Come
se, è il titolo di un interessante e quanto mai attuale
articolo di un sociologo, Giovanni Semi, scritto per rispondere
alla domanda di un giornale di fare un referaggio a un articolo
relativo al turismo di massa in luoghi tipici e sugli
indesiderati effetti collaterali dell’impossibilità, causa
virus, di accoglierlo. Luoghi lontani
nei quali si scappava, ormai sempre più spesso anche low cost, noi per sfuggire al nostro ‘irrespirabile’ Occidente,
altri, in direzione opposta, per raggiungerlo, inquinando
comunque, con i nostri voli, l’aria che contemporaneamente
deprecavamo inquinata. Senza dimenticare, ovviamente, anche la
necessità di soddisfare le esigenze industriali, spostando le
produzioni – con conseguenti movimentazioni di tecnici e
materiali – in luoghi a minor costo di mano d’opera.
Paradisi terrestri, fiscali o economici, si sa, non sono mai
‘in casa’.
Scrive
Semi: “Non ho parole per interpretare ciò che sta accadendo
attualmente, perché non ho i pensieri per elaborare le
trasformazioni in corso. […] La segregazione spaziale,
l’isolamento e il confinamento sono facili da comprendere,
anche quando comportano la perdita di diritti e libertà.
Proprio perché stiamo perdendo questi diritti, siamo
pienamente consapevoli della trasformazione spaziale che si sta
verificando.
Abbiamo perso qualcosa, ci rendiamo conto di cosa c’era
e lo desideriamo.”
Facile,
per noi che leggiamo, che il pensiero corra a Greta Thumberg, ai
ragazzi di Friday For
Future, finalmente anche nel nostro accasciato Occidente
l’aria è pulita, i rumori della circolazione ininterrotta di
auto, camion, treni, moto, vaporetti, motoscafi finalmente
assenti, qualcuno ha detto “come
se nevicasse”, un bambino confinato nell’appartamento in
città ha detto alla sua mamma che “si
sentono cantare gli uccelli come nella casa al mare”,
respiriamo – incredibile! Come fossimo davanti al mare, tra i
monti, nel vento di alcuni giorni a Trieste – a pieni
polmoni….
Ma:
se torniamo, dopo (e mentre) ne esultiamo, a pensare, questo silenzio, quest’aria pulita, ci terrorizzano.
Usiamo scientemente questo verbo, andando con il pensiero a Bion
e a ciò che ha descritto come terrore
senza nome.
Perché
davvero l’anomalia, ci verrebbe da scrivere l’anomia, di questo particolarissimo e davvero inedito (almeno nelle
nostre esperienze) momento storico è proprio questo. Non ci
sono più Nord e Sud del mondo, il virus è (come) l’aria
stessa, oggi per paradosso più pulita per suo merito. Esso è
ovunque, invisibile, impalpabile, eppure quanto mai concreto, si
trasmette per respiro… per stretta di mano… per carezza…
“Prototipo
della paura in campo letterario è sempre stato l’incipit
dantesco dell’Inferno, con la sua selva
oscura, con il suo essere cosa
dura, esta selva
selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinnova la paura! Ma
oggi la dritta via
sembra smarrita non tanto per aver lasciato un cammino sicuro,
una zona protetta, per l’avventurarsi in un territorio
selvaggio, quanto per una invasione diffusa dei costituenti il
pericolo, non vi è un topos,
un luogo delimitabile
ed evitabile, ma una sensazione diffusa di non riconoscibilità
della differenza che caratterizza il nemico,
portando, da un lato, alla assimilazione del pericolo sociale
con una forma invasiva, metastatica e pervasiva di malattia
portatrice di morte, dall’altro al bisogno inconscio di
ripristinare comunque una differenza definibile, una razza, una
cultura, una religione, un DNA, che almeno
riaffermino una separazione, un ritorno alla rassicurante
dimensione topica di cos’è il male.”
Queste
parole, scritte nel 2005 (Francesconi, 2005, p.15) si riferivano
al terrorismo islamico, all’impossibilità di prevedere il
gesto assassino improvviso e isolato, l’esplosione o
l’incidente privi di segnali premonitori, tuttavia sono
decisamente (purtroppo) assai attuali e con pertinenza
intensificata nel momento attuale.
Oggi
come (più di) allora,
l’elemento che maggiormente getta nel panico è proprio
questo: l’impossibilità di vedere la minaccia, di assegnarle pertanto una concretezza che ne consenta la compartimentazione: è
lì, è quello….
