein-Ingarden. Ma non abbiamo testimonianze in questa direzione. Probabilmente questo aspetto erotico della vicenda è più legato alla fase del 1917 che non a quelle successive. Quello che permane invece in maniera continua nel modificarsi del loro rapporto di empatia è questa profonda comprensione dello stato d’animo altrui, almeno da parte della Stein.

    Vediamo ora un po’ meglio che cosa dice la Stein da un punto di vista teorico sul tema dell’amicizia intesa come empatia ossia come una delle tante forme d’amore che consentono di realizzare la comprensione profonda dello stato d’animo altrui. Prendiamo il testo Psicologia e scienze dello spirito, p. 224. Questo è uno scritto che coinvolge la Stein presumibilmente dal 1919, benchè sia stato pubblicato nel 1922. Quindi è contemporaneo ad alcune lettere che abbiamo qui esaminato. C’è un punto che riguarda proprio l’amicizia, meglio ciò che si stabilisce quando c’è un’amicizia. Qui infatti Edith Stein descrive cosa intende per amicizia in un contesto in cui sta parlando della possibilità di passaggio della cosiddetta “forza vitale” da un essere umano ad un altro. Grazie ad un’analisi psicologica di questo fenomeno della trasmissione della forza vitale, la Stein individua proprio nella psiche umana (e nel rapporto psico-fisico che l’essere umano instaura in se stesso e da cui è costituito) la sorgente della forza vitale. C’è una vita fisica, psichica e spirituale che pulsa nell’essere umano. Ma questi tre momenti sono qualitativamente diversi, in quanto la corporeità, la psiche e lo spirito hanno caratteristiche proprie. La corporeità è legata alla fisiologia dell’essere umano. La psiche è legata alla dimensione istintiva, emotiva, di pulsioni, di tensioni che abbiamo senza averle in alcun modo provocate. Allo stesso modo lo spirito ha una sua vita, una sua autonomia che coinvolge la sfera della volontà, dell’intelletto, di quelle possibilità tra le quali l’essere umano può decidere, orientarsi, costruire, progettare. Tutte queste realtà dalle quali l’essere umano è costituito, pulsano vitalmente. Questa vita che lo caratterizza come realtà psicofisica è chiamata forza vitale. Essa tuttavia non è presente solo nel singolo. Poiché il singolo vive comunitariamente (qui la Stein sta parlando proprio del tema della comunità), la forza vitale può essere anche comunicata all’intera comunità di cui ciascuno di noi fa parte. Gli esseri umani possono qui scambiarsi forza vitale suscitando nell’altro un impulso vitale ogni qualvolta quest’altro non riesce più a vivere ad un certo livello. Ella si chiede e ci chiede infatti: «Quando l’influsso stimolante di un amico mi spinge ad un’attività di cui da sola non mi sentirei all’altezza, è la sua forza che mi trascina oppure egli ha inteso soltanto mettere in moto la mia propria forza? Esistono qui diverse possibilità: forse non ho mai considerato prima in questa prospettiva il problema che ora prendo in esame insieme a lui; forse comprendo soltanto adesso quanto il problema sia allettante e da qui parte l’impulso che mette in moto la mia attività spirituale; forse il mio desiderio di aiutare l’amico a superare le difficoltà mi porta alla decisione di continuare a lavorare con lui nonostante la mia stanchezza, anche se avevo già deciso di riposarmi». Queste diverse possibilità ci dicono qual è l’attenzione che la Stein dedica ai differenti livelli dell’amicizia. Chiarisce, infatti, che la forza vitale mette in moto ciò che l’altro ha potenzialmente, anche a superare la stanchezza individuale se necessario. Qual è il motivo di tutto ciò? Nell’amicizia facciamo questo perché possiamo scambiarci la forza vitale non soltanto a livello psichico, ma soprattutto a livello spirituale. In questo caso viene fuori una vita che solitamente definiamo “sentimentale”, nel senso che si tratta di una vita dei sentimenti legata strettamente ai valori. Sono proprio questi ultimi che caratterizzano allora l’amicizia, l’amore, la fiducia, la gratitudine. A p. 230 Edith precisa: «Esistono tuttavia, oltre a tali atti, anche prese di posizione di una persona che si rivolgono immediatamente all’altra nelle sue qualità individuali e ne colpiscono il centro: amore, fiducia, gratitudine e anche ciò che chiamiamo fede in un essere umano; dall’altro lato si trovano diffidenza, antipatia, odio, e via di seguito –in sostanza, tutta la serie dei modi di comportamento sfavorevoli. Le prese di posizione spontanee nei confronti di una persona si dividono in positive o negative, o, per dirla in altri termini, l’essere della persona viene affermato oppure negato». Queste prese di posizione nella loro positività o negatività hanno come fine l’affermazione o negazione dell’altro: vogliamo che viva o che muoia, che sia attivo oppure che si distrugga. L’odio è negazione di questo elemento vitale, anche quando non lo vediamo in termini diretti, esso è pur sempre un tentativo di distruggere l’altro. Infine la Stein precisa ancora quanto segue: «Come in tutti gli atti che riguardano i valori e le prese di posizione rispetto ai valori, la positività e la negatività non esauriscono tutte le possibilità […]. È possibile anche un comportamento indifferente». Esso è peggiore della negatività.