“Siamo
nell’orizzonte di quello che lo psicoanalista Bion chiamava il
terrore senza nome.
L’elemento che getta nel panico è proprio questa crisi della
riconoscibilità, questa impossibilità di assegnare
all’oggetto minaccioso una qualità
evidenziante che consenta la messa in atto dei meccanismi di
difesa.” (Francesconi, 2005, p.16).
Inevitabile
che ci si chieda se la ‘cecità’ di governanti e gente
comune nei confronti dei terribili rischi connessi ai
cambiamenti climatici, a loro volta connessi allo stile di vita
e produttivo del Nord del mondo, a spese non solo del Sud del
mondo ma del pianeta stesso, non abbia in comune proprio il
fatto che il pericolo e la
minaccia non si vedono.
Ancora
Giovanni Semi (2020) scrive: “Il tempo sta vibrando.
Poiché abbiamo improvvisamente perso le nostre
connessioni […] con il mondo esterno, abbiamo dovuto
provvedere a noi stessi per la maggior parte dei compiti. […]
mentre dal mondo esterno abbiamo ricevuto continue richieste di
fare le cose ‘come se’. Come se, ad esempio, il mondo che
conoscevamo finora ricominciasse da capo, con lo stesso ritmo,
le stesse attività, azioni e pensieri. Come se l’economia si
riprendesse proprio nello stesso modo (pessimo) in atto prima.
Come se le nostre interazioni potessero riprendersi, non
danneggiate dal virus della reciproca diffidenza e sospetto.
Come se il nostro benessere fosse come prima, non importa se
stiamo perdendo persone o la salute è cambiata. Come
se. Bene, ho la sensazione che potremmo impiegare questo
tempo per la possibilità di riconsiderare il tempo stesso e di
riformulare ciò che è lo spazio e la nostra connessione con
esso. Non c’è un ‘come se’. Non sappiamo davvero come sarà
il mondo tra un giorno, tantomeno possiamo dirlo in riferimento
ad un anno da ora. Questo apre a molteplici stati d’animo,
dalla malinconia alla depressione, dall'eccitazione all'euforia.
Il nostro animo cerca di fornire un significato alle vibrazioni
del nostro tempo, incanalando le nostre speranze e aspettative
per fronteggiare le nostre paure e sospetti.”.
Eppure,
prosegue Semi, dopo il disorientamento iniziale una sorta di
‘nuove normali’ routine sta condizionando il modo in cui
organizziamo la nostra vita, ma “abbiamo disperatamente
bisogno di tempo e di forza per resistere alla pressione del
poter fare le cose come prima”.
Ha
ragione Semi. Facciamo chat
aperitivi, chat cene….
un po’ adattandoci alla differenza, un po’ ripetendoci
“quando sarà tutto finito”… come se….
La
nostra opinione – contingente, va dichiarato, dal momento che
stiamo imparando bionianamente a apprendere
dall’esperienza (1962) giorno per giorno cosa pensare buono[2],
cosa pensare cattivo
– è che è solo un bene che tanti tipi di lavoro si siano
potuti telematizzare: gli studenti continuano in qualche modo a
seguire le lezioni e a fare esami, psicoanalisi e psicoterapia,
in Skype, chat, telefonate, riescono a continuare a esercitare
la propria funzione, possiamo visitare mostre, musei, ascoltare
concerti in absentia….
Certo,
noi tutti siamo oltremodo grati alla tecnica, che ci consente di
fare la spesa on line
e quant’altro testé descritto, ma…
Tutto
questo ‘come se’
(peraltro impossibile in moltissime aree) non ci fornirà in
termini inconsci quella cecità che ha fatto sì che non
capissimo, non vedessimo, quanto scienziati e biologi mostravano come risultato dei
loro studi?
Non tenessimo minimamente in conto il fatto che ci
ammonivano in rapporto a un disastro ambientale verso il quale
precipitavamo nella più beata indifferenza, di cui
un’epidemia era una “possibilità” fra tante altre?
Assistiamo
alle conseguenze inquietanti e di ampia portata del blocco di
intere regioni e nazioni, alla precarizzazione della difesa
della salute, a una corsa sfrenata verso una forte limitazione
della nostra libertà individuale, come se fossero eventi impensabili
fino a poco fa, ma non è del tutto vero…
E’
però anche vero, come nota Semi e come in molti hanno
sottolineato, che interessanti prospettive e interpretazioni di
questi nuovi fatti si sono diffuse sui social network e nel
dibattito, presentando la situazione attuale come un’occasione
per ripensare in modo più deciso le nostre società, i
paradigmi, i modelli di sviluppo e le strutture che utilizziamo
per pensare e pianificare il nostro spazio e di conseguenza i
territori.
Ma
il punto sul quale vorremmo in questo contributo centrare
l’attenzione è proprio la cecità, o sordità, oppure,
psicoanaliticamente, il diniego: noi crediamo che se non si vuol vedere, non si vede, se non
si vuol sentire, non si sente: un non
si vuol che va però declinato in due modi diversi.
Il
primo modo, ha a che fare con gli interessi economici che
pilotano stile e mezzi di produzione, interessi per nulla
inconsci, anzi: se il guadagno è assicurato con il minimo del
costo, non può essere di alcun interesse che questo possa
produrre danno all’ambiente e, ora più di sempre, anche alla
salute.
Ne
sono esempio le costruzioni edilizie dissennate in tante parti
del Paese e di tante altre aree geografiche; le deforestazioni,
l’edificazione di centrali nucleari in contesti geologicamente
a rischio; i liquami, i fanghi, le scorie radioattive o di
amianto sotterrate dove si costruiscono case e scuole o si
coltivano grano, pomodori e altro.
Insomma,
un non si vuol
pericolosissimo perché consapevole e deliberatamente scelto.
Che,
purtroppo, raccoglie consenso nell’opinione pubblica, dal
momento che si propone apparentemente come la sola garanzia di
lavoro: chiudere l’Ilva a Taranto equivale e far perdere lo
stipendio a una enorme quantità di persone, e così via:
conosciamo gli esempi, sono sotto gli occhi di tutti.
Ma
abbiamo scritto apparentemente,
e ne spieghiamo la ragione: perché in verità, come in molti
imprenditori ed economisti hanno mostrato, si può convertire
gran parte della produzione in modi che non siano di danno
all’ambiente e alla salute di coloro che in quell’ambiente
vivono.
Il
secondo modo, invece, sul quale però il primo fa affidamento
poiché gli è di sostegno, è un non
si vuol perché non si
può: del tutto profondamente inconscio.
Purtroppo
l’essere umano ha paura
di aver paura.
“Se
predomina il pensiero onnipotente dell’inconscio ci si sottrae
al confronto con la realtà facendo affidamento su un Io
megalomanico che delira un potere che non ha. Come nelle
sequenze dei cartoni animati di Hanna e Barbera, dove Paperino o
lo Struzzo camminano nel vuoto finché, aperti gli occhi e
constatato il baratro che si estende ai loro piedi, precipitano
rumorosamente, il “non vedere” consente di mantenersi
nell’altra scena,
quella dove, come nei sogni, tutto è possibile Nel commentare
alcune campagne pubblicitarie a favore della sicurezza stradale,
caratterizzate da immagini ‘violente’ (auto distrutte,
ragazzi sfregiati dove si gioca sull’ambiguità dei
‘punti’ di sutura e di penalità sulla patente), Silvia
Vegetti Finzi[5]
ci ha ricordato che vediamo la pena attraverso una
raffigurazione forte ed emotivamente violenta, a propria volta
tesa a indurre nell’osservatore emozioni. Che tipo di
emozioni? Nelle intenzioni degli autori, una reazione fisica
ancor prima che un ragionamento, il rigetto quasi automatico di
un comportamento, indotto dalla paura per la sofferenza che ne
può derivare. Quello che tali campagne pubblicitarie si
augurano è che il soggetto sia indotto a rifuggire ciò che
provoca male non perché il comportamento sia condannabile in sé
ma per le conseguenze che produce. […] In tali campagne
pubblicitarie è la conseguenza (il danno) a essere sancito come
male. […] Se possiamo ammettere che in questi termini
l’impatto emotivo è garantito, dobbiamo però, come
psicoanalisti, prendendo spunto dalle considerazioni di Vegetti
Finzi, segnalare il fatto che tale tipologia di comunicazione
tende a indurre un altrettanto rapido ed efficace intervento dei
meccanismi di difesa, soprattutto inconsci. Il messaggio
recepito come eccessivamente perturbante viene facilmente
‘dimenticato’ - rimosso nell’inconscio […]. La rimozione
procede, infatti, separando gli affetti dalle rappresentazioni
corrispondenti: le rappresentazioni vengono rinviate
nell’inconscio e ivi rinchiuse, mentre gli affetti, privi di
referente, vagano in modo fluttuante tra corpo e mente,
suscettibili di vari, incontrollati utilizzi. […] Ed eccoci al
paradosso della complessità: più il soggetto ‘capisce’ che
una cosa è pericolosa, più rischia di doverla in un certo
senso dimenticare’[...]. Invaso
da emozioni cattive, il soggetto può inconsciamente
decidere di ‘spegnere’ il funzionamento di una mente
sentita inadeguata a affrontare la realtà” (Francesconi,
2009, p.49).