    Passiamo ora ad esaminate un po’ più da vicino la questione dei valori che convivono con le varie prese di posizione spontanee positive (amore, fiducia, gratitudine) oppure sfavorevoli (odio, antipatia). Perché per la Stein c’è questa connessione diretta tra scelte e valori? Perché l’amicizia è un valore? Perché l’amore è un valore? A queste domande hanno risposto sia Scheler sia la Stein.

    Per la Stein, l’amore che riesce ad esprimersi a livelli diversi (un volere spontaneo e uno riflesso) vuole che l’altro viva, che realizzi la sua personalità. Qual è, per esempio, il genitore che ama? Quello che vuole che il figlio si realizzi nella sua autonomia e non quello che pretende dal figlio che faccia ciò che egli si aspetta da lui. Il rispetto per l’autonomia del figlio è un valore proprio nella misura in cui lascia sviluppare l’altro come persona. Ecco perché l’odio è un disvalore. Il tema dei valori non è conseguentemente un tema astratto bensì è fortemente legato ai nostri concreti rapporti esistenziali di amicizia e di amore. Inizialmente questo atteggiamento empatico è minimo, ma poi può essere razionalizzato e portato ad un livello più complesso e qualitativo di spiritualità: quello dell’amore etico.

    A questo proposito vorrei fare riferimento ad alcuni scritti privati di Husserl in cui egli parla dell’amore etico intendendo con esso che io voglio lo sviluppo morale, spirituale, dell’altro. E questo mio volere è un assumere una responsabilità, un rendermi conto da cui nasce la vita etica ogni qualvolta i nostri sentimenti vengono attivati in una direzione o in un’altra. Qui Husserl manifesta una preoccupazione: chi mi dà la forza di trasformare l’amore spontaneo-istintivo in amore etico consapevole? Secondo la sua prospettiva è soltanto la dimensione religiosa, è Cristo che dà questa forza. Imitando la sua azione io riesco perfino ad amare il nemico. Ecco il superamento dell’odio trasformato in amore da un “esempio fondamentale”. All’interno della scuola di Husserl, sia nella Stein che in Scheler il tema dei sentimenti è costantemente legato non solo ai valori umani (prese di posizione, di volontà, ecc.), ma anche all’aspetto religioso dei valori.