Se
dunque teniamo conto del fatto che ‘spegnere’ (per non fare
che uno dei mille possibili esempi) l’Ilva a Taranto equivale consciamente
a sapere di perdere almeno per un lungo periodo di tempo uno
stipendio sicuro, mentre, al contempo, il livello inconscio
attiva i processi denegatori appena descritti che vi si alleano,
capiamo che il gioco del profitto è fatto: “E’
inevitabile, è sempre stato così, tanto non si può far
nulla…”.
Costi,
sul piano ambientale, quel che costi.
Proviamo
a richiamare alla mente (e per i più giovani a raccontare)
l’austerity. Quel 1973, con la crisi petrolifera e le
domeniche a piedi, fu un fatto molto grave, duro. Coprifuoco,
lampioni spenti, i programmi televisivi che finivano prima. Ce
ne siamo assolutamente scordati. Una paziente ha detto, in
questi giorni di sedute in skype o telefoniche, che ci voleva
una ‘matta’, Greta Thunberg, per sedersi tutti i venerdì,
con qualunque tempo, a ricordare al mondo che stavamo correndo
verso la catastrofe, forse una catastrofe senza ritorno. E ha
ragione la paziente, che ricorda anche con rabbia Trump,
Bolsonaro, Salvini che l’hanno derisa.
Un
ridere che forse, di nuovo, evoca la paura
di aver paura.
‘Se
gioventù sapesse’ è il titolo di un romanzo del 1983 di
Doris Lessing. Non siamo coscienti, da giovani, del fatto che
siamo vulnerabili. Grazie ad una scissione per così dire ‘protettiva’,
camminiamo baldanzosi e, per quel che ne sappiamo, per come ci
percepiamo, invulnerabili. Perché è scioccante la scoperta
della vulnerabilità.
La
nostra.
Di
coloro che amiamo.
E’
di Shakespeare, richiamato da Freud (1899, p.194),
la riflessione sul fatto che nascendo diventiamo debitori
alla natura di una morte: la nostra.
“Un
tempo, un più diretto contatto con il morire veniva in aiuto
[…], mentre nella
cultura di oggi la situazione appare un po' diversa
probabilmente perché la distanza che si è venuta a creare tra
vita e morte ci ha privato della capacità di dare un senso e
una diversa misura alle esperienze di perdita, e infatti, non
a caso, la nostra società ha anche perso il ricorso ai riti di
iniziazione, volti anch'essi a permettere il distacco -vera
morte ‘simbolica’- da età precedenti. E così «ciò
che non è possibile rappresentare, non è possibile narrare,
se non, talvolta, attraverso il corpo che gioca l'azione in
luogo dell'utilizzo del simbolo» (Nunziante Cesaro, 1991)
con una propensione per l'agire che può farsi facilmente
drammatico.” (Francesconi, Scotto di Fasano, 2001, p 104).
“Oggi
invece in Occidente il riferimento alla morte o fa parte di un
contesto angoscioso (catastrofi, epidemie, terrorismo) non
elaborato oppure si costituisce come tabù dal momento che
evoca la consapevolezza del limite posto dalla realtà a
ogni illusione di onnipotenza, limite che sappiamo essere
assai faticoso da accettare, spesso con il supporto della
scienza (lifting, procreazione medica assistita, biotecnologie,
apparato multimediale)” (Francesconi, 2009, p.53).
Certo,
si risponde all’angoscia spesso con la solidarietà (non
necessariamente ‘fratellanza’ che è cosa diversa), ma,
anche, attivando reazioni niente affatto nobili. Come scriveva
Bodei (2001, p.65): “La morte resta così morte. Di fronte a
questa irredimibilità del negativo si reagisce rifiutando il
differimento delle soddisfazioni della vita. Si cerca pertanto
di godere il più possibile in ogni istante, di ottenere
immediatamente il piacere e la felicità. Il futuro [… non
interessa più di tanto […] Prevale il tacito proposito di
mettere a coltura intensiva il presente, di farlo fruttificare
rapidamente” cosa che, insieme con “la desertificazione del
futuro”, priva “l’esistenza del singolo di ogni tensione,
lo lascia in uno stato astenico, come se gli fossero stati
recisi i nervi dell’anima” e la vita rischia allora di
“diventare opportunistica e predatoria”.
Bodei
concludeva che “la psicoanalisi, restituendo agli individui la
profondità del passato e la proiezione verso l’avvenire,
costituisce un antidoto a tale spossatezza psichica” (p.66).
E’
evidente che parole di vent’anni fa vadano rilette alla luce
dell’attualità e di altri bisogni urgenti, tuttavia può
restare vivo, assieme a noi se siamo fortunati, il recupero di
questo senso prospettico anche attraverso tale strumento di
pensiero.
Per
concludere, che speranza?
Una
ci viene, una volta di più, dalla terra, con il caso degli yamadori.
In
natura, se il seme di un albero viene portato dal vento nella
tasca di una roccia, sulla cime di montagne innevate molti mesi
all’anno, la pianta cresce, per così dire, negli stenti:
piano piano, molto lentamente, ma cresce. Tali piante, in
giapponese yamadori, hanno fatto da stimolo alla creazione dell’arte del bonsai.
Si
tratta, a nostro parere, di un esempio straordinario sia
dell’estrema vulnerabilità dei soggetti viventi sia della
loro possibilità di sopravvivere a condizioni ambientali e
climatiche estremamente sfavorevoli.
Si
pensi, a tale proposito ma nell’area dell’umano, alla
straordinaria esperienza di Paul Williams, grande psicoanalista,
che nei libri autobiografici Il
quinto principio (2010) e Feccia
(2013), racconta di come sia sopravvissuto all’orrore della
propria infanzia e della conseguentemente minata adolescenza.
Vero yamadori umano,
dal momento che è psicoanalista di training della British
Psychoanalytic Society.
Cosa
intendiamo dire con tali riferimenti botanici e umani?
Che
sebbene maltrattata, abusata, sfruttata, forse dalla natura
stessa ci viene l’esempio da seguire. Gli yamadori sono divenuti modello di piante cresciute in modo da
potersi completamente sviluppare senza troppo mezzi a
disposizione, dando vita possibile ai bonsai.
E
Paul Williams, con le poche briciole di umanità a sua
disposizione nel corso dello sviluppo, è diventato un bravo
psicoanalista.
In
altri termini, possiamo imparare a vivere accontentandoci di
utilizzare meno risorse, rinunciando a un ‘troppo’ che rende
‘meno’ ciò che ci circonda. Nel tempo del Coronavirus
giocoforza abbiamo sperimentato e sperimentiamo una astinenza
forzata per obbligo di legge. Ma possiamo imparare a farne,
almeno in parte, una scelta.
Una
scelta di resilienza al tossicomanico bisogno del ‘troppo’.
E’
un poeta, Maurizio Cucchi, a dare conto di una capacità di
resilienza estrema, quella degli abitanti di Pryp’jat’, a
tre chilometri da Ĉernobyl’: “Lo
spettacolo fu quello/ di una luminescenza strana,/ meravigliosa,
dissero. I pompieri/ accorsero, si tolsero le tute,/ tutto. E
morirono tutti./ * / Ma solo dopo 36 ore / l’intero popolo
della nuova città/ fu finalmente evacuato./ Cesio 137. […]
Una quiete sinistra e irrevocabile. / * / Poi cominciarono a
tornare. ,,,,,,,[…] Erano i pionieri della radioattività,/
una comunità sghemba di ostinati,/ di sopravvissuti.”