     Leggiamo qualche lettera della stessa Stein che illumina quest’importante connessione sentimenti-valori-religiosità. Lettera 25 (l’unica in cui la Stein da del tu a Ingarden) datata 1917: «Mio caro, questa sera vorrei essere nuovamente con te per dirti cose di cui sono debitrice. Innanzitutto per chiedere perdono, perché nell’ultimo periodo, oppressa dai giorni difficili che ho trascorso e che mi aspettano, non sono stata capace di trascorrere un’ora in allegria. Tra le cose che mi opprimono c’è il fatto che non ho avuto la forza di nasconderti la mia sofferenza, gettando un’ombra nella tua vita anziché un po’ di luce. Adesso ciò che più cerco è la pace e di riappropriarmi della mia autocoscienza ormai completamente a pezzi. Intendo rivederti non appena sentirò nuovamente di essere qualcosa e di poter dare qualcosa agli altri. Nel frattempo anche tu sarai molto più avanti rispetto ad oggi. Tu sai quanto mi aspetti da te sotto il profilo scientifico». Possiamo notare innanzitutto l’attenzione alla globalità dell’altro. Poi continua così: «E, ciò che più conta, sono fermamente convinta nelle tue capacità di vivere pienamente. Ti auguro di vivere una vita in pienezza e ricolma di quelle ricchezze che il mondo può offrire. Desidererei possedere quei poteri magici, quegli stessi che ieri il maestro [Husserl] pretendeva da me, per poterti offrire tutte queste cose. Se tu considerassi almeno un po’ questo mio dono di Natale, come qualcosa che perduto ritorni a te, per me sarebbe una gioia immensa». In questa lettera notiamo che c’è un’ulteriore forma d’amore: quello che si sforza di tirar fuori le capacità dell’altro. Non vuole qualcosa per sé. Vuole la pienezza di vita, la felicità per l’altro. Quest’ulteriore livello dell’amore è quello che riesce persino a superare il proprio egoismo. L’eccezionalità di questa presa di posizione della Stein io credo che nasca dalla sua meditazione filosofica, che le consente di rendersi conto di un dato di fatto estremamente importante: ci sono differenti livelli di amore e di amicizia grazie ai quali si costituisce la comunità umana. Preciso ancora una volta che la Stein intende per comunità rapporti reciproci di assunzione di responsabilità. Rapporti che possono essere fortificati dalla fede, così come abbiamo visto sia per Husserl che per la Stein.

     Lettera 53 (Friburgo, 10 ottobre 1918): «Non può augurarmi felicità secondo il Suo modo di vedere. Ma deve augurarmela in un altro senso già da oggi. Non so se dalle mie affermazioni precedenti ha potuto capire che mi sto avvicinando sempre più ad un Cristianesimo assolutamente positivo. Mi ha liberata da una vita deprimente, dandomi la forza di accettare di nuovo e con riconoscenza la vita. Pertanto posso parlare di una rinascita, nel senso pieno della parola. Ma questa nuova vita è legata intimamente agli avvenimenti vissuti in quest’ultimo anno che non rinnegherò mai; saranno sempre una presenza molto viva. Solo che non posso considerarli come una disgrazia, al contrario sono ciò che di più prezioso mi appartiene».

    Vorrei sottolineare qui un elemento rilevante. In questa così come pure nelle lettere del 1917, in particolare quella in cui la Stein da del tu a Ingarden, Edith parla apertamente di alcuni suoi momenti di depressione. Cosa le ha dato in entrambi i casi la forza di venirne fuori? Insiema allo sforzo di mantenersi in sintonia con gli ltri sicuramente ha svolto un ruolo importante anche la fede. Nella stessa lettera Edith scrive infatti: «Mi consenta di esprimere, unitamente a tale richiesta, un desiderio: continui ad essere mio amico; se mi occupo delle Sue faccende personali come se fossero le mie, non lo consideri come una violazione della Sua libertà; e mi lasci credere che tutto ciò che per me ha un qualche significato, non Le sia del tutto indifferente. Forse le mie parole sono troppo dure, ma Lei sa, non è vero, come vanno intese? Inoltre sento che in Lei tutto nasce dalle profondità del cuore e per tale motivo La ringrazio».