(Cucchi, 2019, pp.22-23)
Ma
per non ridurci a quasi-zombies di semisopravvissuti, dobbiamo
non oscurare ogni tipo di pensiero non-virus-correlato, dobbiamo
ricordare che l’aumento termico o l’accresciuto consumo di
acqua di questi giorni non hanno acquisito insignificanza,
solo perché sovrastati dalla tragedia epidemica. Per dirla con
un neologismo (Francesconi, 2018), occuparsi di cura
dell’ambiente mantiene il suo senso di paesaggezza, cioè tutto ciò che opera per la protezione e la
custodia delle nostre bellezze e risorse. Il verbo paesaggire coniato dal poeta friulano Zanzotto mette a fuoco, scrive
Vittorio Lingiardi in Mindscapes
(2017) “«la presenza umana e le lacerazioni della storia» e
fa del paesaggio un luogo reale in continuità con un luogo
psichico” (p.23). Di fatto, il paesaggio “contiene […]
molti dei problemi che oggi ci affliggono: mutamenti climatici,
degrado ambientale e inquinamento, appartenenza e alienazione
sociale, […] E’ eredità e memoria”(Lingiardi, 2017, p.23)
ed è terribile che esso possa scomparire a causa di incuria, di
mutamenti delle tecniche di coltivazione, del ricorso
all’utilizzo degli antiparassitari, di interventi rapinosi e
distruttivi (anche da parte di amministrazioni pubbliche, oltre
che di industrie e imprese, come non mancano in molti, a partire
da Paolo Rumiz (2013) o da Giuseppe Bogliani (2018), di
segnalare. A partire da interventi umani dissennati e
scellerati, stanno scomparendo dal nostro paesaggio fluviale
molte specie di uccelli e di farfalle, mentre, come afferma
ancora Bogliani (ampiamente supportato in tal senso dalle
dichiarazioni riportate da Paolo Rumiz in Morimondo):
sott’acqua sta avvenendo una catastrofe che non vediamo” (3
marzo 2018, p.24).
“Si
può, in un bicchiere vuoto, / bere il ricordo del vino?”
(Caproni, 1979, p.76).
Si
può da un fiume, il Po, in cui per la siccità non c’era
acqua estrarne con le pompe per spararne a getto continuo nel
granturco sotto il sole allo zenit? “Acqua inutile, che
vaporizzava prima di fecondare le zolle. Allora sì, che
l’avevo sentita, la voce del fiume: ronzare di pompe abusive
tra i canneti, camion in coda sugli argini, ventole al massimo.
Era la macchina dello spreco che si ingolfava, arraffava finché
c’era da arraffare, e se ne fotteva del Po. ‘Calamità’,
dicevano i contadini delle due sponde, e io odiai subito quella
parola, perché assolveva gli uomini e non diceva che
l’incuria era mille volte peggio della mannaia del sole” (Rumiz,
2013, p.117).
“…detesto
fontane /attorno alle quali l’uomo vive, / odio …. / …
l’utile / per cui si è sacrificati. / Non posso cantare
l’aurora / o la speranza, la notte di stelle / dall’arido
buco in cui vivo. / Non voglio…./ Gli occhi / che non sono
fatti per vedere. / Terra che non è fatta per stabilirmi. /
Corpo fatto per la sola materia: / …. Non l’onore deriso dai
potenti.” (Zanichelli, 1980, p.201).
Chissà,
si chiede in Morimondo
Rumiz, “forse un giorno un Messia
caccerà dal fiume i pesci-mostri, le ruspe-dinosauri, i
fertilizzanti-veleni, e i motori che uccidono il silenzio e gli
aborti idroelettrici, le centrali mai nate, demolite come ai
bordi di Torino da una piena ancora in fase di costruzione,
un’oscenità contronatura, desertificata dall’incuria e
calcificata dal sole. Pietroni scardinati, pozze d’acqua
marcia color cobalto, e, al culmine dello sfacelo, un ponte
scosso da un incessante passaggio di camion. Un costo ambientale
apocalittico, per pochi kilowatt. Eppure eravamo nel parco del
Po” (Rumiz, 2013, p.41). Uno spazio iperprotetto.
O,
ancora: “Seimila ettari di bosco originale erano stati rubati
a Po nel solo tratto fra Emilia e Lombardia, e questo per
lasciare spazio, oltre che ai pioppi, al cemento, alle
piantagioni di mais e ai dragaggi abusivi di sabbia. In
cinquant’anni erano stati asportati cinquecento milioni di
metri cubi di sabbia, con danni spaventosi.” (Rumiz, 2013,
p.238).