    Siamo arrivati così a vedere quali sono le conseguenze che Edith ha saputo trarre da una delicata fase di passaggio, di trasformazione, del suo rapporto con Ingarden. In questo modificarsi del rapporto, l’aiuto di Edith a Roman non è stato solo spirituale ma anche concreto e materiale in due direzioni: 1) la Stein ha fatto un sostanzioso prestito finanziario a Ingarden costringendolo ad accettare; 2) la Stein ha corretto alcune opere che Ingarden scrive in tedesco perché questa lingua era straniera per lui che era di lingua materna polacca. Con molta pazienza ella ha corretto le sue opere non solo formalmente ma a volte anche nel contenuto. Vediamo infatti la lettera 91 (Santa Maddalena, 28 settembre 1925), apparentemente piuttosto noiosa. In realtà essa è indicativa dell’aiuto concreto che la nostra pensatrice fornisce al collega anche dopo l’allontanamento sentimentale di quest’ultimo: «Caro Signor Ingarden, ho utilizzato la giornata di ieri, domenica, per lo studio della Sua conferenza e penso che sia meglio annotare le mie impressioni adesso che sono recenti. La correzione linguistica non mi è costata molto; sembra quasi che Lei abbia imparato di più negli anni in cui è stato lontano dalla Germania. Non è necessario metterLa al corrente in merito ai piccoli cambiamenti. Voglio richiamare soltanto la Sua attenzione su qualche punto in cui l’interpretazione filosofica mi risulta difficile e dove perciò non so se e come debbo cambiarli». Entra, quindi, nelle ricerche di Ingarden con grande decisione. La Stein ha questo atteggiamento “didattico” sempre. Ecco alcuni esempi: «Che cosa significa nell’ultimo capoverso del § 7 il termine conosciuto? L’ultimo capoverso del § 10 s’ intende: “Era… perciò soltanto possibile, perché si… compisse” oppure “…che si potesse compiere” (perché… darebbe ragione a quanto precede, il che alla questione che ne consegue. Penso che Lei voglia utilizzare il perché). Ho dovuto cambiare in modo consistente una frase a p. 19 e non so se ne rendo bene il senso: “La teoria della conoscenza non deve perdere di vista […] anzi deve essere in grado di giudicare l’eventuale influsso di quei momenti degli atti della coscienza sui risultati della conoscenza, i quali non giocano alcun ruolo immediato nell’acquisizione della conoscenza e in particolare nella possibilità di eliminare questo influsso». Qui si parla della teoria della conoscenza, dei momenti, degli atti della coscienza, sempre in ambito fenomenologico. La Stein dà una stesura più piana allo scritto di Ingarden. Ella scrive infatti: alla «p. 29, rigo 5, non so se intende “in nessun modo” o “in qualche modo” (nel primo caso la doppia negazione afferma, nel secondo c’è la semplice negazione)».

    Notiamo con quale carità intellettuale la Stein entra in questi testi per pura amicizia, con grande dispendio di tempo. La correzione di bozze è un lavoro straordinario, che qualche volta facciamo anche noi per amicizia. La personalità della Stein tuttavia mostra proprio qui una sua caratteristica molto interessante. La sua vita non è solo speculativa, teorica, spirituale. È una vita estremamente pratica, sempre, anche nel Carmelo, dove non potrà forse più agire in modo relazionale diretto così forte come ha fatto precedentemente, ma tenterà in tutti i modi, attraverso varie mediazioni, di mantenersi sempre in contatto col mondo esterno.

     Tra le ultime lettere che ho scelto di leggere oggi c’è infatti la numero 94 (Spira, 29 novembre 1925), in cui Edith tenta ancora una volta di far capire a Ingarden come qualcosa d’altro è sopraggiunto nella sua vita, il cristianesimo. Sente perciò la necessità di fugare quelle difficoltà che possono essere rimaste nel rapporto con lui: «Debbo innanzitutto dirLe che i ricordi di Friburgo, in modo particolare del periodo in cui ricevetti la notizia del Suo matrimonio non hanno alcun effetto su di me, altro è sopraggiunto in seguito, una storia che in molti aspetti ha mostrato una terribile analogia con quella da Lei conosciuta. Mi risparmi i dettagli. Le esperienze sono state quanto meno dolorose ma mi sono sforzata interiormente, così che le ho attraversate più facilmente e penso che proprio per questo motivo sono diventata libera interiormente. Adesso sono convinta che sono dove debbo stare e sono grata del fatto di essere stata condotta su questa strada che percorro con grande passione senza alcun’ombra di “rassegnazione”».