Scriveva
Bodei (2008, pp. 178-179): “Ormai, di norma, [la natura] non
ci spaventa più come prima: ci accorgiamo della sua
distruttività solo nel malaugurato caso in cui le sue violente
energie siano in atto sul larga scala o i suoi effetti abbiano
lasciato ferite recenti (essa sembra allora miticamente
‘vendicarsi’ della hybris
umana anche con nuovi, catastrofici mutamenti climatici o con
l’insorgere di malattie sconosciute). Nello stesso tempo si
diffonde nei suoi confronti un inedito sentimento di pietà e di
colpa. Ci sentiamo, infatti, responsabili del suo deterioramento
e ci rendiamo maggiormente conto della trasformazione della
nostra specie - enfaticamente auto-proclamatasi homo
sapiens sapiens - in un animale nocivo per la vita del
pianeta, in una minaccia virtualmente letale per quel sottile e
delicato involucro di appena trenta km di spessore costituito
dalla biosfera. Se il sublime moderno si fondava sulla
percezione di una natura immensa e possente, oggi, con lo
sviluppo della tecnica, l’umanità non solo è diventata più
forte, ma anche talmente distruttiva da rendere vulnerabile
l’esistenza di tutti gli organismi del globo terracqueo, sia
in ragione delle migliaia di bombe atomiche esistenti, sia delle
svariate forme di degrado ambientale che è capace di provocare.
La natura appare, di conseguenza, come una Mater
dolorosa, lambita e contagiata sul pianeta dalla stessa
fragilità che segna la storia umana.”
L’ambiente
è “un concetto in costante tensione e lavora alla base della
storia e della politica, delle relazioni sociali e delle
rappresentazioni culturali.” (Lingiardi, 2017, pp. 60-61).
Infatti,
le nostre scelte hanno pesanti e spesso non pensate conseguenze.
Nel campo dell’alimentazione, ad esempio, scegliere se
mangiare carne o no non solo è condizionato da più di un
fattore, ma ha, per di più, imponenti conseguenze per
altri, altrove; tra queste, il depauperamento delle sorgenti
idriche, da addebitare al 70% alla zootecnia, al 20%
all’industria e solo al 10% alla popolazione. L’acqua
utilizzata in un anno da una famiglia di quattro persone
corrisponde a quella adoperata per ottenere cinque chili di
carne rossa. “Per produrre un chilo di carne trita per
hamburger è necessario usare 12 volte la quantità d’acqua
necessaria per un chilo di pane, 64 volte quella impiegata per
ottenere un chilo di patate e 86 volte quella richiesta da un
chilo di pomodori. […] Il pane fornisce circa le stesse
calorie di un hamburger ma consuma un dodicesimo di acqua.”
(Singer, Mason, 2006, p.271).
Scegliere,
quindi, come e cosa mangiare, dunque, significa anche chiedersi
cosa è sicuro per me, consumatore, ma anche: sicurezza
di chi, in rapporto al mio
consumare carne?
Paolo
Vineis (2006), uno tra i tanti ricercatori che abbiamo
consultato su questo tema, ha mostrato che il consumo di certi
cibi è strettamente associato all’aumento della possibilità
di ammalarsi di tumore.
Ma,
inoltre, chi sono coloro sui quali pesa la conseguenza del mio
mangiare carne, ad esempio nei termini di consumo delle risorse
idriche? Basta approfondire la conoscenza dell’allevamento
intensivo di polli, tacchini, vitelli, manzi, suini.
Tali
allevamenti, oltre a produrre desertificazione, inquinamento
organico dovuto al letame (un allevamento con 50.000 suini
genera ogni giorno circa 225.000 chili di urina e escrementi,
che corrisponde grosso modo a quella prodotta da una cittadina
di media grandezza, senza subire i trattamenti elaborati
riservati agli escrementi umani prima di essere rilasciati
nell’ambiente, basti pensare che in North Carolina nel 1995
gli escrementi dei maiali riversati nelle acque uccisero 10
milioni di pesci), inquinamento industriale, dovuto ai
carburanti fossili per via dei trasporti del foraggio che, in
quanto necessario in grandi quantità, è prodotto
altrove: gli allevamenti intensivi di suini utilizzano, ad
esempio, 2,7 chili di cereali per ogni mezzo chilo di carne
disossata prodotta, inquinano le falde acquifere e rovinano la
vita di chi abita nella zona a causa del lezzo prodotto e del
richiamo di mosche e altri insetti.
Inoltre,
(Singer e Mason, 2006, p.275) “la dieta americana standard,
composta per circa il 28 per cento da cibi animali, genera ogni
anno per persona circa 1,5 tonnellate di biossido di carbonio in
più rispetto a una dieta vegetariana di pari apporto
calorico”.
Vorremmo
sottolineare come comunità è anche comunità del futuro, il
che chiama in causa responsabilità relative all’equità e
alla responsabilità sociale; “non è equo né tanto meno
sicuro un cibo che abbatte i costi oggi perché qualcun altro
(più povero o non ancora nato) ne paghi altrove, o domani, e
senza averlo scelto, i costi” (Singer e Mason, 2006, p.309).
Basti pensare al fatto che la foresta pluviale scompare a una
velocità annuale di 25mila chilometri quadrati per lasciare
posto all’allevamento di bestiame e ai campi di soia necessari
per alimentare le bestie. Questo significa quattro ettari e
mezzo al minuto.
Non
ci inoltriamo nella descrizione altrettanto inquietante dei
danni e dei costi relativi alla produzione ittica (un solo
esempio: per produrre una tonnellata di salmone da vendere ai
consumatori delle nazioni più ricche sono necessarie tre o
quattro tonnellate di pescato economico, trasformato in mangime
per i salmoni d’allevamento […] per ogni chilo del quale si
consumano da 2,5 a 5 litri di diesel o di un suo equivalente
[…] inoltre i pesci d’allevamento contaminano quelli
selvatici con malattie e parassiti ai quali sono particolarmente
inclini a causa dell’alta densità di stoccaggio delle gabbie.
Solo in Norvegia nel 2001 dieci milioni di salmoni allevati sono
morti di malattia mentre giovani esemplari selvatici passati
vicino a salmoni allevati presentano livelli di infestazione da
pidocchi di mare 73 volte più elevati che in precedenza (Singer
e Mason, 2006, p.149).
Richiamare
ora l’attenzione sui “danni ambientali
relativi a deforestazione, erosione, scarsità di acqua
potabile, inquinamento dell’aria e dell’acqua, cambiamento
climatico, perdita della biodiversità, ingiustizia sociale,
diffusione di malattie” (Singer e Mason, 2006, p.275), è un
invito a non cadere nella trappola di ‘dimenticare’ il
terreno sul quale molte di queste faccende poggia, proclamando
che ‘adesso ci sono cose ben più importanti a cui
pensare!’, decidendo scientemente di correre il rischio di
dare l’impressione di sottovalutare le questioni sanitarie,
sociali, economiche gravissime che tutti (gli operatori della
salute in primis, ma molti altri oltre a loro) stiamo vivendo.
Infatti,
la sfida climatica “è la sfida più importante del nostro
secolo. Per affrontarla, serve un’analisi attenta delle
politiche nazionali e internazionali, temi che pochissimi
presidiano, e restituirla al grande pubblico” (Rizzo, 2020,
p.71).
Ne
consegue che, “Se un problema è di natura globale, non è
sufficiente che i Paesi attuino politiche e misure in ambito
nazionale. Occorre agire in maniera coordinata livello
internazionale. Il multilateralismo costituisce l’unica
possibilità.” (Brocchieri, 2020, p.71).
Un
multilateralismo che, come psicoanalisti, non possiamo non
pensare metaforicamente riguardante le problematiche più
recenti per nulla sconnesse da altre, di più antica data.
Nell’ottica che, dal fastidioso residuo diurno possa anche in
questi ambiti nascere la perla di un sogno.
Non
di un’utopia, né di un’illusione.
Di
un sogno, che può farsi carico di un ‘lavoro’ volto a
proteggere la nostra salute, come fa il sogno con il lavoro
onirico in difesa della nostra salute mentale.
Iacono
(2020, p.11), ricorda Arnaldo Momigliano, lo “storico antico
che dovette fuggire dall’Italia in seguito alle leggi razziali
del 1938, ebbe a ricordare che «la misura dell’inatteso è
infinita», per sostenere che il disincanto violento provocato
dal Coronavirus può forse svegliarci da un sonno mortifero, che
ci ha finora impedito di credere nella cooperazione, la sola
forza dalla quale possono nascere forme impreviste e inattese di
vita.
Ne
sono un esempio, per concludere, le opere del giapponese Tetsumi
Kudo, la cui atmosfera è “decisamente apocalittica. Il
riferimento è chiaramente al pericolo atomico. […ma] La
minaccia atomica era in effetti solo uno spunto per parlare più
in generale della meccanizzazione e mercificazione dell’uomo
nell’era della società di massa.” (Castelli, 2020, p. 177).
L’attualità
della sua opera sta nel “lato utopista delle sue creazioni
[...] Cultivation by
radioactivity in the Electronic Circuit ha la forma di una
teca da laboratorio dove si coltiva una nuova forma di vita:
esseri vermiformi di forma inequivocabilmente fallica sono il
punto di partenza per la specie futura. Anche nell’ambito
della critica più vibrante, l’ironia è la strada per
immaginare percorsi di rinascita” (Castelli, 2020, p. 177)
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