    Ecco come la Stein ha conquistato una sua autonomia interiore, proprio grazie ad una forte convinzione religiosa che le ha consentito di guardare tutto il resto con distacco e nel contempo paradossalmente con grande partecipazione, ossia senza rinnegare niente.

     La penultima lettera con la quale sto per chiudere questo nostro incontro è la 160 ed è stata scritta proprio dal Carmelo. Edith continua a scrivere a Ingarden benchè egli non abbia ben capito la sua “conversione”, ritenendola a volte una fuga dal mondo. Per la Stein, invece, la scelta carmelitana è stato un coraggioso e convinto tentativo di ricostruire una ulteriore forma di comunità spirituale da vivere ora in una dimensione qualitativa del tutto diversa. Scrive: «Ho ricevuto soltanto come surrogato un augurio molto acido». Sa perfettamente che Ingarden non riesce ancora a seguirla e tuttavia lei continua a spiegargli con semplicità e senza alcuna fretta la sua scelta anche nella successiva lettera numero 161: «Le supposizioni da Lei fatte riguardo al nostro atteggiamento di fronte alla vita sono talmente infondate che se volessi confutarle non arriveremmo mai alla fine. Sarà meglio se Le racconto molto semplicemente qualcosa della mia vita. Crediamo che a Dio piaccia scegliersi un piccolo gruppo di persone che vivono in modo più intimo la Sua vita e crediamo di essere tra i fortunati. Non sappiamo secondo quali criteri sia operata la scelta. Certamente non per dignità o meriti e per tale motivo la grazia della chiamata non ci rende superbe, piuttosto umili e grate. Il nostro compito è amare e servire. E poiché Dio non abbandona mai il mondo che ha creato e soprattutto ama tanto gli esseri umani, per noi è naturalmente impossibile disprezzare il mondo e gli uomini. Non abbiamo lasciato il mondo perché lo riteniamo inutile ma per essere libere per Dio. E se Dio vuole dobbiamo riprendere i rapporti con quanto si trova al di là delle nostre grate».

    La Stein continua instancabilmente a chiarire ad Ingarden le ragioni della sua scelta. E proprio lei ebbe nel Carmelo una straordinaria possibilità: fu sollecitata dai suoi superiori a continuare gli studi filosofici. Eppure in un ordine di clausura come quello carmelitano non erano previsti tradizionalmente gli studi filosofici. Come sappiamo, proprio grazie a questa eccezione, ha potuto scrivere nel Carmelo la sua opera più nota, in due volumi, intitolata Essere finito e essere eterno. «Il primo volume è già stato consegnato per la stampa alla Casa editrice Anton Pustet di Salisburgo» ella comunica con gioia ad Ingarden in una lettera dal Carmelo che sembra proprio scritta da una persona che vive nel mondo e può pertanto testimoniare una circolarità di vita anziché un allontanamento oppure un atteggiamento di tristezza o depressione. Da questa così come pure da altre lettere a Ingarden scritte dal Carmelo traspare al contrario un inserimento così sorprendentemente profondo nel mondo, in quel mondo che Roman crede ingenuamente che ella abbia abbandonato, da riuscire persino a stabilire con lui una modalità d’amicizia, in cui le concrete capacità di saper fare empatia di Edith Stein irradiano ora più che mai un’incredibile forza vitale.

 

 

Bibliografia di riferimento

 

Edith Stein, Il problema dell’empatia, tr. it. di Elio ed Erika Costantini, presentazione di A. Ales Bello, Studium, Roma 1998.

 

Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito. Contributi per una fondazione filosofica, tr. it. di Anna Maria Pezzella, prefazione di A. Ales Bello, Città Nuova, Roma 1996.

 

Edith Stein, Lettere a Roman Ingarden (1917-1938), tr. it di Elio ed Erika Costantini, rev. ed integrazioni di Anna Maria Pezzella, prefazione di A. Ales Bello, Libreria Editrice Vaticana, CdV 2001.